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Lo smart working contro il lusso del tempo

lavoro agile
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L’informatica e Internet hanno trasformato in modo radicale la ricerca e il fare, fino alla telecomunicazione che contribuisce alla trasformazione delle città in smart cities, le città intelligenti. L’intelligenza sarebbe, in questo caso, considerata a partire dalla velocità delle connessioni attraverso infrastrutture di rete sempre più efficienti.

Velocità e efficienza rappresenterebbero quindi la possibilità di misurare e di risparmiare il tempo, altrimenti significato in “ottimizzazione” o “razionalizzazione” del tempo. Nel nuovo millennio, quindi, gli umani uscirebbero vincitori dalla “lotta contro il tempo”. Perché? Perché la padronanza sul tempo segnerebbe il riscatto dell’uomo rispetto al tempo che, nel suo flusso e nella sua fluenza, non consente il primato della volontà.

Secondo l’etimo, il tempo è taglio (dal greco témno, divido), partitura, divisione. Tempo non naturale, quindi. Contro questo tempo impadroneggiabile sorge l’idea del “proprio” tempo che, già alla fine del Novecento, era enunciata nelle formule “prendersi il proprio tempo”, “ritagliarsi il proprio tempo”. Il tempo domestico o vacanziero, ovvero il tempo della raccolta dei punti in un luogo “libero dai condizionamenti”.

 

Lusso del tempo

Durante i giorni del coronavirus, alcuni artisti e alcuni gioiellieri hanno constatato l’aumento della richiesta di acquisto di opere d’arte e di orologi di lusso. I cosiddetti beni di lusso sono un modo di rappresentare il lusso del tempo? Alludono forse a un lusso che non finisce, un lusso senza fine, quindi finanziario? Anzi, lungo il tempo che non finisce, i beni di lusso acquisirebbero sempre più valore. Come avviene per gli interessi in ambito finanziario? E quanti sono i modi per opporsi al flusso e alla fluenza del tempo che non si ferma: tra essi, la confusione dell’influenza del tempo con l’influenza intersoggettiva, ossia di chi si assoggetterebbe all’altrui volontà.

La logica schiavo-padrone non risponde forse a questo canone? Non a caso il canone in ambito industriale esige che l’imprenditore sia inteso come padrone del tempo, del tempo degli operai e del tempo di vita dell’azienda. Contro questo canone arcaico è opposto il nuovo canone, quello del blocco, che è blocco del tempo e diventa il blocco delle attività, del commercio e dell’impresa, il blocco del fare eretto contro i flussi e la fluenza: il lockdown proprio alla burocrazia, con gli adempimenti che diventano impedimenti, negando l’amministrazione e il governo.

L’Italia ha inventato il lusso nel rinascimento, come già dagli anni settanta in poi è stato notato nei congressi planetari del Movimento del secondo rinascimento a Milano, Roma, Barcellona, Caracas, New York, Gerusalemme, Tokyo, San Pietroburgo e Ginevra. Ma di quale lusso si tratta rispetto al tempo?

Il lusso è proprietà del tempo. Tempo non cronologico, non contabile, quindi né sommabile, né moltiplicabile, né sottraibile. Sarebbe il tempo algebrico o geometrico. Tempo, taglio, divisione, squarcio. Lungo il fare interviene la divisione, come indica per esempio l’agenda degli appuntamenti, e le cose divengono infinite e incontabili fino al lusso del pragma, al lusso del fare senza fine.

 

Il telelavoro sorgerebbe per ottimizzare il tempo e le cosiddette risorse umane?

Ecco il carro carnevalesco dell’automatismo del tempo rappresentato nella macchina telepatica, che consentirebbe l’accesso diretto al fare, senza ostacolo, il cosiddetto fare automatico. Eppure, già Immanuel Kant notava che la colomba senza l’attrito dell’aria non volerebbe: la colomba non potrebbe librarsi nel vuoto. In questa logica il fare automatico risponderebbe all’horror vacui.

 

Primato della tecnocrazia

Il telelavoro diventerebbe intelligente. Smart working sarebbe allora la parodia delle sinapsi del cervello come organo naturale e dei collegamenti e delle comunicazioni telematiche. E la difficoltà della comunicazione si volge in facilità, in facoltà appunto.

Sono prove di potere della tecnocrazia, secondo cui la tecnica sarebbe al servizio della padronanza sul tempo, sulla comunicazione e sull’invenzione. Ancora insiste la negazione della parola, nella credenza che la parola e l’incontro siano “facilitati”, ottimizzati dalla telematica intesa come telemantica, ovvero è sancito il primato della società “hikikomori”, di coloro che “stanno in disparte”.

Per questa via, la partitura propria al tempo del fare diventa dis-partitura, partitura divisa da sé, divisione di sé. In altre parole, è il tempo che viene assunto su di sé, tagliandosi letteralmente fuori.

 

Caccia al tempo

Nella società della condivisione, della divisione comune, ognuno si taglia fuori e così è il più uguale fra gli uguali: uguaglianza spirituale contro il lusso. Contro il lusso interviene l’ideologia del risparmio come tempo da economizzare, come ideologia del minimo comune ultimo, dello stretto necessario. Allora, intelligente sarebbe il sistema che fa risparmiare tempo. Ma tutto questo toglie il superfluo, ciò che va al di là della misurabilità e della risparmiabilità.

I cosiddetti centri storici delle città d’Italia, per esempio, non sono nati forse da un superfluo? E oggi, in nome dell’ideologia del risparmio contro il superfluo, si “svuotano” dei negozi e delle botteghe, di quei commerci che avvengono nell’intervallo – per esempio nella “pausa pranzo” dal lavoro negli uffici – e poi dalle automobili che viaggiano troppo velocemente.

Non è un caso che alcune multinazionali prediligano ora lo smart working da casa, risparmiando le spese di affitto – e in alcuni casi riducendo gli stipendi dei dipendenti – di uffici nei palazzi dei centri storici.

Lo smart working attua forse l’idea della “decrescita felice”, che diventa sempre più infelice nelle desolate piazze delle città?

Dal risparmio del tempo all’horror vacui: cosa fare del tempo risparmiato? La vacanza sarebbe il tempo vacante? Il tempo vacante sarebbe il tempo vuoto e quindi da riempire? Sarebbe il modo di riempire, e frenare, la fluenza del tempo? O un modo per appesantire il volo e per pilotare il tempo? Ma il flusso e la fluenza del tempo sfuggono a questa caccia al tempo.

Il telelavoro e lo smart working, che soltanto in alcuni casi possono risultare strumenti preziosi, assumono l’idea di risparmio del tempo per contenerne gli effetti.

Non a caso gli imprenditori lungimiranti ritengono il telelavoro non efficace e dispersivo.

Cosa avviene nella sede dell’azienda se non le occorrenze dell’azienda? Cioè un tempo del fare non domestico, non addomesticabile.

Nella sede dell’amministrazione, nella sede gestionale, le occorrenze che intervengono man mano non rispondono alla propria volontà, perché interviene qualcosa che va oltre la volontà, nell’intervallo fra una cosa e un’altra, nei “ritagli di tempo”, nell’incontro inatteso, non programmato. Cosa avviene in questo incontro? Qualcosa di non prevedibile, di non padroneggiabile. Per questo il controllo del tempo non tiene. Il rischio dell’incontro, e della parola nel suo dispendio, è inteso invece come spreco.

Forse lo spreco è la padronanza del tempo e del fare? Ma lo spreco non è proprio negare a sé e all’Altro il lusso del tempo?