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L’elzeviro, tra caratteri tipografici, barocco e arte

Elzeviro bastonato
Caratteri
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Qui Piero Buscaroli narra, in un veloce ma efficacissimo estratto di eventi e di cultura, come anche i caratteri tipografici hanno fatto e fanno, tuttora, la storia. Sono i caratteri che ogni giorno usiamo senza saperne l’antica origine, blasonata o popolare che sia.

Dove “tout se tient”, come diceva De Saussure e tutti i rivoli, anche minimi, ritornano a una visione globale, universale, comprensibile.

 

“Paese sera” proclama la morte dell’elzeviro, col piglio vendicatore che avevano i futuristi quando uccisero il chiaro di luna. Non avremo, dunque, più “prose rugiadose, le notazioni moralistiche e pseudofilosofiche, gli inni all’autunno e alla vendemmia”. Certa invettiva giacobina contro i chiari di luna e gli autunni muta casacca, ma non il suo furore plebeo. L’elzeviro è un bersaglio ricorrente, odiato con passione. Bollato come “letteratura d’evasione”, non è riuscito neppure a riscattarsi con l’indossare, come ha pure fatto talora, casacche e livree impegnate. Non c’è mezza calzetta che, accingendosi a fondare o riformare un quotidiano, non progetti di sopprimere la terza pagina, pregustando nel massacro soprattutto il sangue dell’odiato elzeviro.

Su cui, tuttavia, come forma e concetto, v’è in giro certa confusione. Vediamo un momento.

Cara signora che elogi certo mio “elzeviro di quinta pagina”, guarda. L’elzeviro è qui, in apertura di terza e non altrove. Lo battezzarono così perché, quando decisero di affidare a scrittori illustri questo cantone dei giornali, allora spenti e dimessi d’aspetto, era il solo articolo che si componesse nei costosi caratteri “elzeviri” che s’importavano d’Olanda e di Germania.

Poi, piacque, e si allargò ad altre parti dei giornali. In questo giornale, si compongono in “elzeviri” oltre all’apertura di terza, anche l’apertura di prima, che si chiama “fondo”, e il colonnino di quinta. Che, però, non diventano elzeviri per questo. Inversamente, si può chiamare elzeviro un articolo collocato in apertura d’una terza pagina tradizionale, anche se non composto in caratteri elzeviri. Il monaco la vince sull’abito.

L’elzeviro è un abito elegante ma non bisogna indossarlo troppo. Qualche anno fa, un direttore in vena d’innovazioni chic provò a comporre in elzeviri quasi tutto il giornale. Ne venne un’impressione di sazietà, quella che intende Machiavelli quando dice che gli uomini “del bene si stuccano”, la stessa che provava quel commensale di Luigi XIV che non poteva più d’aver sempre pernice a tavola.

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Gli Elsevier o Elvezier furono una dinastia di tipografi, librai e editori olandesi fioriti tra la fine del ‘500 e il primo ‘700 a Leida e Amsterdam. Il fondatore, Lovewijk I, era stato allievo dei Plantin di Anversa, e fu seguito da una quindicina d’importanti imprenditori della sua famiglia, che diventò la prima d’Europa per l’editoria. Ebbero trovate clamorose per quei tempi: una collana di classici tascabili, e trentacinque monografie, le “piccole repubbliche”, descrizioni di città, paesaggi e istituzioni dei paesi stranieri.

Ma la gloria che tuttora li mantiene vivi, la serie di caratteri che da loro prese il nome, non spetta agli Elzevier, bensì a Christopher van Dyck, un disegnatore e fonditore che per loro lavorò: uno dei tanti artigiani che continuarono a sviluppare i tipi romani ereditati dalla stampa rinascimentale, come i Griggo, i Garamond, i Granjon.

Van Dyck snellì il disegno e allargò l’occhio. Dai Paesi Bassi, caratteri e matrici invasero le tipografie dei diversi paesi d’Europa, ciascuno dei quali elaborò elzeviri suoi propri.

I francesi, attraverso Granjean e Fourner, giunsero alle soglie dell’Ottocento coi Didot. In Inghilterra cominciò William Caslon, la facilità di lettura e l’equilibrio dei caratteri da lui disegnati, poi vennero suo figlio e infine, John Baskerville (1707-1775), forse il maggior disegnatore di caratteri dopo il Rinascimento. A Birmingham, costui dette vita a un’impresa che divenne famosa per la bellezza dei suoi caratteri e dei libri che ne stampava.

Il possesso dell’Orlando Furioso o del Virgilio di Baskerville è stato, per generazioni, uno dei requisiti che si chiedevano a una biblioteca che volesse appena distinguersi. Alla morte di John, la vedova Baskerville vendette le casse dei caratteri nientemeno a Beaumarchais, l’autore del Barbiere, che si fece editore per stampare il grande Voltaire, detto di Kehl, per la cittadina tedesca davanti a Strasburgo, oltre il Reno dove l’edizione vide la luce.

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Si può dire che l’elzeviro, che col Baskerville toccò la perfezione, è figlio dell’armoniosa razionalità barocca, la stessa da cui nacquero forme rimaste immortali, come quella del violino, degli orologi e strumenti scientifici del Settecento.

Soltanto oggi si è completamente compreso che lo spirito di un’epoca si comunica a tutte le manifestazioni del vivere e del pensare.

Alla mostra del Barocco europeo, a Monaco, nel 1958, l’edizione di Kehl, coi suoi caratteri elzeviri rielaborati di Baskerville, testimoniava la presenza della stamperia come componente del grande Settecento, non meno della pittura di Fragonard o di Guardi, o dell’opera di Kant, o di una commode di Cressent, o di un microscopio di Alexis Magny.

Nella sontuosa rivendicazione londinese dell’età neoclassica, nel 1972, la mancanza di stampe di Bodoni ha, nella stamperia neoclassica, la parte che Canova ha nella scultura, Winckelmann tra gli antiquari, David tra i pittori, e l’Eroica di Beethoven nella musica.

Bodoni traduce in segni grafici il classicismo rivoluzionario volgente all’autocrazia e all’impero. I suoi caratteri perentori e taglienti come spade, sprigionano una gelida autorità che non sollecita confidenze.

Come l’elzeviro è il carattere dell’aristocrazia liberale e illuminata, il Bodoni è imperioso e intollerante. L’Ottocento democratico, volgente al suffragio universale, generò numerose famiglie di caratteri dimessi, alla portata di tutti, come “gli abiti da due bajocchi” che Monaldo Leopardi detestava; alla maniera dei poveri ebbero nomi rumorosi e vistosi: Excelsior.

Non credo che esista una storia della stampa secondo le ideologie, ma, scriveva Longanesi nella Lettera alla figlia del tipografo, ai tempi del suo giovanile fascismo umorale e strapaesano, che “i caratteri tipografici, come del resto tutte le cose, seguono anch’essi la piega della politica … Il socialismo, nel campo tipografico, dovendosi cercare una veste, fra le infinite serie di caratteri esistenti si scelse i mozzi o bastoncini, caratteri neri, tarchiati, senza equilibrismo, senza chiaro e scuro, duri e rigidi come le antenne e i camini delle officine…

L’elzeviro e l’aladino si erano compromessi coi tiranni, il bodoniano con Napoleone, non restavano dunque che i tetri e marxisti bastoni. 

Quando, anni or sono, s’aspettava l’uscita del Manifesto, che doveva diventare l’organo ufficiale del comunismo integrale, dissi a un amico: “Scommetti che lo faranno tutto impalato e nero, degli orrendi bastoni che piacciono a loro” …

Così fu, e mi parve una trionfale conferma. Chi ha l’istinto, certe cose le sente, anche se non le sa. E come il declino del Bodoni, austeramente scomparso come segno d’età oscurantiste e repressive, è il declino d’ogni essenza e aspetto d’autorità, così l’antipatia per l’elezeviro denuncia il fastidio della umana e liberale eleganza, di quel tono legible and commom-sense che William Caslon vantava nei suoi caratteri.

Le fumisterie impegnate, le bugie reboanti, l’odio, il rancore, l’invidia sociale non si adattano alla nobile e tollerante grazia dell’elzeviro. La cui resistenza su queste pagine la dice più lunga d’una qualsiasi intenzione “distinta” o d’invecchiate abitudini.

Da “Il Giornale”, 13 marzo 1976