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Maschera e volto di Andy Warhol

Andy Warhol - Marilyn 1967
Andy Warhol - Marilyn 1967

Andy Warhol comprese presto l’importanza assunta nel mondo moderno dalla banalità, dal luogo comune riproposto all’infinito e dal desiderio latente di una regressione all’infanzia per esorcizzare timori e insicurezza.

Non si preoccupò di apparire un novatore ma piuttosto il valorizzatore di tutto ciò che da sempre era stato trascurato, convinto di interessare un pubblico pronto a ritrovarsi nella ripetitività e nel disimpegno. Solo l’intelligenza e il gusto da modista che possedeva riuscì a trasformare in un segno di modernità tutto ciò che non ha senso né stile ma solo il sapore eccitante del trasgressivo tenuto al guinzaglio.

L’immaginario collettivo arrivava ormai al grande pubblico attraverso il precotto televisivo, non occorreva quindi pensare più che tanto visto che dall’illusione del video si poteva passare alla realtà confortevole offerta dai grandi magazzini ormai anche luoghi di pellegrinaggio e svago per il tempo libero.

Warhol volle dedicarsi a questo tipo di umanità in scatola nel tentativo di farla assurgere in qualche modo al ruolo di protagonista: “Tutti dovrebbero aver diritto a 15 minuti di fama”. Proprio per questo scelse la banalità di un barattolo di pomodori da portare al successo, tentando di mutarne l’avvilente monotonia in attrazione. 

In fondo, per chi considera i grandi magazzini simili a un museo, l’opera d’arte da privilegiare non poteva essere altro da un’immagine assimilabile a livello subliminale e affidata meccanicamente a una elaborazione passiva dell’inconscio.

Eppure Warhol non bluffava, si limitava a comprendere il proprio tempo e i propri simili, un po’ assecondando le loro richieste e un po’ imponendo le sue convinzioni, consapevole di non essere un artista e disposto a invitare tutti a fare come lui: “...chiunque dovrebbe essere in grado di dipingere ogni mio quadro al mio posto”.

Una reale disponibilità dell’autore che, comunque, lasciava le cose come stavano data la sua prorompente natura di star, di genietto bizzarro attorniato da una corte di fans e di collaboratori destinati invece a rimanere inesorabilmente anonimi.

Lui che cercava di essere impersonale, una macchina operante e un uomo libero dalle emozioni, in realtà fremeva per un nonnulla, temeva le malattie, la morte e la stessa solitudine, foriere dei complessi che lo tenevano prigioniero in fantasie da incubo; e se ci scherzava sopra era per celare, dietro il gusto sapido di una battuta, verità inconfessabili.

Quando diceva di aver pregato, secondo l’etica calvinista: “Dio, fammi ricco!” certamente non pensava che avrebbe potuto attirarsi la punizione celeste di essere esaudito.

A differenza di autori quali Burri, Rauschenberg o Fontana, frutto di elucubrazioni scialbe per intellettuali malati di novità scioccanti, il folletto dalla parrucca a cespuglio un suo pubblico reale e di giovani lo aveva, e lo mantiene, dimostrando di rappresentare un momento, sia pur discutibilissimo, del nostro tempo smarrito in ricerche senza più direzioni.

Se Warhol chiedeva a Dio di farlo ricco era perché sapeva il valore insostituibile del denaro nella società che prediligeva, e del resto la natura lo aveva dotato di capacità manageriali in grado di procurarglielo indirizzando sapientemente il proprio lavoro; anche da questo nacque l’idea dei “Ritratti”.

Cosciente di essere totalmente sprovvisto delle doti di ritrattista si rivolse tranquillamente alla macchina fotografica; in società con il signor Daguerre non avrebbe temuto rivali, conosceva bene il pubblico e sapeva come aggiornarne i desideri di sempre.

Una bella foto del soggetto, la sua riproduzione per mezzo della fotoserigrafia, con piccoli interventi di colore per dare il senso della manualità ed ecco una immagine fascinosa da stamparsi nel colore voluto.

Chi si fa fare il ritratto lo desidera somigliante e quindi la fotografia poteva accontentarlo purché abilmente camuffata da opera d’arte. Così facendo Warhol annullava millenni di manualità, umiliava la bravura del pittore delle regine, Pietro Annigoni, entusiasmava i giovani e non dispiaceva agli adulti.

È arte la sua? Ma chi si pone ormai di tali quesiti?

Di una Coca-Cola, di un hamburger o di una frittella sfornata in serie non si chiede come son fatti e neppure che cosa siano di preciso, basta rispondano costantemente a un certo gusto, quello dei più.

Aveva capito che il pubblico vuol riconoscere ciò che vede e vedere ciò che conosce, lui lo accontentava.

A volte, come nelle fotoserigrafie di giocattoli o di animali, agiva semplicemente come fanno i bambini quando ripassano coi pennarelli le figure di un libro, l’immagine conservava la sua struttura ma si faceva sbarazzina.

Figlio di emigrati a Pittsburg dalla Cecoslovacchia, il padre minatore, la madre contadina, chissà quali atavici meccanismi avevano agito per fare di questo ragazzo poverissimo, sfuggito alla “sindrome dell’aristocrazia del Vecchio Mondo”, il convinto assertore della democrazia americana: “...l’America ha dato il via al costume per cui il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del povero(...). Sai che il Presidente beve Coca-Cola, Liz Taylor beve Coca-Cola, e anche tu puoi berla. Una Coca è una Coca, e nessuna somma di denaro può procurarti una Coca migliore di quella che beve il barbone all’angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone. Liz Taylor lo sa, lo sa il Presidente, lo sa il barbone e lo sai anche tu”.

Insomma c’è un momento, compreso e accettato anche da Warhol, che in qualche modo lega tutti gli americani, e il sapersi membri di una società cosiffatta conforta, dà sicurezza e perfino orgoglio.

È noto un autoritratto giovanile dell’autore, sempre in fotoserigrafia, con la sua parrucchetta bianca e un volto serenamente indifferente. In un altro, eseguito un anno prima della morte, giunta inattesa a 59 anni, sono scomparse serenità e indifferenza; la parrucca è ormai un cespo ispido e il volto annuncia atterrito la forma del teschio.

Forse la vita non lo aveva mai posseduto interamente, un angolo era rimasto riservato all’innominata che riusciva a velare i suoi pensieri e la sua opera, per questo non l’aveva mai chiamata per nome, forse temeva di dover riconoscere proprio in lei la grande democratica, la vera eguagliatrice  beffarda e incorruttibile.