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Le vaccinazioni anti-covid-19: un complesso problema bioetico e biogiuridico

Ombre
Ph. Paolo Panzacchi / Ombre

1. La pandemia da COVID-19 ha sollevato e imposto all’attenzione diverse questioni bioetiche e biogiuridiche, riguardanti sia le cure sia la prevenzione (cosiddette vaccinazioni). In parte si tratta di questioni nuove, in parte di questioni vecchie, considerate però alla luce di nuove situazioni.

Per quel che attiene alle prime (cure) sono già stati da noi considerati alcuni problemi etici, deontologici e giuridici con l’intervento del 17 marzo 2020 «Coronavirus e raccomandazioni per “medicina delle catastrofi”: qualche riflessione» (pubblicato in questa Rubrica «Osservatorio tre Bio»).

Con l’elaborazione/aggiornamento del (cosiddetto) Piano sanitario (da taluni chiamato anche Piano pandemico) – mentre scriviamo solamente abbozzato, quindi, non ancora approvato – sembra che ci si stia orientando verso l’accoglimento delle «raccomandazioni» (eticamente, deontologicamente e giuridicamente censurabili), proposte dalla SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva). In altre parole, la Bozza di documento predisposta dal Ministero della salute prevede che, in caso di mancanza di risorse, si possa procedere a selezionare chi curare o, almeno, a chi dare la precedenza nelle cure.

Il documento sostiene che ciò sarebbe consentito dai principî etici. Come si è già osservato nell’intervento appena citato, ciò rappresenta, invece, una violazione dell’etica, non una corretta sua applicazione. Le cure, infatti, vanno prestate a tutti coloro che ne hanno bisogno senza altra considerazione se non quella di ristabilirli in salute e di evitare che perdano la vita. Ciò anche quando non si è in grado di stabilire se e in quale misura la persona curata tragga beneficio – tanto meno beneficio sicuro – dalla cura.

Il che non significa che sia moralmente lecito l’accanimento terapeutico. Significa, piuttosto, - lo ripetiamo - che, nell’incertezza circa l’efficacia della cura, questa va prestata a chiunque ne necessiti, prescindendo da valutazioni circa l’età, la possibilità di un completo ristabilimento in salute, la capacità di produzione futura da parte dell’individuo e via dicendo.

Per quel che attiene, invece alla prevenzione (la cosiddetta vaccinazione) si sono imposti nuovi problemi, riguardanti la liceità morale della vaccinazione in sé, la sua efficacia e non pericolosità, le sostanze usate per produrre il vaccino, lo stato di necessità o meno dell’azione preventiva. Su ognuno dei problemi elencati è opportuno portare l’attenzione, soprattutto perché essi investono questioni etiche e giuridiche rilevanti.

 

2. È opportuno, prima di entrare in medias res, una breve premessa.

L’etica non è un fatto di solo costume. I costumi rivelano la «concezione» etica condivisa e praticata, ma non sono l’etica. L’etica, infatti, è criterio del costume, non suo prodotto. La pratica effettiva può essere di aiuto o di ostacolo al rispetto dell’etica. Il costume, pertanto, è solamente una «condizione ambientale», la quale facilita o rende difficile all’individuo la sua formazione morale e la pratica delle virtù o dei vizi. L’etica, quindi, non va confusa con le «scelte condivise» e praticate in un contesto sociale.

Non è sostenibile, poi, la tesi secondo la quale essa trova la sua massima espressione (e codificazione, sia pure evolutiva) nell’ordinamento giuridico positivo dello Stato o negli ordinamenti giuridici internazionali: l’etica, infatti, non può essere sussunta né nel «senso della storia», né nel potere (erroneamente) definito politico, né nella sua conformità a «sistemi» (impropriamente) definiti filosofici, né nell’ordine pubblico imposto con un sistema (coerente) di norme.

L’etica è la dottrina elaborata sulla base di un’indagine speculativa riguardante i criteri dell’agire umano, il quale deve tendere al bene ed evitare il male. L’etica, inoltre, è scienza dell’uomo (come la definì, per esempio, Pascal adottando forse una categoria eccessivamente ampia) e, pertanto, scienza particolarmente attenta all’uso che l’uomo deve fare della sua libertà per conseguire il suo fine ultimo. Essa, quindi, è innanzitutto conoscenza del bene e del male, del giusto e dell’iniquo in sé. Non può, perciò, essere lasciata né alle sole arbitrarie opzioni individuali né alle volontaristiche decisioni collettive. Ciò è da tener presente, perché è rilevante anche per quanto di seguito si dirà.

 

3. Procediamo per gradi. Consideriamo, perciò, brevemente ognuna delle questioni precedentemente elencate.

a) Liceità della vaccinazione

La vaccinazione contro le malattie è legittima. Non, però, in maniera assolutamente incondizionata. Non è lecito, a questo proposito, applicare il criterio secondo il quale, poiché le malattie sono possibili, è opportuno asportare preventivamente parti o organi del corpo umano per evitare il loro insorgere.

Non è lecito, pertanto, praticare la mutilazione preventiva. È lecita, infatti, solamente la mutilazione terapeutica. Così, per esempio, si devono asportare le tonsille se ammalate ed incurabili; non si devono, invece, asportare le medesime tonsille solamente per evitare che esse in futuro si ammalino.

Ciò vale anche per le vaccinazioni. Esse, infatti, sono lecite solamente se le malattie, che ci si prefigge di prevenire (e, quindi, di evitare), sono effettivamente probabili ovvero qualora la loro contrazione sia molto probabile e, se contratte, siano causa di un danno grave permanente per il soggetto umano. Per esempio, la vaccinazione contro la poliomielite è lecita moralmente perché il suo contagio (probabile in un contesto sociale) sarebbe di danno grave e permanente per l’individuo umano.

 

b) Preliminare condizione di liceità della vaccinazione

La vaccinazione, poi, non deve presentare elevati rischi di reazioni avverse importanti e dalle conseguenze particolarmente gravi (che possono, talvolta, arrivare a rappresentare un pericolo per la vita in sé).

Deve essere fatta, perciò, innanzitutto una severa valutazione circa i pericoli che essa comporta per il soggetto (umano). Il bilanciamento dei pro et contra, inoltre, va fatto con riferimento ai benefici dell’individuo umano. Non, quindi, considerando i vantaggi della scienza o dell’umanità: nessuno può essere sacrificato (e per nessuna ragione) sull’altare della conoscenza e di ipotetici benefici futuri per il genere umano.

 

c) Condizioni di liceità aggiunte

La vaccinazione, poi, deve essere veramente efficace e non pericolosa. La sua efficacia postula che sia già stata fatta un’adeguata sperimentazione scientifica, per la quale sono richiesti tempi lunghi, capacità di «lettura» del processo sperimentale da parte degli sperimentatori e valutazioni di organi competenti.

È necessario, in altre parole, un’attenta considerazione dei (cosiddetti) Protocolli sperimentali, una collaudata procedura, un riconoscimento della validità dei risultati da parte della comunità scientifica, la loro approvazione da parte degli organi competenti.

Con riferimento ai vaccini anti-COVID-19 è doveroso porsi la domanda se tutti questi criteri sono stati rigorosamente rispettati. Non è sufficiente, infatti, «non vedere» controindicazioni al vaccino. È necessario che esse non ci siano e, se ci fossero, è necessario che non siano tali da rendere immorale e antigiuridica la vaccinazione. Se, comunque, questi criteri non fossero stati rispettati per la vaccinazione anti-COVID-19 saremmo, nell’ipotesi migliore, in presenza di una vaccinazione di massa che, propriamente, sarebbe un’incontrollata sperimentazione «di gregge». Se così fosse, dovrebbero sorgere serî dubbi sulla liceità morale oltre che giuridica della vaccinazione medesima.

Il fatto che per alcuni vaccini (Moderna, per esempio) sia previsto il follow-up per due anni sta a significare che la sperimentazione non può considerarsi attualmente (2021) conclusa. Non può considerarsi conclusa nemmeno quella sperimentazione (riguardante, per esempio, il vaccino Oxford/Astrazeneca) i cui dati a livello di paziente saranno forniti (come hanno dichiarato gli sperimentatori e i produttori) «quando lo studio sarà completato». Sono notizie riportate persino dalla stampa quotidiana (16 gennaio 2021, per esempio).

La stampa quotidiana riferisce pure dichiarazioni e richieste di virologi e farmacologi secondo i quali è essenziale «avere a disposizione i dati singoli in base ai quali Fda e Ema hanno valutato e autorizzato i vaccini Pfizer e Moderna». Queste notizie, dichiarazioni e richieste contribuiscono ad aumentare i dubbi sulla liceità morale e giuridica della vaccinazione anti-COVID-19.

 

d) Una questione da chiarire

I dubbi circa efficacia e sicurezza della vaccinazione anti-COVID-19 potrebbero aumentare ulteriormente se si considera che il vaccino è stato predisposto per combattere un virus di cui non si conosce pienamente né la natura né la sua evoluzione (rectius le modalità della sua evoluzione).

Secondo alcuni medici, infatti, sarebbe nota la sua «natura chimica», non la sua «natura biologica». Altri medici sostengono che dalle conoscenze di questo virus attualmente in possesso della comunità scientifica, non è possibile conoscere né tutti gli effetti della malattia né tutti gli effetti (effetti collaterali e reazioni avverse) della vaccinazione. In altre parole non è dato sapere né il grado dell’efficacia né la sua (della vaccinazione) vera pericolosità. È lecito agire (cioè è lecita una sperimentazione di massa) in presenza di molti aspetti ancora oscuri relativi alle conseguenze?

I virologi, i biomedici e i medici, inoltre, discutono circa la capacità della vaccinazione anti-COVID-19 di modificare il DNA e lo RNA umano. I più dichiarano che questa è una falsa questione, alimentata soprattutto da coloro che per principio sono anti-vax. Una virologa dell’Arizona (U.S.A.) ha sostenuto che la vaccinazione anti-COVID-19 non è idonea a questa modificazione, perché il vaccino anti-COVID-19 (non ha precisato quale vaccino) avrebbe un’azione sull’organismo umano effimera; i suoi effetti, cioè, avrebbero una durata molto breve, tanto che – disse – sono necessari i richiami. Non intendiamo sposare nessuna tesi, non avendo gli elementi, gli strumenti e le argomentazioni né per sostenere l’una né per condividere l’altra. Ci limitiamo, perciò, a rilevare l’esistenza di un problema la cui soluzione è condicio sine qua non per la liceità morale e giuridica della vaccinazione.

 

e) Il problema del siero del vaccino anti-COVID-19

Per quel che riguarda il vaccino anti-COVID-19 è sorta una questione etica sulla quale il 21 dicembre 2020 è intervenuta anche la Congregazione per la Dottrina della Fede della Chiesa (cattolica). Tutto è nato dal fatto che il siero del vaccino anti-COVID-19 conterrebbe cellule di feti abortiti o linee cellulari di feti abortiti. Poiché l’aborto è un male, si osserva che non sarebbe lecita la vaccinazione anti-COVID-19: essa, infatti, comporterebbe una cooperazione al male. In altre parole, chi ne usufruisse coopererebbe materialmente con coloro (madre e medico) che attivamente e positivamente sono responsabili dell’aborto.

La questione ha sollevato un vivace dibattito. Talvolta esso è stato condotto sulla base di presupposti errati. Per esempio, è stata tirata in ballo la questione dell’atto (dell’atto umano) a duplice effetto, che nel caso de quo non centra affatto: la vaccinazione anti-COVID-19, infatti, non rileva con la natura dell’atto a duplice effetto. Quello a duplice effetto è l’atto umano dal quale possono derivare due conseguenze: una positiva (e lecita), l’altra negativa (e illecita se fosse stata perseguita direttamente o se la possibilità che si verifichi fosse tanto alta da prevalere su quella positiva).

L’atto a duplice effetto richiede, dunque, un’attenta valutazione delle sue conseguenze e una ponderazione della probabilità dei suoi effetti negativi. Esso è eticamente lecito in caso di stato di necessità e se le conclusioni circa la probabilità delle sue conseguenze negative inducono a ritenerle inferiori a quelle positive (raggiungimento del fine principale e diretto dell’atto umano lecito).

La vaccinazione anti-COVID-19 intende conseguire il solo fine di immunizzare il soggetto che accetta di essere vaccinato. Potrebbe avere – è vero – come conseguenza anche un male (per esempio e facendo l’ipotesi peggiore, la morte del vaccinato). Questo aspetto (la sua conseguenza, quindi) non riguarda, però, necessariamente la natura del vaccino oggetto di discussione per il siero del vaccino medesimo. Il fine negativo della vaccinazione, infatti, potrebbe conseguire anche in seguito alla somministrazione di un vaccino valido ed efficace, ottenuto con elementi («principî») leciti (o, almeno, eticamente indifferenti), somministrati dopo lunga ed attenta sperimentazione, prudentemente approvato da organi competenti, usato dal medico con discernimento.

La questione de quo è a monte, non a valle. Non riguarda le conseguenze, ma le premesse. La discussione sulla liceità morale dell’uso del vaccino anti-COVID-19, pertanto, investe aspetti che non hanno una stretta attinenza con l’atto umano a duplice effetto.

Innanzitutto, però, andrebbero approfondite alcune questioni. Fra queste andrebbero considerate quelle relative alla liceità etica e giuridica dell’uso dei «resti umani». In altre parole sarebbe necessario chiedersi

se è lecito usare i «resti umani» (compresi, quindi, i feti) per la ricerca e la produzione dei vaccini (o di altri prodotti farmaceutici);

se è lecito usarli in difetto del consenso di colui al quale i «resti umani» appartengono (o appartenevano) o di coloro che sono titolari di poteri giuridici su questi resti (considerati, talvolta, «rifiuti sanitari»), a cominciare dai genitori;

se i «resti umani» investono una questione etica e simultaneamente giuridica con ricadute legali relativamente alla sola «pietà» e al sentimento individuale, oppure se essi sono da considerarsi «indisponibili» da parte di chiunque (compreso chi potesse vantare su essi «diritti» e «poteri»);

se è lecito il commercio dei «resti umani».

Sono tutte questioni che andrebbero considerate in via preliminare e che finora dottrina, normativa e giurisprudenza non hanno considerato in maniera approfondita, cioè a 360°. È vero che vige la normativa circa il rispetto dovuto al cadavere o a sue parti (cfr. C.P. artt. 407-413 e D. P. R. n. 254/2003), nonché la normativa riguardante la cremazione e la (eventuale) dispersione delle ceneri (Legge n. 130/2001). È vigente, inoltre, la normativa relativa ai «rifiuti sanitari» nei quali sono stati inseriti «i prodotti del concepimento» (D. P. R. n. 285/1990 oltre all’appena citato D. P. R. n. 254/2003).

Alcuni Regolamenti regionali di Polizia mortuaria (si veda, ad esempio, la Regione Lombardia, Reg. reg. n. 6/2004, modificato con Reg. reg. n. 1/2007), poi, disciplinano la medesima materia, estendendo però rispetto alla normativa nazionale lo «ius sepulcri» a tutti i prodotti abortivi, prescindendo dal criterio cronologico. Per lo più, però, si è prestata attenzione a talune facoltà riconosciute come diritti di «autodeterminazione» soggettiva. Le norme in vigore (il R.D. n. 1238/1939, il D. P. R. n. 285/1990, il D. P. R. n. 254/2003), poi, regolamentano principalmente l’attività dello stato civile. I Regolamenti di polizia mortuaria in vigore, inoltre, dispongono circa la sepoltura facoltativa dei feti abortiti a richiesta dei genitori. Non entrano esplicitamente (talvolta nemmeno implicitamente) nel merito delle questioni di cui sopra, in particolare evitano il problema dell’uso dei feti.

Il rispetto del cadavere è atto umanamente dovuto. Ora, è da ritenere – nonostante la discordia dottrinale circa tale nozione e nonostante il tentativo giurisprudenziale non completamente riuscito di una sua definizione – che i feti abortiti siano da considerare cadaveri o, a seconda della «tecnica» usata nel caso di aborto procurato, parti di cadavere, «riconoscibili» come appartenenti a un corpo umano privo di vita (D. P. R. n. 254/2003). Il cadavere o le parti di cadavere, quindi, non sono res nullius. Ciò rappresenta un primo aspetto di una complessa questione giuridica, rilevante anche penalmente.

Nessuno, infatti, può disporre come vuole del cadavere o di sue parti. Non solo perché la legge positiva regolamenta la materia sotto il profilo igienico e sanitario, ma anche perché essi non sono «liberati» dalle preesistenti relazioni umane le quali stanno alla base della «pietà dei defunti», riconosciuta rilevante e tutelata dai Codici penali. La «pietà», poi, - è bene precisarlo - non è da intendere come mero sentimento soggettivo. Essa, infatti, rappresenta un dovere, il quale è in capo anche a chi, soggettivamente, non ha «pietà». Quindi, questo dovere è (o dovrebbe essere) in capo anche alla madre che chiede e pratica l’aborto e in capo anche a chi fosse nella condizione di poter disporre dei cadaveri o di parti dei cadaveri riconoscibili come appartenenti a un corpo umano privo di vita. Nessuno, infatti, può farne commercio. Nessuno può rendere oggetto di donazione il cadavere o parti di cadavere riconoscibili come appartenenti a un corpo umano privo di vita. La materia, infatti, è di ordine pubblico, come si dice.

Il problema, però, non è di solo diritto positivo. In altre parole, il rispetto dovuto al cadavere (o a parti di esso) investe anche e innanzitutto questioni etiche. Come si è accennato supra sub 2, l’etica non si identifica con il costume. Ci sono società nelle quali per costume non si porta rispetto al cadavere. Ciò non significa che le loro usanze siano legittime.

La questione, pertanto, che si pone relativamente al caso oggetto di considerazione è se è moralmente lecito usare i feti abortiti per la creazione del siero del vaccino anti-COVID-19. In altre partole, bisogna domandarsi se a tal fine è sempre consentito fare ricorso a linee cellulari di feti abortiti e, quindi, privi di vita. Il problema è innanzitutto proprio questo: i feti cui si fa ricorso sono realmente morti?

La domanda non è oziosa, perché ci sono autori – persone competenti, informate e responsabili – che affermano che nella realtà non si fa sempre ricorso all’aborto. In taluni casi si opterebbe – senza che esista una reale necessità di praticarlo – per il «parto cesareo» e si procederebbe all’estrazione del tessuto «a cuore battente», mentre cioè la creatura non nata sarebbe ancora viva. Se così fosse, la questione assumerebbe aspetti e rilievi sia etici sia giuridici assolutamente diversi. Personalmente non abbiamo notizie certe in tal senso.

Torniamo, comunque, «a bomba» e consideriamo il problema presupponendo (e, quindi, partendo dall’ipotesi) che i feti siano effettivamente morti. A questo proposito è opportuna innanzitutto una distinzione. C’è, infatti, feto e feto abortito. Ci sono feti abortiti in seguito ad aborto «spontaneo» e feti abortiti in seguito ad aborto «procurato».

Il problema può essere posto con chiarezza – ci sembra – considerando una questione analoga a quella che ci interessa, una questione già posta, per esempio, da Dante nella Divina Commedia. «Poscia, più che ‘l dolor, poté il digiuno», scrive infatti Dante nel Canto XXXIII dell’Inferno (v. 75). Il conte Ugolino della Gherardesca, secondo un’interpretazione del citato verso dantesco, si sarebbe cibato delle carni dei figli morti. Atto antropofagico, dettato dalla fame e dall’istinto di sopravvivenza. Non sarebbe stato il primo e nemmeno l’ultimo. Lo stesso Dante nel Canto XXIII del Purgatorio (v. 30) richiama l’episodio di Maria di Eleazaro che, durante l’assedio di Gerusalemme del I secolo d. C., divorò il figlio dopo averlo ucciso. Altro atto antropofagico ma assai diverso, quanto meno nelle premesse, rispetto a quello del conte Ugolino: questi, infatti, si cibò dei figli morti; Maria di Eleazaro uccise il figlio per potersi di esso cibare.

I due episodi sono stati qui richiamati perché – come si è anticipato – presentano, a nostro avviso, una problematica analoga a quella sollevata dall’uso di feti abortiti per la preparazione del siero del vaccino anti-COVID-19: l’uso del feto nato morto e quello del feto ucciso e, poi, utilizzato sono anch’essi diversi quanto meno nelle premesse. E i feti nei due casi sono «utilizzati» nel tentativo di salvare la vita, quindi per consentire (forse) la sopravvivenza di altri esseri umani. Trattasi di un fine idoneo a giustificare (eticamente e giuridicamente) il mezzo?

Secondo la Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr. Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla moralità dell’uso di alcuni vaccini anti-COVID-19, 21. 12. 2020) la risposta è positiva: qualora non siano disponibili altri mezzi o altri vaccini eticamente ineccepibili (quindi, in presenza di un grave e attuale stato di necessità) si possono usare vaccini «che hanno usato linee cellulari provenienti da feti abortiti nel loro processo di ricerca e di produzione» (n. 2).

L’uso di cadaveri (comprendendo fra essi anche i feti abortiti) per la ricerca e la produzione del vaccino non investe il problema dell’aborto in sé. Riguarda esclusivamente la liceità di utilizzare il cadavere, frutto dell’aborto. L’aborto procurato (e, ancor prima, l’intenzione con la quale esso viene procurato) è «altra» questione i cui aspetti richiedono un’articolata ed approfondita valutazione. L’aborto procurato è e resta moralmente illecito. Tale resta anche giuridicamente, perché la norma positiva non ha il potere né di «creare» il diritto né di modificare il diritto naturale. Resta aperta, poi, la questione circa l’efficacia e la sicurezza del vaccino anti-COVID-19, non ancora adeguatamente sperimentato: le informazioni scientifiche «astratte», infatti, non possono sostituire quelle derivanti da una seria e lunga sperimentazione fatta sul campo, la quale dovrebbe essere la prova/dimostrazione della loro vera scientificità.

 

f) Vilipendio di cadavere?

Secondo la Corte di Cassazione (Corte di Cass. Pen. – Sez. III, Sentenza 21.2.2003, n. 17050) «il reato di vilipendio del cadavere è integrato da qualunque manipolazione di resti umani […] non resi necessari da prescrizioni tecniche dettate dal tipo di intervento o addirittura “vietati”».

L’utilizzo del cadavere dei feti è da considerarsi reato? Si deve propendere per la risposta positiva certamente nel caso difetti il consenso di chi ha titolo per pretendere o rivendicarne il rispetto. La risposta è positiva, inoltre, nel caso la normativa vigente ne vieti assolutamente l’uso anche nel tentativo di uscire da un grave e attuale stato di necessità, dal quale non si potrebbe uscire altrimenti.

Ciò, però, non significa rendere assolutamente indisponibile l’uso del cadavere e in particolare del feto morto. Possono verificarsi, infatti, situazioni nelle quali l’utilizzo del cadavere non configura né un illecito morale né una violazione giuridica. Il caso richiamato del conte Ugolino (reso immortale da Dante) ma anche i casi di antropofagia di Pedro Algorta (bloccato per 71 giorni sulle Ande in seguito a un incidente aereo) oppure quello dei passeggeri sopravvissuti nel 1972 a un analogo incidente, evidenziano lo stato di grave e attuale necessità che impose loro la pratica dell’antropofagia («l’umiliazione più grande», scrisse Canessa che fu fra coloro che la praticarono) e, quindi, il mancato rispetto del cadavere fatto esclusivamente al fine della sopravvivenza. Tanto che uno dei sopravvissuti all’incidente del 1972 – l’appena citato Canessa (ora cardiologo pediatrico) – ha scritto un libro (insieme a Pablo Vierci) dal significativo ed eloquente titolo Dovevo sopravvivere (Uruguay, Carlo Delno editore, 2016, trad. italiana Sassari, Delfino Carlo editore, 2018). Il che non significa evidentemente che sia lecito il baratto della vita di alcuni per la vita di altri: il cadavere è corpo privo di vita. Dunque, esso non è comparabile con il corpo di un soggetto in vita. Merita rispetto ma non al punto da sacrificare vite umane per tutelare un rispettabile sentimento, il sentimento della «pietà» verso i defunti.

Del resto, l’ordinamento italiano, pur presentando diverse contraddizioni a questo proposito, ha accolto da tempo la ratio secondo la quale è consentito il prelievo di parti di cadavere sia a scopo di trapianto terapeutico sia per la produzione di estratti per uso terapeutico. Si possono discutere e persino censurare, per esempio, alcune disposizioni della Legge n. 644/1975 e sue successive modificazioni (per esempio, non è pacifico il criterio assunto della «morte cerebrale» come momento effettivo della morte dell’individuo e si possono nutrire dubbi circa la legittimità di tempi e modalità degli espianti). Non sembrano né discutibili né censurabili, però, le «utilizzazioni» consentite, le quali – nel rispetto delle condizioni stabilite e nel rispetto delle modalità prescritte – non costituiscono (ovviamente) reato, ma neanche peccato. È vero: la ratio non è mai giustificatrice di se stessa. Essa, infatti, in sé e per sé non costituisce il fondamento legittimo né delle prescrizioni, né dei divieti, né delle autorizzazioni. La ratio, infatti, sia delle scelte, sia delle singole norme, sia dell’ordinamento, consente di capire la finalità operativa delle scelte, delle norme, dell’ordinamento. Essa non va «oltre». Illustrare o rendere evidente, però, non significa fondare. Capire perché si agisce, cioè qual è lo scopo dell’azione, non significa legittimare l’agire medesimo. Esso necessita di «altro» per essere eticamente e giuridicamente giustificato. Tuttavia, la citata Legge n. 644/1975, come precedentemente quella con la quale si è consentito il trapianto di rene (Legge n. 458/1967), consente di comprendere il problema sul quale ci siamo brevemente soffermati, parlando del rispetto dovuto al cadavere, anche se – come si è detto – il rispetto ad esso dovuto non è da considerarsi assoluto, cioè preclusivo di ogni sua possibile «utilizzazione» in caso di necessità e in presenza di particolari, gravi, straordinarie circostanze.

 

4. È opportuno, prima di concludere, portare l’attenzione su almeno tre questioni che sono state da diverse parti evocate nel tentativo di dimostrare il dovere etico di sottoporsi alla vaccinazione anti-COVID-19.

Le tre questioni riguardano rispettivamente

il dovere di mantenere o di ristabilire la salute;

il dovere di prevenire i contagi in presenza di pandemie, richiesto dal bene comune;

il dovere (da parte dell’autorità) di imporre, a coloro che la rifiutano, la vaccinazione con TSO (Trattamento sanitario obbligatorio) al fine di preservare il «bene salute» a tutti i (o alla maggioranza dei) cittadini evitando (o ritenendo di evitare), così, anche danni ai bilanci pubblici.

In questo senso si sono recentemente pronunciate autorità religiose e civili, talvolta in contraddizione con quanto precedentemente sostenuto (e, persino, approvato e disposto).

Andiamo anche a questo proposito per gradi. Consideriamo, innanzitutto, il dovere morale di mantenere o di cercare di ristabilire la salute da parte dell’individuo. Non c’è dubbio che la salute è un bene della persona umana. Essa deve essere conservata. Ogni essere umano deve impegnarsi, a tal fine, a fare quello che ne favorisce il mantenimento e ad evitare tutto ciò che rappresenta per essa un pericolo o che le è effettivamente di danno.

L’uomo, pertanto, è chiamato a condurre una vita ordinata e virtuosa. Deve evitare i vizî. Non deve assumere sostanze nocive (o virtualmente nocive) al suo organismo. Per esempio: deve astenersi dall’assunzione di droghe per finalità di comodo e deve evitare gli eccessi del consumismo, i quali spesso favoriscono l’insorgere di malattie. Deve, piuttosto e all’opposto, alimentarsi in maniera razionale ed equilibrata al fine di conservare la salute del proprio corpo. Pertanto e per esempio, non deve rifiutare di nutrirsi per (presunte) ragioni estetiche, cadendo così facilmente in vere e proprie malattie (per esempio nell’anoressia o, al contrario e spesso in seguito a questa, nella bulimia).

Deve, inoltre considerare che la salute non va esposta a rischi per imprudenza, per esibizione, per guadagno e via dicendo. Se ammalato, l’individuo umano ha il dovere di curarsi. Innanzitutto considerando che questo è un dovere che riguarda se stesso e considerando, inoltre, gli eventuali suoi doveri verso altri. Il suo riconosciuto «diritto» di rifiutare le cure (Legge n. 219/2017) rappresenta, pertanto, un’indicazione sbagliata e riconosce una facoltà priva di fondamento sia etico sia giuridico (anche se «legale»).

La vaccinazione, ogni vaccinazione (quindi anche quella anti-COVID-19), però, è un dovere come sostiene anche la citata Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede (n. 5)? La risposta è subordinata alla risposta a un’altra questione. La tutela, infatti, che si intende perseguire in maniera preventiva con la vaccinazione non è, strettamente parlando, un dovere etico. Lo diventa solamente in alcuni casi e in particolari circostanze. La prevenzione, infatti, non è la cura della salute.

Essa – la prevenzione – può essere moralmente richiesta (e l’individuo potrebbe esservi moralmente tenuto) nel caso si stimi fondatamente che la situazione presenti per il soggetto reali ed elevati pericoli, attuali e aperti alla probabilità di tradursi in realtà, altamente probabili di essere causa di malattie gravi e della loro diffusione. La vaccinazione, però, deve essere veramente idonea a evitare i contagi senza esporre simultaneamente l’individuo che vi si sottopone ad altri pericoli e rischi per la sua salute.

Per quel che attiene alla questione del (presunto) dovere di vaccinazione anti-COVID-19 per ragioni legate al perseguimento del bene comune, va notato che il problema può e deve essere considerato sotto diversi aspetti. Innanzitutto si dovrebbe evitare un errore: l’identificazione del bene comune con l’interesse generale. Perciò sarebbe necessario non considerare la vaccinazione anti-COVID-19 come strumento utile esclusivamente ad evitare l’aggravio dei bilanci pubblici a causa delle condizioni sanitarie. Va notato, a questo proposito, per inciso che l’assistenza sanitaria pubblica, pur presente e assicurata dalla maggioranza degli Stati contemporanei, non è loro compito essenziale, non riguardando le competenze propriamente politiche (la cura e l’assistenza sanitaria è compito, infatti, del privato ed eventualmente della società civile).

Se fosse rilevante per il bene comune, il danno ai bilanci pubblici dovrebbe essere valutato considerando anche diverse altre cause del loro aggravio. Per esempio, le spese per i ricoveri e le cure dovute ai feriti in incidenti stradali, gli investimenti necessari per la cura delle malattie causate dai vizî (talune forme di cirrosi epatica, molti casi di diabete, tumori ai polmoni provocato dal fumo di sigarette, etc.). Certamente anche la polmonite da COVID-19 richiede attenzioni e responsabilità individuali. Non sempre, infatti, vengono osservate le norme igieniche basilari e opportune per evitarla e, quindi, utili a diminuirne la diffusione.

Il bene comune, però, riguarda solo marginalmente la questione. Esso – è vero – può essere legittimamente invocato al fine di responsabilizzare ogni individuo affinché assuma comportamenti corretti: tutti, infatti, hanno responsabilità verso gli altri. Nessuno deve causare loro, né direttamente né indirettamente, danni ingiusti. Quindi tutti devono cercare di non contribuire alla diffusione della pandemia da COVID-19. Il bene comune in quanto tale, però, non rileva direttamente per la questione oggetto di considerazione. Esso, infatti, è il bene proprio di ogni uomo in quanto uomo e, perciò, bene comune a tutti gli uomini. Questo bene è conseguibile in condizioni di benessere e di miseria, di salute e di malattia. Ora questo bene poco rileva per la vaccinazione anti-COVID-19, la quale resta una scelta ed un fatto individuale e sociale, ma di nessun rilievo politico.

Relativamente, infine, al ritenuto dovere delle autorità di imporre il TSO al fine di conseguire una vaccinazione «di gregge», va osservato che lo stesso TSO, previsto dalla Legge n. 833/1978, riguarda i soggetti colpiti da malattie mentali e i problemi della salute che un tempo venivano curati negli ospedali psichiatrici, spesso considerati luogo di solo ricovero e non di cura (i cosiddetti manicomi). Può, il TSO, essere imposto anche per la vaccinazione anti-COVID-19? La Costituzione repubblicana (art. 32) stabilisce solennemente che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».

La già citata Legge n. 219/2017, poi, consente all’individuo di rifiutare le cure, anche quelle per lui indispensabili al recupero della propria salute. Allo stato manca una norma di legge (non, quindi, un qualsiasi DPCM) che imponga nominativamente la vaccinazione anti-COVID-19. Certamente potrebbe essere approvata. Essa, però, non dovrebbe riguardare la salute ma la sanità. Quest’ultima, poi, dovrebbe investire non i problemi dell’organizzazione del Sistema Sanitario Nazionale ma problemi di igiene e di ordine pubblico. In altre parole e per esempio, non potrebbe essere considerata una motivazione per la legge che prescrivesse la vaccinazione anti-COVID-19 la valutazione di posti letto disponibili negli ospedali e, in particolare, nelle terapie intensive.

Ciò è problema organizzativo, non igienico e nemmeno di ordine pubblico.

Pare difficile al momento individuare argomentazioni «forti» per l’approvazione di una legge che stabilisca la vaccinazione obbligatoria. È da auspicare, perciò, che coloro che invocano l’applicazione del TSO lo facciano a scopo psicologico-terroristico, cioè per indurre ad «accettare» una vaccinazione di massa, nonostante i problemi aperti che essa presenta e cui si è accennato. Diversamente si dovrebbe pensare che ignorino le disposizioni costituzionali e diverse norme ordinarie. Non solamente quelle recentemente approvate e da poco entrate in vigore, ma anche quelle in vigore da decenni, in particolare la citata Legge n. 833/1978 con la quale il TSO è stato istituito e per il quale è, comunque, richiesta una forma di consenso (art. 33).