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L’effetto domino del coronavirus

Covid-19
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Si suole dire che nel gioco degli scacchi gli scenari che un giocatore deve (o dovrebbe) essere in grado di prevedere siano, già dalle prime due mosse, di circa quattrocento possibili combinazioni, con aumento esponenziale a ciascuna successiva mossa. Ad una mossa, dunque, la capacità del bravo giocatore di comprendere il maggior numero di conseguenze ipotizzabili che saranno determinate dalla propria successiva mossa.

Da circa tre mesi ogni giorno, tutto il giorno, su ogni mezzo di informazione e su ogni social siamo bombardati da avvertimenti e suggerimenti finalizzati alla nostra incolumità, a tutela della salute pubblica. Una lista di consigli dettagliati sulla igiene personale, quasi financo a destare in ciascuno la domanda su quali siano le abitudini igieniche dei nostri connazionali, ritenendo spesso molti consigli ovvie norme comportamentali se non igieniche di educazione. Ogni giorno ormai da più di due mesi attendiamo che i telegiornali, le conferenze stampa su facebook, forniscano i report statistici e di conseguenza indichino cosa si potrà fare o non fare il giorno dopo.

In Italia alla data dell’8 aprile 2020 si registrano 17.669 decessi e 95.262 casi di positivi al virus. In un mondo di statistiche, in base agli attuali dati demografici Istat, i decessi rappresentano quasi lo 0,03% della popolazione italiana e i positivi lo 0,15%. Effettuai lo stesso calcolo i primi di marzo, all’indomani della “chiusura” del Paese, con il risultato che la percentuale di decessi era allo 0,0002% e quella dei positivi allo 0,0059% e mi domandai se il lockdown del Paese, di lì a poco esteso al comparto produttivo, fosse una mossa consapevole degli scenari futuri che avrebbe prodotto. Se si fosse di fronte ad un giocatore di scacchi improvvisato, sedutosi per sbaglio al tavolo e allo sbaraglio, o se questi fosse almeno minimamente consapevole (o informato) di quali possibili scenari tale mossa avrebbe consegnato. Ma soprattutto che la mossa non aveva ad oggetto pedine di legno, bensì un Paese intero.

Non si può difatti non valutare come l’andar per tentativi e indecisioni (la qual cosa è di tutta evidenza ciò che accade), restituisca di fatto una incapacità di gestione e una miopia imbarazzante della visione prospettica del futuro.

Come giustamente si è purtroppo constatato, il 31 gennaio 2020 fu dichiarata l’emergenza sanitaria nazionale per un periodo di sei mesi: non è possibile ritenere che tale allerta sia stata determinata di punto in bianco senza alcuna specifica preventiva analisi delle modalità e della capacità di reazione, che essa abbia improvvisamente e con meraviglia colto di sorpresa il giocatore. Come è di difficile comprensione che non siano stati considerati scenari possibili (magari financo già studiati) non solo dal punto di vista sanitario emergenziale, ma anche economico. Salvare una persona per poi lasciarla senza cure né cibo rappresenta quella “eutanasia socio-economica” di cui giustamente parla in un bellissimo editoriale, che invito a leggere, il direttore di Filodiritto.

Un recente studio Cerved Industry Forecast restituisce la drammatica previsione che le misure adottate per il contenimento del coronavirus porteranno le imprese italiane ad una perdita di fatturato tra i 270 e i 650 miliardi di euro nel biennio a venire. La crisi di liquidità potrebbe portare ad un incremento dei possibili default da qui a fine anno da un minimo di circa l’8/10% sino ad un massimo del 26/30%.

La crisi di liquidità potrebbe produrre il proprio picco a luglio 2020 per circa 100mila imprese e qualora perdurasse il fenomeno, in uno scenario più drastico, a fine anno 2020 si potrebbe rischiare un aumento sino a 145/150mila imprese in crisi. Il tutto con ovvie implicazioni drammatiche per il mondo del lavoro, con una forbice di posti di lavoro a rischio da 2 a 3 milioni e mezzo. Non appare esagerato rappresentare ancor più tragico di quanto non lo sia ora lo scenario possibile a breve termine.

Dopo numerose istanze di prorogare l’entrata in vigore del Codice della Crisi dell’Impresa e dell’Insolvenza, formulate da più parti anche con riferimento alla necessità di una approfondita revisione e rimodulazione delle norme di carattere sostanziale oltre che processuale, peraltro prese in considerazione nell’ambito della proposizione di emendamenti alle Camere in sede di conversione in legge del Decreto-Legge “Cura Italia” finalizzato alla proroga di sei mesi dell’entrata in vigore del codice, il giocatore ha inserito nell’ultimo Decreto Legge 8 aprile 2020 n. 23 (in G.U. 9 aprile 2020 n. 94), c.d. “decreto liquidità”, la sostituzione dell’articolo 389 del CCI come segue: “Il presente decreto entra in vigore il 1 settembre 2021 […]” (articolo 5 Decreto Liquidità). Il Codice della Crisi dell’Impresa e dell’Insolvenza entrerà in vigore il 1° settembre 2021.

Nella schizofrenia del giocatore, il precedente Decreto-Legge n. 9 del 2 marzo 2020 ha previsto che gli obblighi di segnalazione di cui agli articoli 14 e 15 del Codice della Crisi entreranno in vigore dal 15 febbraio 2021: si dovrà ovviare alla discrasia delle previsioni presumibilmente in sede di conversione di tale decreto.

Del resto, come la stessa Relazione Illustrativa al nuovo decreto-legge ricorda, il CCI comunque sarà oggetto di modifiche ad opera di Decreto Correttivo che è ancora in fase di predisposizione (lo schema di Decreto Correttivo è stato approvato dal CdM lo scorso 13 febbraio e presumibilmente rimarrà nel cassetto, visto il rinvio dell’entrata in vigore del CCI di cui a breve per effetto del “Decreto liquidità”).

Ma la proroga dell’entrata in vigore del CCI nulla toglie al problema reale, stante la vigenza della Legge fallimentare, e per tale motivo il giocatore ha effettuato una ulteriore mossa, inserendo all’articolo 9 del Decreto-Legge 23/2020 disposizioni in materia di concordato preventivo e di accordi di ristrutturazione, con preciso riferimento alle procedure promosse in epoca anteriore al palesarsi dell’emergenza sanitaria, individuando la linea di confine alla data del 23 febbraio 2020. Il fine dichiarato del giocatore è quello di “salvaguardare quelle procedure di concordato preventivo o accordi di ristrutturazione aventi concrete possibilità di successo prima dello scoppio della crisi epidemica”, introducendo alcune misure.

Innanzitutto, viene prorogato di sei mesi il termine di adempimento dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione già omologati e aventi scadenza tra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021, con ciò, ritiene il giocatore, con ripercussioni sul meccanismo di risoluzione per inadempimento.

A tal ultimo proposito, nel silenzio del giocatore, si vedrà quale valore potrà essere dato alla impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore di cui all’articolo 1256 codice civile o alla configurabilità della causa di forza maggiore di cui all’articolo 1467 codice civile.

In secondo luogo, nei procedimenti per l’omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione alla data del 23 febbraio – dunque per le procedure che a tale data abbiano già avuto l’approvazione da parte dei creditori – viene concessa al debitore la possibilità di chiedere un termine non superiore a novanta giorni per la presentazione di un nuovo piano o di una nuova proposta di concordato: istanza comunque inammissibile laddove vi sia già stata, specifica l’articolo 9, l’adunanza dei creditori ma non siano state raggiunte le maggioranze per l’approvazione.

In sostanza, si prevede che nei casi in cui il concordato o l’accordo di ristrutturazione al 23 febbraio avesse già ottenuto l’approvazione e si fosse dunque aperta la fase successiva dell’omologazione da parte del Tribunale, il debitore potrà chiedere fondamentalmente di iniziare daccapo la procedura (non potendo di certo modificare il piano senza sottoporlo a nuova valutazione e votazione del ceto creditorio), potendo così tenere conto dei fattori economici sopravvenuti per effetto della epidemia.

Dunque, l’intento si salvaguardare le procedure che avessero “concrete possibilità di successo” è in realtà la concessione di modificare la struttura dei piani che risultano compromessi: si offre in sostanza una seconda chance per ridefinire daccapo il piano che evidentemente, per la crisi determinatasi anche per via del lockdown non offre più quelle “concrete possibilità di successo”.

Ulteriore previsione dell’articolo 9 consiste nel concedere la possibilità, al debitore che intenda solo modificare i termini di adempimento del concordato o dell’accordo, e sempre con riferimento ai procedimenti di omologa ancora pendenti alla data del 23 febbraio (con ciò si dovrebbero dunque intendere quelli a tale data già approvati dalle maggioranze necessarie), di presentare sino alla udienza di omologazione una istanza con la quale indica nuovi termini per l’adempimento del piano approvato – a fronte di documentazione che comprovi la necessità della richiesta – che, se accolta, non potrà vedere un differimento superiore a sei mesi rispetto alle scadenze originarie. Nel caso, concessa l’omologa, previo parere del Commissario Giudiziale, il relativo provvedimento espressamente dovrà dare atto delle nuove scadenze.

Per il debitore che abbia già ottenuto la concessione del termine per la predisposizione del piano in caso di concordato preventivo con riserva (o “in bianco”) e che abbia già ottenuto una proroga di tale termine, è stata introdotta la possibilità di presentare una istanza per la concessione di una ulteriore proroga di novanta giorni, anche nei casi in cui sia già stata depositata richiesta di fallimento. L’istanza dovrà naturalmente indicare in maniera specifica i fatti sopravvenuti per effetto dell’”emergenza coronavirus”.

La previsione è espressamente inserita al fine di consentire una dilatazione “secca” di ulteriori novanta giorni dell’automatic stay di cui gode il debitore che ha accesso alla procedura. In caso di accordi di ristrutturazione, la previsione si applica anche all’ipotesi di cui all’articolo 182bis, comma 7, della legge fallimentare: pertanto prevedendosi anche in tal caso una proroga del periodo dell’automatic stay.

Ulteriore mossa del giocatore in tema di procedure per la dichiarazione di fallimento è data dall’articolo 10 del Decreto-Legge “liquidità. Con esso viene disposto che tutti i ricorsi per la dichiarazione di fallimento (articolo 15 l.fall.) o per l’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza anteriore alla liquidazione coatta amministrativa (articolo 195 l.fall.) o per l’accertamento dell’insolvenza delle grandi imprese in crisi soggette alla disciplina dell’amministrazione straordinaria (articolo 3 D.Lgs. 270/99), presentati nel periodo tra il 9 marzo 2020 e il 30 giugno 2020 sono improcedibili. Al terzo comma, l’articolo 10 dispone che per il medesimo periodo (dal 9.03 al 30.06.2020) sia sospeso il termine di decadenza delle azioni revocatorie fallimentari (si afferma, a tutela della par condicio creditorum), e che non sia computato nell’arco temporale annuale di cui all’articolo 10 della legge fallimentare, per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’esercizio dell’impresa (non si contempla – e non se ne comprende il motivo, se si vuol intendere la ratio del legislatore - l’estensione della sospensione del computo all’articolo 11 l.fall. relativo all’arco temporale annuale del fallimento dell’imprenditore defunto).

Nessuna altra mossa viene fatta, solo un “congelamento” per le dichiarazioni di fallimento pendenti che risulteranno improcedibili, sì, ma che vedranno presumibilmente la presentazione a cascata di nuovi ricorsi per la dichiarazione di fallimento una volta cessato l’ombrello protettivo al 30 giugno. Ma nulla vieta al giocatore, a ridosso del termine, l’annuncio di nuova artiglieria a disposizione della acclamata potenza di fuoco (!).

In mancanza, dal 30 giugno la polveriera del default dell’intero comparto imprenditoriale ed economico deflagrerà impietosa, non foss’altro per il fatto che le procedure di finanziamento di cui al decreto liquidità, sempre che riescano ad essere erogate, non avranno di certo risollevato o aiutato in concreto e in breve alcuna situazione di crisi o insolvenza determinata o aggravata dal lockdown. Il giocatore, privo come si dimostra di capacità prognostica e di lungimiranza, limita la propria concezione della vita dell’impresa alla sola partita doppia.

Ricordiamoci, infatti, che la dichiarazione di emergenza sanitaria nazionale del 31 gennaio 2020 opera per un arco temporale di sei mesi, pertanto, stante la entrata in vigore di tale disposizione dal 1° febbraio scorso (ossia dalla pubblicazione in GU), il giocatore si è riservato la capacità di operare come ormai ci ha abituato con annunci e proclami sino al 1° agosto 2020. Salvo proroghe dello stato di emergenza sanitaria.

Orbene, era già stato rilevato da molti osservatori economici sia studiosi e operatori delle procedure concorsuali che per effetto della situazione attuale tutte le procedure concorsuali ad ora pendenti, abbiano esse carattere sia liquidatorio sia conservativo o di risanamento dell’impresa, subiranno la drastica conseguenza di rimanere ferme di per sé. Se da un lato l’effetto per le procedure meramente liquidatorie sarà presumibilmente di netto rallentamento di tutte le relative operazioni, a danno del ceto creditorio [1], dall’altro per le procedure finalizzate al risanamento dell’impresa il fermo produttivo attuato di fatto con i provvedimenti emergenziali e il più che presumibile ristagno di tutte le attività di import-export ne preannunciano la drammatica difficoltà di attuazione, per non dire di peggio.

Non vi sarà un piano che possa definirsi coerente, attendibile, sostenibile economicamente e finanziariamente. Non vi sarà la capacità di fornire una analisi del mercato del settore di riferimento e dei competitor, come delle strategie attuative del piano. E vi sarà certa difficoltà da parte degli attestatori (sottoposti a responsabilità di non poco conto) a fornire analisi prospettiche della fattibilità del piano stesso.

Un effetto domino che comporterà la totale diffidenza nel ceto creditorio cui verrà sottoposto un siffatto piano, e al quale si rischia di proporre un piano richiedendo non una espressione di voto favorevole determinato da un consenso consapevole e informato, ma piuttosto da un atto di fede. Se non vi sarà un chiaro progetto strutturato e strutturale di ricostruzione dell’intero sostrato economico (al quale si è chiesto di chiudere e di attendere tempi migliori) non si potrà mai ottenere una capacità di risanamento che non sia fondata su proposte incoerenti, inaffidabili o inattuabili, insostenibili, appunto, economicamente e finanziariamente. E si creerà solo l’onda lunga ancora più drammatica delle previsioni già effettuate ad ora solo su base biennale estrapolate dagli studi sopra segnalati.

L’immobilismo di prendere in considerazione misure concrete e specifiche da adottare all’impianto normativo concorsuale attuale – al di là delle scarse previsioni del recente Decreto-Legge sopra menzionate e la proroga dell’entrata in vigore del CCI –  va di pari passo con la cecità di dover valutare appieno l’opportunità, se non la necessità, non solo della ora disposta proroga all’entrata in vigore del nuovo CCI, già considerato sin dalla sua emanazione non tanto una riforma della legge fallimentare, quanto piuttosto una controriforma, con norme relative all’accesso al concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione, viepiù dopo la posticipazione delle misure d’allerta, maggiormente restrittive e penalizzanti.

C’è chi infatti ha invocato un diritto concorsuale dell’emergenza, proprio per fronteggiare l’effetto domino che si creerà.

In merito agli interventi legislativi sull’attuale impianto, sinceramente non interessa che definizione se ne voglia dare, interessa che sia solerte e strutturata con capacità, non per tentativi o slogan, articolata e connessa ad un consapevole intervento normativo adeguato in parallelo ad una necessaria politica economica non solamente emergenziale ma di continuità. Ma dalla mera lettura dell’ultimo provvedimento, purtroppo si ha sempre più l’impressione di aver dinanzi un giocatore impacciato che muove una pedina ma butta giù la propria regina, affrettandosi imbarazzato a risistemare i pezzi sulla scacchiera perché incalzato nel dover fare la mossa successiva. Ogni mossa appare piuttosto confusa, determinata più dal dover mostrare all’avversario di muovere i pezzi che dalla capacità che si pretenderebbe dal giocatore. E nel dover mestamente constatare l’assenza di alcuna maestrìa e lungimiranza, attenderemo tutti l’ennesimo provvedimento schizofrenico.

Non solo non si può ritenere soddisfacente la mossa del giocatore relativamente alle procedure esecutive o concorsuali, ma viepiù dalla lettura del Decreto-Legge “liquidità” si evince proprio una incertezza tale delle misure economiche ivi previste che travolge l’entusiasmo propagandistico cui si è assistito: peraltro, come sempre, limitato ad annunciare provvedimenti di cui non si ha pubblicazione ufficiale se non dopo giorni e mediante un testo normativo, peraltro, differente dagli annunci formulati, né si ha capacità di visione se non in bozze che ormai vengono smerciate sui banchi del mercato nero delle agenzie di stampa.

La lettura del “decreto liquidità” restituisce la correttezza del concetto che salvare una persona per poi lasciarla senza cure né cibo rappresenta una “eutanasia socio-economica: affermare che si è messa in campo una “potenza di fuoco” senza precedenti allorquando nel testo del provvedimento si ha a chiare lettere l’evidenza che si tratta di munizioni caricate a salve. Le misure che si sono propagandate quali previsioni di destinazione di almeno 200 miliardi di euro alle imprese – e che di fatto altro non sono che un certo maggiore indebitamento che il giocatore pone sulle spalle del paziente negli anni a venire, a poco valendo la rinuncia al regresso del giocatore garante in caso di mancata restituzione dei finanziamenti che andrà a contrarre, andando a costituire debito pubblico in ogni modo cui dover poi far fronte – sono tutte subordinate all’approvazione della Commissione Europea (comma 12, articolo 1 D.L. liquidità): il richiamo, infatti, alla subordinazione delle previsioni all’articolo 108 del Trattato sul funzionamento dell’UE, restituisce l’operatività della c.d. clausola  stand still.

In sostanza non vi sarà alcuna immediata operatività delle misure annunciate come una potenza di fuoco impressionante (!) se non dopo l’esame della Commissione e le relative approvazioni/autorizzazioni/concessioni. Il giocatore chiede all’arbitro se e come può effettuare l’arrocco. E già alcuni rilevano la misura quale meramente propagandistica: l’arbitro risponderà che se il giocatore è in grado di fare la mossa, allora la faccia, altrimenti non la potrà fare chiedendo che sia il primo ad assumersene la rischiosità o la relativa garanzia. In sostanza si risponderà: “se hai la potenza di fuoco economica, perché chiedi a noi l’autorizzazione ad usarla”?

E l’ovvietà del motivo è palpabile, laddove non vi è alcuna certezza della capacità di fuoco effettiva nelle misure che sortiscono unicamente il fine di tentare di confortare il paziente e non fargli pensare che una volta dimesso dal ricovero, questi dovrà arrangiarsi, arrancando in un delirante contesto normativo emergenziale soggetto alle più ampie variabili e varianti.

Viepiù in assenza della effettiva conclusione all’attuale e viva discussione e analisi di quali misure a livello europeo verranno prese a sostegno dei Paesi membri, della natura delle coperture e delle modalità di loro attuazione e concessione.

Misure che in alcuna declinazione saranno a fondo perduto, con riverbero certo sulle economie del giocatore stesso che ne chiederà conto, al tempo, imponendo il sacrificio dei pezzi sulla scacchiera.

Anche le misure con cui si annunciano le sospensioni delle scadenze fiscali appaiono del tutto raffazzonate, prevedendo la sospensione di alcuni versamenti con scadenza aprile-maggio, con pagamento dal 30 giugno o in cinque “comode rate”, peraltro non per tutta la platea di soggetti obbligati, dovendo “dimostrare” il calo di ricavi almeno del 33% rispetto all’esercizio precedente: entro il 16 aprile dunque tutte le aziende (che sono chiuse ad oggi) dovranno provvedere ad incaricare i propri consulenti (anch’essi chiusi per legge nelle rispettive abitazioni e che andranno in delirio) alla valutazione della posizione relativa ed eventuale capacità di accesso alla sospensione.

Ma l’effetto non sarà altro se non quello che le pedine dovranno comunque raschiare il fondo delle casse vuote, a poco valendo che, forse, otterranno finanziamenti necessari per adempiere alle stesse scadenze posticipate di un mese, o a rate comunque entro fine anno, con la concessione di sei anni per la restituzione dei prestiti e la garanzia su di essi del giocatore.

Il giocatore, che rinuncia al regresso, dovrà comunque far di conto in merito ai finanziamenti che non saranno oggetto di restituzione: la qual cosa significa in ogni caso, in ogni ipotesi di misura intrapresa, che saranno a carico delle pedine, perché da qualche parte i conti dovranno tornare in ordine. E allora il Decreto Liquidità lo chiameremo “decreto liquidazione” e non basterà legge fallimentare o codice della crisi a regolamentarne gli effetti.

Non resta che sperare, come del resto da mesi ognuno sta facendo, che il giocatore financo magari con un colpo di coda dimostri di sapere come si gioca a scacchi e non scopra invece d’improvviso di trovarsi in una posizione di stallo, o, ancora più, non abbia confuso i propri pezzi con le tessere di un domino.

 

[1] In vari Paesi in Europa si assiste a richieste di sospensione o attenuazione delle procedure esecutive financo delle dichiarazioni di fallimento.