Natale in carcere … il settimo Natale in cella
Natale in carcere … il settimo Natale in cella
E’ stato il settimo Natale in carcere quest’anno, e la fatica di questa condizione si è fatta sentire nello spirito e nella condizione fisica.
Le Feste per un detenuto sono sempre un momento difficile...un momento di involuzione, direi di tristezza … di vuoto.
Mi sembra un tempo infinito … tanto da aver perso il senso della festa…la gioia di un momento sereno e di condivisione …non ricordo più le luci che illuminano le strade, le vetrine …non ricordo neppure quella frenesia insulsa che mi faceva correre per regali e convenevoli facendomi dimenticare il senso della festa …
Non ricordo quasi più nulla … ma mi manca quel senso di calore che dopo tutte le trepidazioni inutili, i mille auguri formali e informali…ti accoglieva nell’angolo della casa dove si ritrovava un momento di pace…
E’ un ricordo che sfuma con il passare del tempo sino a confondersi con il buio delle giornate invernali…con il silenzio della cella …annegare in quel senso di solitudine e di abbandono.
Quando si avvicina il Natale, tutto si fa più difficile, guardo i miei compagni ed osservo la trepidazione crescere…ricordo il primo anno di detenzione, prima del Covid, la settimana prima del Natale si sono tenuti i colloqui con i familiari, colloqui in cui in via straordinaria si poteva consumare un pasto (oddio…simil pasto) trasformando il colloquio in una sorta di festa, di pranzo natalizio …ricordo che per molti quella era stata l’occasione di incontro con i familiari, magari giunti da lontano, da molto lontano… occasione per riabbracciare persone, per riaccendere ricordi e sentimenti …
I giorni che precedono il Natale in carcere si vive la frenesia dei colloqui, l’incontro con le famiglie, i pacchi che i familiari portano con dentro ogni cosa che spesso non passa il controllo e quindi torna indietro.
Poi il covid …che ha portato via tutto …anche gli incontri della vigilia … ha determinato una netta separazione tra il dentro e il fuori … e questa condizione è divenuta regola anche dopo il covid. Sempre più isolato il carcere e i detenuti dal mondo esterno, sempre dimenticati …più soli nella propria condizione.
Il giorno di Natale non ci sono i familiari, i parenti, le persone amate …c’è il vuoto…e stride persino l’augurio che noi detenuti ci facciamo durante tutto il giorno incontrandoci nel corridoio della sezione; quel “buon natale”, assomiglia ad una beffa !
Non c’è neppure il telefono per un augurio di voce…, una telefonata alla settimana per 10 minuti non basta, e se hai conservato questa telefonata per il giorno di Natale…ti assale l’angoscia: chi chiamo? Quale dei figli, mia madre …chi chiamo… e ti tormenti in una lunga riflessione, quando decidi il giorno è già avanti … prendi chiami e il telefono squilla… una due ..dieci …parte la segreteria (“risponde la segreteria del noumeno …lasciate il vostro messaggio dopo il bip..”) e mentre ti accorgi che è partita la segreteria realizzi che hai perso la chiamata… non puoi avere la seconda opportunità .. ti rammarichi e non puoi far altro che aspettare… ma intanto Natale è andato
Ti resta solo il tempo incredibilmente lento a scandire i pensieri …infiniti pensieri al passato …ai Natali festosi …gli occhi sbarrati verso l’alto a scrutare il nulla nel soffitto della cella …
Un detenuto perde il senso della festa, non ha voglia di festeggiare, per cui Natale come tutte le restanti feste sono un giorno uguale agli altri, in cui mangia quel poco che offre il “carrello” ed aspetta che venga sera per dormire in attesa di un altro girono uguale …fatto per aspettare il giorno successivo …
Natale allora è un pensiero, spesso un tormento che interroga il detenuto, lo chiama a rendere il conto di una condizione… è proprio la condizione di detenzione che a Natale si fa più pesante più oppressiva …
non puoi sfuggire alle interrogazioni…anche se non vuoi parlare …sei costretto dalla condizione che ti stringe, ti schiaccia nell’angolo e non ti da pace…perché se non fossi lì…se non fossi sdraiato su quella branda a fissare il soffitto…avresti accanto le persone amate, forse saresti distratto da mille consumi …ma saresti vivo.
Molti detenuti si aggrappano alla messa solenne, si celebra nello spazio più grande dell’Istituto, radunati dai diversi reparti, occasione per incrociare un compagno che sta in un altro reparto, scambiare due parole, perennemente guardati dagli agenti, si ascolta la messa officiata dal prelato per sentirsi vivi, ma non siamo vivi…siamo rinchiusi in questi sarcofagi di cemento.
Non vi è dubbio che chi partecipa alla messa lo fa con spirito religioso, certamente si sente parte di un rito, affida a quella messa le sue speranze, le sue preghiere che quasi sempre si ispirano alla richiesta di una condizione migliore, la richiesta di forza per arrivare alla meta costituita dal termine della detenzione. In quel rito religioso a cui partecipano numerosi i detenuti, c’è sicuramente un sentimento religioso contaminato dal bisogno… Noi tutti ci ricordiamo di Dio e della fede nel bisogno…e questo è il problema. !
Questa celebrazione quest’anno poteva avere un senso diverso…ma non si è compiuto. Nell’anno Giubilare Papa Francesco aveva aperto il 26.12.2024 la Porta Santa nel carcere di Rebibbia, attraverso quella porta sarebbe dovuta passare la “Speranza acchè anche gli ultimi possano avere una dignità” e ancora rispondendo alle domande dei giornalisti disse «Qui non ci sono pesci grossi, che hanno l’astuzia di rimanere fuori. Dobbiamo accompagnare i detenuti»
Bene quella speranza è stata soffocata, confusa con la strumentale richiesta di indulti o amnistie…quello che i detenuti chiedono non sono sconti di pena…sono condizioni umane di detenzione, condizioni che permettano di espiare ma di farlo in modo dignitoso, questa speranza è stata spezzata, viene spezzata ogni giorno in cui si nega la dignità all’uomo, al carcerato, stipato in celle che non contengono più le persone, abbandonati in una condizione che non può dirsi umana. La Porta Santa di Rebibbia si è chiusa nel silenzio e nella indifferenza il 21 dicembre 2025 non c’era più Papa Francesco, il postulante della speranza per i detenuti…
La giornata volge al tramonto ed anche il mio settimo Natale volge al declino, in me la tristezza di una solitudine incolmabile, il senso di inutilità, di essere dimenticato si mescola alla paura di domani…la paura che questa condizione vissuta così a lungo rischi di farsi normalità, ed il pensiero si fa grave ragionando su ciò: soli in carcere si è costretti, ma lì la solitudine la combatti con la medicina della speranza, la speranza di una vita nuova quando lascerai il carcere alle tue spalle…ma se la solitudine ti dovesse seguire …seguire fuori perché si è impadronita di te, ha consumato ogni relazione, ogni affetto, ogni legame …?
Il Natale mette in scena ciò che siamo e ciò che non siamo riusciti a essere. Promette luce mentre molti sperimentano buio. Parla di nascita mentre tanti fanno i conti con la perdita, la solitudine, la precarietà materiale e affettiva. Esalta la famiglia mentre non pochi vivono relazioni spezzate o assenti. È una festa che amplifica: amplifica la gioia, ma anche il dolore.
Se torniamo al Vangelo, il Natale è una nascita segnata dall’emarginazione: nessun posto nell’alloggio, una famiglia precaria, un contesto politico oppressivo, un potere imperiale che censisce e controlla.
C’è chi a Natale si esalta: perché ritrova affetti, perché può permettersi di celebrare, perché sente una continuità tra il messaggio e la propria vita. E c’è chi si deprime: perché quella stessa festa gli ricorda ciò che manca, ciò che è stato perso, ciò che non torna.
La via maestra non è né l’euforia obbligatoria né la tristezza colpevolizzata. È la sobrietà della speranza. La speranza che non è ottimismo. Non è pensare che “andrà tutto bene”. È piuttosto la convinzione ostinata che la storia, anche quando è segnata dall’ingiustizia, dalla tribolazione , dall’errore, non è consegnata al non-senso.
Il Natale non chiede buoni sentimenti, ma scelte di campo. Forse la via maestra sta tutta qui: nel restituire al Natale la sua concretezza scandalosa. Un Dio che nasce chiede mani che agiscano, non solo parole che commuovano. Chiede comunità capaci di farsi luogo di accoglienza reale, non vetrine morali. E chiede, a ciascuno, un atto di verità: riconoscere ciò che siamo, senza maschere natalizie. Anche la tristezza può diventare luogo di fede, se non viene rimossa. Anche il silenzio può essere preghiera, se non viene riempito di rumore.
Forse il Natale possibile, oggi, è quello imperfetto ma vero. Quello che non nega il dolore, ma non rinuncia alla speranza. Quello che non illude, ma accompagna. Quello che non salva il mondo in un giorno, ma ricorda che il mondo può essere cambiato solo partendo dagli ultimi.