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Magistratura: separazione delle carriere per ritrovare “credibilità” e una “cultura” del limite

Marina di Ravenna
Ph. Ermes Galli / Marina di Ravenna

Parafrasando una infelice frase di un pubblico ministero: Se incontro sulla strada il giudice del mio processo e lo vedo conversare amichevolmente sottobraccio con il pubblico ministero, non devo aspettare la sentenza per sentirmi dichiarare colpevole”.

La separazione delle carriere di giudici e di pubblici ministeri è una idea che ha prodotto nel tempo diversi equivoci ed è stata spesso inquinata da false prospettive ideologiche e da improprie attribuzioni politiche.

 

Separazione delle carriere perché?

È, pertanto, opportuno chiarire il significato che questa idea possiede nel contesto ordinamentale che governa la giustizia e la giurisdizione penale in particolare. Cosa si intende per “separazione delle carriere” e perché tale separazione dovrebbe produrre, nel nostro Paese, un migliore assetto della giustizia penale e un aumento della qualità della giurisdizione?

La separazione delle carriere, come è bene subito precisare, non è un fine ma un mezzo. Si tratta di un obiettivo la cui realizzazione non è più prorogabile perché è inscritto nella nostra Costituzione ed è quello proclamato dall’articolo 111, il quale impone che il giudice sia non solo imparziale ma anche terzo. E terzietà non può che significare appartenenza del giudice a un ordine diverso da quello del pubblico ministero.

Ogni cittadino dovrebbe farsi fautore di un modello di giustizia e di processo penale rispettoso dei diritti e delle garanzie che gli sono propri e misurare l’equità delle regole del processo ponendosi la domanda: “io vorrei essere giudicato secondo quelle regole?”.

La separazione delle carriere serve a rendere il processo penale più equo perché lo assegna a un giudice terzo a garanzia dell’imparzialità della decisione.

La crisi del diritto e del processo che investe l’intero mondo occidentale assume nel nostro Paese caratteristiche proprie. Se, infatti, nell’intero mondo occidentale il problema è quello della presenza di un giudice che oramai governa con le proprie decisioni, non solo i nodi essenziali dei diritti e delle garanzie individuali, ma anche quelli dell’economia, dell’ambiente e dello sviluppo tecnologico, sostituendosi di fatto al ruolo che un tempo esercitava la politica, improvvisando così soluzioni sul caso concreto, in Italia questa espansione si risolve in un duplice problema (Robert H. Book, Il giudice sovrano, Liberilibri 2006).

Mentre nel mondo occidentale il problema della modernità riguarda il ruolo del giudice nella società, nel nostro Paese il problema è quello di trovare un “giudice” che possa autorevolmente e legittimamente coprire quel ruolo.

L’anomalia, nel nostro Paese, è infatti nei rapporti ordinamentali che distorcono in radice gli equilibri giurisdizionali. È nella figura stessa di una magistratura “onnivora” che assimila giudici e pubblici ministeri. Che confonde quella che dovrebbe essere la cultura del limite con la lotta ai fenomeni criminali. Che tiene innaturalmente unite, in una cultura ibrida e ancipite, l’arbitro e il giocatore. Perché, mentre altrove è comunque un “giudice” ad esercitare quei nuovi poteri, nel nostro Paese è “un giudice che non è giudice” (in quanto privo del fondamentale requisito costituzionale della terzietà) a governare questi spazi smisurati: li crea, li alimenta o li elimina a suo piacimento. Giovandosi della ricerca del consenso, pur non essendo eletto. Governando la politica, pur essendo un funzionario. Collocandosi, di fatto, al vertice della produzione normativa, pur essendo un “burocrate”.

Collocato all’interno di una magistratura autocratica, questo tipo di giudice-non-giudice si sottrae con ostinazione agli interventi del potere legislativo. Quello che altrove è, dunque, un problema politico-ideologico ed esclusivamente una questione di delimitazione del ruolo nel nostro Paese assume le dimensioni di un abisso istituzionale all’interno del quale la nostra stessa democrazia lentamente sprofonda.

È un motivo sufficiente per tracciare una linea netta fra coloro che, all’interno dell’intera magistratura, ricoprono la figura di giudici terzi e di coloro che svolgono invece funzioni requirenti. Se vogliamo ricollocarci all’interno di un contesto europeo, moderno e avanzato, dobbiamo certamente operare una correzione e immaginare dei nuovi limiti all’agire della magistratura penale e dobbiamo operare perché la politica assuma nuovamente su di sé la responsabilità del governo della società, consapevoli che gli effetti delle decisioni dei giudici sono destinati ad avere ricadute un tempo inimmaginabili sugli equilibri sociali ed economici, sulla sicurezza e sulla promozione e sulla tutela dei diritti e delle garanzie.

Di fronte a questa prospettiva non possiamo non dotarci di un giudice osservante della “cultura del limite.

Questa espressione riassume efficacemente tutte le aspettative che una democrazia liberale coltiva nei confronti di un potere giurisdizionale, che sia garante dei diritti di libertà dei cittadini di fronte all’autorità dello Stato, all’azione dei pubblici ministeri, agli atti investigativi della polizia giudiziaria che a quei pubblici ministeri risponde.

Il giudice non può che assolvere istituzionalmente a questo compito essenziale che lo pone come ultimo “controllore” degli esiti dell’azione penale promossa dai pubblici ministeri. Ma se questo è il compito del giudice, non potremo non riconoscere che “controllore” e “controllato”, giudice e pubblico ministero, non possono appartenere a un unico ordine, non possono essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo, non possono condividere i medesimi meccanismi di selezione elettorale della loro classe dirigente.

Il profilo di sofferenza del nostro attuale sistema, nato in un contesto nel quale il giudice regolava ancora spazi modesti del contesto sociale e lo poteva fare con un’impronta ancora paternalistica, non è soltanto quello dell’”amicizia” in senso psicologico (riassunta nelle consuete espressioni: “pubblici ministeri e giudici prendono il caffè insieme” o “si danno del tu”), ma soprattutto quella dell’assenza di una necessaria “inimicizia” intesa in senso politico, come condizione di un indispensabile conflitto, di un fisiologico antagonismo fra poteri, volta all’efficienza e all’equilibrio di ogni sistema ordinamentale e istituzionale democratico, complesso e aperto.

Quante volte nell’esperienza giudiziaria capita, infatti, di osservare giudici visibilmente “ostili” ai pubblici ministeri, ma non per questo terzi. Perché vediamo quegli stessi giudici supplire a una presunta incapacità dell’accusa, prendere nel processo il posto del pubblico ministero, assumere su di sé il ruolo, i modi e il sentire dell’accusatore. Un fenomeno reso possibile dall’assunzione da parte dei magistrati, al di là dell’interpretazione delle distinte funzioni, di un’identica cultura del processo visto come strumento di contrasto al crimine.

Se, infatti, pubblico ministero e giudice pensano entrambi di essere impegnati – sia pure con funzioni differenti e, magari, “concorrenti” – nella medesima “lotta” contro questo o quel “fenomeno criminale”, il giudice non potrà mai essere terzo. Allora la terzietà non potrà che essere perseguita attraverso una separazione degli ambiti ordinamentali, organizzativi e disciplinari cui appartengono il giudice e l’accusatore, perché solo attraverso tale separazione sarà preservata quella condizione essenziale che i pensatori dell’illuminismo, cultori della separazione dei poteri, chiamavano “inimicizia”, ovvero quel sentimento che fa sì che un potere controlli l’altro e che il titolare di un potere, non essendo mosso da alcun sentimento di “amicizia” ordinamentale nei confronti di un altro soggetto, possa sempre diffidarne, verificandone i metodi, falsificandone i risultati, non condividendone mai né gli scopi, né le passioni.

Questo pensiero ci consegna dunque un modello concettuale che, applicato in concreto all’individuazione delle giuste prerogative dei soggetti che agiscono all’interno del processo penale, finisce con il confermare l’idea che un giudice terzo è una vera e propria “condizione di giustizia”, capace di garantire l’equilibrata suddivisione delle prerogative e dei poteri fra le parti processuali, e che la terzietà del giudice è dunque caratteristica intrinseca e irrinunciabile del processo accusatorio e in tal senso unica garanzia della sua efficienza e della sua funzionalità.

Garanzia, in particolare, del funzionamento di quella macchina gnoseologica, la più moderna e la più efficace di cui disponiamo, costituita dal contraddittorio.

In quest’ottica si vede bene come la separazione delle carriere di giudice e di accusatore non sia affatto un fine, ma esclusivamente un mezzo – ragionevole e praticabile – per raggiungere l’indispensabile obiettivo della terzietà del giudice e come esso debba essere dunque correttamente valutato, non come un fine, ma solo come un mezzo per raggiungere il risultato politico di un necessario e più alto equilibrio ordinamentale.

La separazione delle organizzazioni dei magistrati d’accusa e di decisione è, inoltre, il dato essenziale che connota gli ordinamenti giudiziari democratico-liberali e li distingue da quelli a ispirazione autoritaria. Le funzioni d’accusa e di decisione sono radicalmente incompatibili: non possono essere concepite come due sotto-funzioni di una medesima funzione e neppure possono vedere gli organi dell’una e dell’altra accomunati in un’unica organizzazione ordinamentale.

Le due funzioni sono fra di loro diverse su tutti i piani: i ruoli e le finalità istituzionali, le specifiche culture professionali, la collocazione nella struttura del processo, la relazione con la funzione di difesa.

Per le due funzioni e per gli organi che le esercitano valgono infatti distinti princìpi costituzionali.

Il giudice è terzo e imparziale; il pubblico ministero è parte.

Il giudice è soggetto soltanto alla legge e quindi l’esercizio della giurisdizione è contrassegnato rigorosamente dal principio di legalità; il pubblico ministero è organo dell’azione penale, potere che, nella sua doverosità, annovera ineliminabili momenti di libera discrezionalità.

Il giudice è sovraordinato rispetto alla contrapposizione dialettica fra accusa e difesa; il pubblico ministero partecipa, in un rapporto di parità, alla tensione del contraddittorio delle parti quale strumento gnoseologicamente idoneo alla migliore ricostruzione del fatto.

È dunque improponibile che due soggetti processuali, il giudice e il pubblico ministero, irriducibilmente diversi quanto a configurazione costituzionale, natura istituzionale e funzione, siano identificati in una medesima organizzazione ordinamentale.

L’assetto realizzato dai Costituenti, portato del modello inquisitorio all’epoca vigente, deve essere riformato per acquisire, tramite la separazione delle organizzazioni di giudici e pubblici ministeri, un sistema di amministrazione della giustizia ispirato alle regole del giusto processo. Il valore fondamentale da perseguire è l’imparzialità della decisione, cioè la decisione giusta, che è tale nei meccanismi che la producono e nell’affidabilità sociale: il cittadino, orientato dall’immediato senso comune, non crede che la decisione presa da un giudice che condivide con il soggetto che lo accusa la medesima collocazione istituzionale possa essere una decisione giusta.

Il giudice “collega” dell’accusatore è “tecnicamente” inattendibile per come esercita la giurisdizione ed è “politicamente” non credibile per l’imputato e per la società.

Con la riforma dell’articolo 111 (legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), che stabilisce la formazione della prova in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, davanti a un giudice terzo e imparziale, il legislatore ha scelto con chiarezza di voler adottare il modello accusatorio del processo penale, in tal modo abbandonando definitivamente la tradizione inquisitoria del processo che la Carta costituzionale del 1948 aveva perpetuato.

Al fine di dare piena attuazione alla scelta in senso accusatorio del processo penale è pertanto necessario intervenire per rendere effettiva la terzietà del giudice che costituisce, appunto, il presupposto dell’imparzialità della decisione.

È questa, peraltro, una valutazione che è sostenuta autorevolmente dallo stesso Parlamento europeo che in una delibera relativa al rispetto dei diritti umani nell’Unione europea, afferma come sia “necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati che svolgono attività di indagine (examining magistrates) e quella del giudice al fine di assicurare un processo giusto (fair trial)” (A 4-01 12/1997).

Non è un caso, quindi, che il Consiglio d’Europa abbia espressamente invitato gli Stati membri ad agire “affinché lo status giuridico, la competenza e ruolo procedurale dei pubblici ministeri siano stabiliti dalla legge in modo tale che non vi possano essere dubbi fondati sull’indipendenza e imparzialità dei giudici”, evidenziando lo stretto rapporto tra il ruolo del pubblico ministero nell’ordinamento penale e l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici (raccomandazione REC (2000)19 adottata dal Comitato dei Ministri il 6 ottobre 2000, paragrafo 17).

Parafrasando una infelice frase di un pubblico ministero:”Se incontro sulla strada il giudice del mio processo e lo vedo conversare amichevolmente sottobraccio con il pubblico ministero, non devo aspettare la sentenza per sentirmi dichiarare colpevole”.