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Coronavirus e raccomandazioni per «medicina delle catastrofi»: qualche riflessione

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1. La pandemia da Coronavirus, esplosa in Cina all'inizio del 2020 e rapidamente diffusasi in altri Paesi (dapprima particolarmente in Italia), ha posto anche alcuni problemi di natura etica, politica e giuridica.

Diversi governi, infatti, hanno temporeggiato nel contrastare l’epidemia. Essi, in un primo momento, hanno sperato che si trattasse di una nuova forma di influenza, destinata a scomparire in un breve lasso di tempo. Successivamente hanno dovuto prendere atto che non si trattava di una forma di influenza, ma che l’epidemia (trasformatasi rapidamente in pandemia) era causata da un nuovo virus per combattere il quale non c’erano (e non ci sono ancora) cure farmacologiche: la prevenzione, per ora, è l’unico «rimedio».

Temendo contraccolpi sul piano economico, diversi governi si sono limitati a fornire raccomandazioni e a dare consigli e suggerimenti. In un contesto nel quale il senso di responsabilità (sia morale sia giuridica) è scemato, le raccomandazioni, i consigli, i suggerimenti si sono rivelati pressoché inutili.

Le valutazioni economiche che avevano determinato una sostanziale desistenza dei governi sono mutate con il diffondersi della pandemia. Perciò i governi si sono visti «costretti» a prendere provvedimenti. Quello che rileva – la cosa va sottolineata – è il primato assegnato in queste condotte e con queste condotte governative all’economia sulla politica, sulla base del quale si è agito. Non si tratta di senso di responsabilità, ma di un errore che permea la «politica» del nostro tempo. In molti, forse in tutti i Paesi del mondo.

2. Non è il caso di approfondire la questione, che pure rileva e rileva pesantemente sotto diversi profili.

Quello sul quale è, invece, opportuno riflettere e riflettere urgentemente alla luce dell’evolversi della situazione è un problema etico, che è emerso con forza e che ha pure rilievo giuridico.

Intendiamo riferirci alle Raccomandazioni di etica clinica, diffuse dalla Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) per gestire l’ammissione ai trattamenti intensivi, dopo che da parte dei soggetti coinvolti sono stati compiuti tutti gli sforzi possibili per aumentare la disponibilità di risorse erogabili.

La SIAARTI ha ritenuto opportuno «offrire un supporto professionale e scientifico autorevole a chi è costretto dagli eventi quotidiani a prendere decisioni a volte difficili e dolorose». In particolare ai medici anestesisti e ai rianimatori chiamati, in presenza dell’emergenza creata dalla pandemia COVID-19, negli ospedali italiani a operare scelte dettate da «medicina delle catastrofi». Le Raccomandazioni sono rivolte anche agli altri medici e agli infermieri, nonché – ci pare – a tutti coloro (dirigenti ospedalieri, pazienti, genitori, tutori, etc.) che sono chiamati a concorrere al processo decisionale.

Innanzitutto va sottolineato che le Raccomandazioni della SIAARTI non sono «pareri» di Comitati etici, né hanno valore giuridico normativo. Per la qualcosa la loro «applicazione» non esime il responsabile della decisione dalla responsabilità giuridica (oltre che morale). Esse, tuttavia, assumono un rilievo significativo, analogo a quello esercitato dai «Protocolli».

Con una differenza non irrilevante, che va considerata: il «Protocollo» dà (o presume di dare) indicazioni scientifiche; le Raccomandazioni, invece, dànno (o presumono di dare) indicazioni etiche per le quali anche la SIAARTI può certamente contribuire pur non avendo specifiche competenze. Le Raccomandazioni, infatti, si prefiggono – lo dichiarano esplicitamente – di offrire un «supporto» al fine di «contribuire a ridurre l’ansia, lo stress e soprattutto il senso di solitudine». Dunque, il «supporto» non avrebbe essenzialmente nemmeno natura etica; avrebbe, piuttosto, unicamente una finalità psicologica.

Il problema, però, esiste. Non in senso accademico, ma esistenzialmente. Chi si trova ad operare negli ospedali ed è chiamato dalle circostanze a decidere deve risolverlo caso per caso, «concretamente», hic et nunc. Dunque, va considerato con urgenza, con competenza e con senso di responsabilità soprattutto etica.

Che cosa propone la SIAARTI per risolverlo? Propone di adottare alcuni criteri dopo aver cercato di percorrere alcune strade che potrebbero favorire la soluzione, rectius di evitare il problema.

Innanzitutto, la SIAARTI, responsabilmente, invita tutti i soggetti coinvolti a impegnarsi in uno sforzo «per aumentare la disponibilità di risorse erogabili». A ciò sono chiamati i politici, gli amministratori i dirigenti delle strutture ospedaliere, gli stessi medici ospedalieri.

Invita, poi, a utilizzare «ogni possibilità» per curare gli ammalati. Fra queste possibilità figura il trasferimento dei pazienti in centri con maggiori possibilità di risorse. Quindi, le Raccomandazioni della SIAARTI invitano a utilizzare ogni risorsa prima di addentrarsi nella considerazione della questione etica (e deontologica) posta dalla situazione emergenziale.

L’eventuale disimpegno o l’eventuale omissione della valutazione richiesta comporterebbe già di per sé una grave responsabilità sia etica, sia giuridico-civilistica, sia giuridico-penale. Fatto ogni sforzo e valutata ogni possibilità, il problema potrebbe perdurare. Che fare, allora, secondo la SIAARTI? In altre parole, come dovrebbe comportarsi il medico, in particolare l’anestesista e il rianimatore?

La SIAARTI suggerisce, tra l’altro, quanto segue:

  1. Il medico sarebbe tenuto a valutare i pazienti da sottoporre a trattamenti intensivi sulla base della possibilità di ripresa.
  2. Il medico sarebbe tenuto a privilegiare i pazienti con maggiori speranze di vita.
  3. Il medico sarebbe tenuto a considerare i limiti di età, favorendo chi ha (o potrebbe avere) più anni di vita salvata.
  4. Il medico dovrebbe considerare la volontà del paziente (eventualmente) espressa nei documenti previsti dalle DAT (Disposizioni anticipate di trattamento) o espressa nella circostanza concreta (autodeterminazione della persona assistita).
  5. Il medico sarebbe tenuto a motivare perché è stato ritenuto «non appropriato» l’accesso alla terapia intensiva e a comunicare e a documentare la decisione.
  6. L’esclusione dalla terapia intensiva non deve escludere il paziente da cure inferiori (che nel caso del COVID-19 pare che non ci siano).

3. Le Raccomandazioni della SIAARTI a taluni potrebbero sembrare «ragionevoli» e non presentare problemi. I «criteri» che vengono proposti potrebbero sembrare, a loro volta, dettati da «buon senso». A noi pare, invece, che le Raccomandazioni e i criteri sollevino diverse questioni. Innanzitutto etiche, ma anche giuridiche.

Andiamo per gradi.

Ci sembrano validi, pienamente condivisibili e assolutamente accettabili i due suggerimenti preliminari, i quali nel documento (e nelle intenzioni) della SIAARTI rappresentano la condicio sine qua non delle proposte successive: quello relativo alla ricerca e all’aumento delle disponibilità di risorse erogabili e quello relativo all’utilizzo di «ogni possibilità» per la cura degli ammalati. L’impegno in queste due direzioni dev’essere, infatti, pieno, costante e incondizionato.

Le Raccomandazioni, però, sembrano adottare una Weltanschauung utilitaristica per la (eventuale) soluzione/non soluzione del problema qualora questo si presentasse nonostante (e dopo) l’impegno profuso nella ricerca e nell’aumento della disponibilità delle risorse erogabili e nell’utilizzo di «ogni possibilità» di cura. L’adozione (almeno implicita) dell’utilitarismo emerge chiaramente dai criteri suggeriti (in particolare ai medici anestesisti e rianimatori, ma anche ai responsabili delle strutture sanitarie).

La SIAARTI, infatti, suggerisce di sottoporre a trattamenti intensivi primariamente coloro che hanno possibilità di ripresa. Chi giudica questa possibilità? Su quali basi? Su basi statistiche che – se ci sono – sono necessariamente orientative, non certamente infallibili? È moralmente legittimo affidare il diritto alla salute e alla vita all’opinione (sia pure qualificata) di un medico o di un’équipe medica?

La SIAARTI invoca, poi, i limiti di età e sostiene che le (necessarie) cure con trattamenti intensivi sarebbero da riservare a coloro che si stima (Su quali basi? Ancora su basi statistiche?) abbiano una prospettiva più lunga di anni di vita salvata. L’età anagrafica sarebbe dirimente per curare un paziente e abbandonare al pericolo di morte o alla morte certa un paziente nato prima, magari soltanto di qualche giorno. L’età anagrafica, cioè, costituirebbe il criterio per stabilire la precedenza alle cure. Saremmo in presenza di un criterio convenzionalmente assunto (e, comunque, incerto) nel primo caso (stima di anni di vita salvata), poggiante su un altro «criterio» che sembra «oggettivo» (ricorso all’età anagrafica, anagraficamente documentata) ma esposto a valutazioni umane basate sul «per lo più», cioè sulla probabilità; in altre parole il criterio non avrebbe alla base certezze ma opinioni e convincimenti discutibili. Inoltre, il criterio di anni di vita salvata è esposto a imprevisti. Gli anni di vita salvata non sono semplici anni di vita uguali per tutti, ma anni di vita che dipendono, fra l’altro, dalle condizioni della costituzione soggettiva, dalla salute e dalle conseguenze delle malattie pregresse. Come giudicare questi aspetti?

Non ci sono, in verità, ragioni nemmeno utilitaristiche per giustificare gli pseudo-criteri proposti dalla SIAARTI. Un anziano, infatti, potrebbe essere più «utile» alla società di quanto non lo sia un giovane. Il primo, infatti, potrebbe essere – è un esempio fra i tanti, fatto a caso, anche se quello che stiamo per dire non può costituire in alcun modo un criterio per la soluzione del problema – uno scienziato; il secondo potrebbe essere un imbecille. Oppure – secondo esempio – il primo potrebbe essere persona onesta che con le sue capacità e le sue attività contribuisce al progresso civile; il secondo potrebbe essere un (futuro) delinquente assolutamente di peso per la società. Intendiamoci: il nostro parere è che entrambi hanno, comunque, diritto alle cure, prescindendo da condizioni, opinioni e valutazioni.

Gli esempi portati – ci sembra – dimostrano che i criteri proposti dalla SIAARTI non sono criteri né accettabili né praticabili. Innanzitutto non sono né accettabili né praticabili da parte dei medici, i quali, quindi, dalle Raccomandazioni della stessa SIAARTI non vengono affatto aiutati nell’individuare la decisione giusta e corretta da prendere e si ritrovano soli a decidere (spesso con gravi problemi di coscienza).

4. Per facilitare l’esercizio dell’opzione del medico la SIAARTI propone di tenere presenti le (eventuali) disposizioni anticipate di trattamento del paziente ovvero il suo (eventuale) testamento biologico. Perché? Sembrerebbe per esimere il medico dalle responsabilità penali.

Il medico, se il paziente avesse disposto in conformità alle DAT (vale a dire nel rispetto delle Legge n. 219/2017), sarebbe considerato (e potrebbe considerarsi) esecutore della volontà del paziente. Quindi non sarebbe lui ad esercitare l’opzione. Egli semplicemente ne favorirebbe la realizzazione. La responsabilità delle conseguenze del rifiuto della terapia intensiva indispensabile per la cura della patologia da Coronavirus dal paziente contratta, sarebbe tutta sua (cioè del paziente).

Questo suggerimento contrasta, però, con il documento della stessa SIAARTI, la quale suggerisce i criteri per l’opzione del medico (non, quindi, del paziente), e con parte delle stesse disposizioni della Legge n. 219/2017.  Il medico, infatti, prima di escludere dalla cura il paziente che pure rifiutasse in tutto o in parte la terapia è tenuto a prospettare al paziente medesimo le conseguenze della di lui decisione e a illustrargli le possibili alternative alla rinuncia o al rifiuto dei trattamenti sanitari; alternative che nel caso de quo pare non ci siano. Va considerato, poi, che il paziente che avesse fatto testamento biologico, dovrebbe aver stabilito il rifiuto al trattamento con terapia intensiva esplicitamente. Non basterebbe, per esempio, il rifiuto all’accanimento terapeutico. La cura con terapia intensiva della patologia da Coronavirus non può essere considerata, infatti, accanimento terapeutico, poiché l’accanimento terapeutico, per essere tale, richiede che il paziente sia mantenuto in vita artificialmente e non abbia alcuna possibilità di ripresa. Non basterebbe, pertanto, per consentire al medico l’esercizio dell’opzione suggerita dai criteri del documento della SIAARTI, una disposizione testamentaria contraria genericamente alle cure (rifiuto delle cure) non relative alla patologia causata dal Coronavirus e contraria all’accanimento terapeutico.

Va considerato, poi, che il medico non è esecutore passivo di qualsiasi volontà del paziente. Egli, infatti, è tenuto per legge a disattendere la volontà del paziente qualora essa sia palesemente incongrua e nel caso in cui, dopo la redazione delle disposizioni testamentarie, siano mutate le condizioni o – ma non è questo il caso – siano sopraggiunte terapie nuove. Il medico, pertanto, anche sulla base della Legge n. 219/2017 non è tenuto ad eseguire sempre e acriticamente la volontà del paziente; in taluni casi può rifiutarsi di «staccare la spina». L’indicazione della SIAARTI di ricorrere al testamento biologico si presenta, pertanto, non priva di problemi. Essa non considera, poi, che la norma in vigore prescrive al medico di fronte a situazioni di emergenza (come quella creata dal Coronavirus) di assicurare l’assistenza sanitaria indispensabile.

5. Non si può parlare, poi, con riferimento alla questione trattata dalla SIAARTI di uno «stato di necessità» in senso giuridico. In altre parole non può essere invocato dal medico che decidesse di rifiutare i trattamenti di terapia intensiva a pazienti che ne avessero bisogno, l’articolo 54 Codice penale.

Ciò per diversi motivi:

a) perché il Codice penale in vigore stabilisce che non è punibile «chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona». Il medico che seguisse i criteri proposti dalla SIAARTI non agirebbe per evitare alla sua persona un danno grave, né per evitarlo ad altri. Meglio: lo eviterebbe a qualcuno ma causandolo volontariamente ad altri. E «un terzo innocente – scrive giustamente un maestro di Diritto penale, Giuseppe Bettiol – non può mai venir sacrificato per salvare altri» (G. BETTIOL-L. PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, Padova, Cedam, 1986, p. 391);

b) perché l’articolo 54 Codice penale stabilisce che il pericolo non dev’essere causato volontariamente dall’agente. L’omissione della cura con terapia intensiva, rifiutata sulla base dei discutibili criteri utilitaristici suggeriti dalla SIAARTI, configura un’opzione idonea di per sé a creare il pericolo di morte del paziente escluso;

c) perché l’articolo 54 Codice penale stabilisce che il pericolo non deve essere altrimenti evitabile; il pericolo, per il paziente, sarebbe evitabile con la terapia intensiva.

Non c’è dubbio, d’altra parte, che il medico che ritenesse che il paziente avesse bisogno di trattamenti di terapia intensiva e non potesse assolutamente fornirglieli, si troverebbe non in uno «stato di necessità» ma in uno «stato di impossibilità». E ad impossibilia nemo tenetur. L’impossibilità di cui parla il broccardo, non è conseguenza di una scelta di cui risponde sempre il soggetto capace di intendere e volere che l’ha posta in essere: è un dato di fatto, indipendente da ogni scelta e da ogni valutazione.

Il medico, quindi, che operasse una scelta anche sulla base dei criteri proposti dalla SIAARTI, non si troverebbe nello «stato di impossibilità», cioè nella condizione di non poter operare. Egli, al contrario, opererebbe, causando la situazione di pericolo in cui verrebbe a trovarsi il paziente al quale viene negata la terapia intensiva necessaria per la cura della sua patologia.

Il medico, cioè, che applicasse i criteri proposti dalla SIAARTI non si limiterebbe a prendere atto di un’impossibilità ma agirebbe positivamente operando opzioni che consentirebbero di fornire trattamenti di cura intensiva necessari ad alcuni ma escludendo contemporaneamente altri dagli stessi trattamenti loro necessari. La responsabilità dell’opzione e delle sue conseguenze è, in questo caso, del medico (o dell’équipe medica). Non si tratterebbe di «uno stato di necessità», ma di scelte personali che, anche se motivate, non potrebbero essere giustificate.

Come deve, allora, comportarsi il medico?

Egli non deve operare scelte, previlegiando un paziente e danneggiando un altro. Nel caso in cui non potesse fornire la cura della terapia intensiva necessaria a tutti i pazienti, opererà seguendo il criterio dell’assicurazione dell’assistenza sanitaria indispensabile man mano che si presentano i casi. Ciò non toglie che egli debba valutare l’indispensabilità della cura della terapia intensiva (cosa che dovrebbe fare sempre) e nel caso in cui non sia indispensabile a un paziente passerà ad un altro per il quale questa cura è necessaria.

6. In conclusione, a noi paiono inaccettabili eticamente, deontologicamente, penalmente i criteri suggeriti dalla SIAARTI.