x

x

Necessità della colpa e sacrificio dell’innocenza: tre storie italiane

Torri di Perugia dal ciclo Storie di S.Ludovico e S.Ercolano, Benedetto Bonfigli, 1454, Galleria nazionale dell'Umbria
Torri di Perugia dal ciclo Storie di S.Ludovico e S.Ercolano, Benedetto Bonfigli, 1454, Galleria nazionale dell'Umbria

I Parte

«A certi livelli non esistono innocenti,

esistono solo colpevoli non ancora scoperti»

Piercamillo Davigo

«Quanto al “garantismo”,

è quasi sempre una parola vuota,

un gargarismo insensato»

Marco Travaglio

«È un’innocenza particolare

quella che hanno le persone

quando non si aspettano di venir ferite.

Chi potrebbe violare questa innocenza

senza fare del male anche a se stesso?»
Hanif Kureishi

 

Indice

1. Introduzione

2. Qualche precisazione di partenza

3. La coralità nella creazione della colpa

 

1. Introduzione

Alcuni, a leggere le prime due frasi che seguono al titolo, le giudicheranno vere e giuste.

Altri false e sbagliate (io tra questi, non voglio fingere un’ipocrita imparzialità) e, per una sorta di contrappasso, gli rovesceranno la qualifica di gargarismi cara a Travaglio.

La terza frase sta lì solitaria, muta testimone di un diverso punto di vista e dell’esistenza di qualcuno che ci crede.

Opinioni in tutti i casi, non molto utili per chi cerca oggettività.

Il punto di partenza è altrove, agevolmente individuabile nella storicità della posizione oggi espressa da Davigo, Travaglio e tanti altri con loro.

Il pensiero di cui si fanno portavoce è stato sempre presente e largamente rappresentato e condiviso nella storia umana.

Non da solo, non basterebbe a se stesso.

Il fastidio verso l’innocenza e le garanzie necessarie a difenderla perderebbe forza, capacità attrattiva e ragion d’essere se non fosse giustificato dall’incrollabile convinzione che la colpa, sua eterna antagonista, sia una caratteristica immanente della stragrande maggioranza degli esseri umani.

Quasi tutti, non tutti.

Perché, se tutti fossero colpevoli, nessuno potrebbe rimproverare niente agli altri e pretendere di considerarsi migliore dei suoi simili.

Mancherebbe la legittimazione alla differenziazione etica e quindi al giudizio e non si potrebbe produrre i suoi effetti tipici, che rassicurano i buoni e spaventano i cattivi.

Non basta ancora.

Se la colpa è così importante nella costruzione delle società umane, la sua definizione non può essere lasciata al caso né si può ammettere che chiunque vi concorra con visioni eccentriche.

Il compito è quindi affidato, in accordo alla più diffusa architettura istituzionale, al legislatore e al giudice.

La colpa si stabilizza in ciò che contraddice la legge, che si fa di vietato, che non si fa di imposto.

La legge, a sua volta, è ciò che i suoi interpreti autorizzati dicono che sia.

Si possono tollerare – talvolta sono addirittura indispensabili - vaghezze descrittive ma solo entro percorsi guidati e solo per assicurare tutta la flessibilità che serve a chi ha il compito di definire, scovare e sanzionare la colpa.

Chi fa le leggi ha ogni libertà in materia di colpa, tranne quella di negarne l’esistenza.

Chi applica le leggi ha la stessa libertà e lo stesso limite ed è tanto più coerente al sistema quanta più colpa scopre e punisce.

Non è indispensabile né richiesto che il rapporto tra legislatore e giudice sia sempre uguale.

È possibile che in alcuni periodi il primo assicuri meglio del secondo la chiarezza etica che la società pretende.

Ma è possibile anche il contrario.

Chi viene individuato come interprete meno efficace del bisogno di colpa perde autorevolezza e peso e transita nella vasta moltitudine dei colpevoli.

Un equilibrio instabile e mutevole che tuttavia non inficia né indebolisce l’essenzialità della colpa la quale vive di vita propria chiunque sia il suo temporaneo custode.

Occorre infine un’ultima condizione.

Che la colpa sia sì fondata sulla legge e applicata dai giudici che ne definiscono la portata, ma comunque desunta da una fonte che a sua volta legittimi la legge e il giudizio, riconoscendoli coerenti a valori che trascendono la contingenza e si iscrivono nell’in sé della umanità.

La volontà di un essere trascendente, la natura individuale dell’uomo, la natura collettiva dei consorzi umani, combinazioni varie dei tre fattori, ognuna di queste fonti di legittimazione è stata ed è tuttora sperimentata nelle società umane.

Quello che conta, che radica la scelta e la rende comprensibile e condivisa, è che non venga mai a mancare il conflitto innocenza/colpevolezza e con esso la possibilità di distinguere tra uomo e uomo e di fondare le gerarchie sociali su questa distinzione.

Nasce da qui «l’eterno bisogno di una colonna infame»[1].

A questa constatazione intendo attribuire valore assiomatico.

Lo ha per me ma non è affatto detto, né pretendo, che lo abbia per tutti.

Tutte le proposizioni che la giustificano, di per se stesse considerate, ammettono obiezioni e opinioni contrarie, fondate su ragioni storiche, filosofiche, religiose e giuridiche.

Si può legittimamente sostenere che la colpa, piuttosto che creazione umana, sia il riconoscimento terreno di precetti divini.

Che non segua alla volontà di creare assetti sociali gerarchici fondati sulla supremazia etica di uomini su altri uomini ma sia vero il contrario, che cioè quegli assetti sono germinati spontaneamente perché alcuni uomini erano migliori e quindi più affidabili di altri.

Che non sia uno strumento di governo oligarchico, perché il significato che le si attribuisce è il frutto di una sensibilità corale, propria della nostra razza anche se non condivisa da ogni singolo essere umano.

Altro ancora.

Tutto possibile e legittimo.

Ma proprio l’impossibilità di certezze universali consente paradossalmente ad ognuno di seguire la strada che ritiene più appropriata e di attribuirle il valore che ritiene più congruo.

Rivendico quindi la libertà che spetta a chiunque, quella di affermare come vera la premessa che ritengo più corretta, di sperimentarne la praticabilità concreta nella prospettiva che mi sembra più idonea e di usare il campo di osservazione che mi pare il più promettente.

Segnalo infine che mi sono congeniali le domande più che le risposte.

In parte perché ho la consapevolezza di esprimere pensieri individuali, decisamente inadeguati a rappresentare verità condivise.

Ma soprattutto perché il dubbio mi attrae più della certezza.  

Considero che l’asserita definitività di un’idea condanni essa stessa e chi l’ha formulata all’immobilismo e all’incapacità evolutiva.

Le risposte chiudono il dibattito, le domande lasciano il campo aperto e francamente questa seconda alternativa mi piace più della prima. 

 

2. Qualche precisazione di partenza

La grande libertà che mi sono concesso non mi consente in ogni caso di sfuggire ad alcune puntualizzazioni.

Senza riguardare direttamente il concetto essenziale di colpa, le stanno comunque attorno e la loro soddisfazione rende un po’ meno opinabili le scelte successive.

Il primo quesito riguarda l’insorgenza della colpa, cioè il momento in cui essa si manifesta come tale.

In una prospettiva esclusivamente formalista, la legge seleziona astrattamente i comportamenti che le corrispondono, il giudizio compara la descrizione legislativa al comportamento concreto e afferma o nega la colpa.

Qualcosa però precede questi momenti formali.

La colpa si manifesta prima della legge e del giudizio e lo fa anzitutto come sentimento individuale.

Qualcuno fa o omette di fare qualcosa e si sente per ciò stesso colpevole.

È chiaro che questo sentimento richiede un parametro di comparazione che generi un conflitto.

Capita talvolta che anche quel parametro sia interamente individuale, cioè corrisponda a uno schema mentale proprio di un singolo individuo il quale, al tempo stesso, attribuisce valore a un convincimento personale e non riesce a comportarsi in modo ad esso conforme.

Non mi occupo di questa eventualità.

Non perché insignificante ma perché mi interessa riflettere sulla colpa come fenomeno relazionale e il conflitto che si esaurisce in un singolo individuo non è il più adatto.

Mi sento quindi obbligato a restringere il campo di osservazione e focalizzare l’attenzione sulla colpa come effetto di una relazione tra più individui.

Accettata questa premessa, il conflitto che sta alla base della colpa e la rende manifesta consiste in una divaricazione tra ciò che fa o non fa un individuo e ciò che i suoi simili ritengono che egli debba o non debba fare.

Non mi interessa riflettere sull’origine del parametro comparativo, se si formi in nome di un convincimento religioso o ideologico o culturale o meramente utilitaristico.

Una qualsiasi di queste ragioni può fungere da parametro dato e la scelta dell’una o dell’altra non sposta i termini della questione.

Mi chiedo piuttosto, tornando al quesito di partenza, quando si manifestano il conflitto e la colpa che ne è l’effetto.

Quando queste manifestazioni diventino legittime e acquistino la capacità di produrre i loro effetti tipici, tra tutti in primo luogo la pena.

Sento la necessità di riflettere su questi temi in modo più attento alla sostanza che alla forma.

Considero cioè importante capire se la colpa cominci a essere tale prima di qualsiasi sigillo formale e se la riprovazione che l’accompagna acquisti un’effettiva consistenza prima o addirittura a prescindere dall’intervento degli apparati istituzionali cui spetta l’apposizione di quel sigillo.

Quesito che ne genera immediatamente altri: se vi siano correlazioni possibili o addirittura obbligate tra la fase preistituzionale e quella istituzionale e se quest’ultima comprenda o comunque si arroghi funzioni e compiti normalmente associati alla prima e se, addirittura, essa stessa crei o concorra a creare le condizioni perché la fase preistituzionale si atteggi in un modo piuttosto che in un altro.

Mi chiedo, in altri termini, se la colpa e la riprovazione nascano e acquistino rilievo come sentimenti di derivazione popolare oppure, almeno in parte, siano indotte da istituzioni che non si accontentano di assolvere ai loro compiti istituzionali e pretendono di agire come catalizzatori di emozioni e sentimenti.

Date queste premesse, il mio scritto richiede di essere focalizzato sulla costruzione sociale della colpa e sulle correlazioni tra individui, comunità e istituzioni che ne stanno alla base.

Mi propongo inoltre di esplorare i vari modi in cui quella costruzione può atteggiarsi e produrre i suoi effetti.

Non è alla mia portata e neanche nei miei programmi una trattazione con pretese di completezza e universalità.

Mi limito quindi a selezionare specifici fatti della vita accomunati dalla caratteristica di essersi prestati alle classiche dinamiche della colpa e quindi utili nella direzione che ho intrapreso.

Per alcuni di essi il giudizio propriamente inteso ha avuto il suo epilogo finale, per altri ancora non è stata finora emessa alcuna sentenza.

Questa differenza non è rilevante per la mia riflessione perché le valutazioni giudiziarie non ne rappresentano un parametro decisivo.

Per quanto autorevoli e dotate di efficacia formale, sono nient’altro che opinioni che si aggiungono a tutte le altre.

Mi è indifferente, e certo non mi spetta alcuna valutazione al riguardo, che le decisioni giudiziarie, già emesse o future, siano giuste o sbagliate, conformi o non conformi alla verità reale e processuale.

Per me contano soltanto la ricorrenza in quei fatti delle connessioni da cui nasce la colpa e la rilevazione dei relativi meccanismi.

Connessioni e meccanismi che hanno ben poco a fare con la verità e la cui presenza o assenza non ha nulla a che fare con questa.

Sono ben consapevole del rischio che corro.

Potrei servirmi di fatti che, pur apparendomi in un certo modo e suggerendomi alcune implicazioni, risultino poi ben diversi dalla percezione che ne ho avuto.

Potrebbe essere che esiti giudiziari di là da venire smentiscano clamorosamente le mie riflessioni.

Troverei però inaccettabile che un rischio simile freni il mio pensiero o quello di chiunque altro.

Mi considero tuttavia tenuto – ma è un obbligo che provo a rispettare sempre, in qualunque mio scritto, in ogni sua parte – a usare tutte le cautele che possano prevenire mie valutazioni e conclusioni arbitrarie e fornire al lettore tutte le informazioni di cui dispongo sullo stato delle vicende che prendo in considerazione e sulla loro progressione giudiziaria.

Se poi queste cautele si rivelassero insufficienti, mi sentirò obbligato ad iscrivermi anch’io al club dei creatori di colpe artificiali e avvertirò il dovere morale di darne atto nell’unica forma che mi è possibile, riflettendo sulle mie piuttosto che su quelle di altri.

Infine, tutte le volte che mi riferisco alle persone coinvolte a qualsiasi titolo in questi fatti, le identifico esclusivamente con le iniziali.

Ho profondo rispetto per i diritti all’oblio e alla riservatezza di ognuno e ritengo di dovergli riconoscere una latitudine ben più ampia di quella ordinariamente concessa.

 

3. La coralità nella creazione della colpa 

Perugia, 6 novembre 2007.

ADF, questore di Perugia reduce da giorni sfiancanti e notti insonni, si concede alla stampa[2]: «Sono stati quattro giorni e quattro notti di indagini ininterrotte che hanno visto gli uomini della Squadra Mobile di Perugia, dello SCO, dell’ERT e della Polizia postale lavorare sinergicamente con uno spiegamento di forze e di mezzi … indagine sostanzialmente chiusa … particolare e attento riscontro degli elementi emersi, ora dopo ora, minuto dopo minuto … C’è amarezza per la morte di una giovane ragazza … C’è però anche soddisfazione per il lavoro svolto … Abbiamo sentito il peso della responsabilità nei confronti dei cittadini, che volevano una risposta certa e la volevano subito … tutti e tre hanno partecipato al fatto (il questore si riferisce non solo ad AK e RS ma anche a PL, che sarebbe stato scarcerato di lì a due settimane per assoluta mancanza di indizi, n.d.a.)».

Anche GA, Ministro dell’Interno pro tempore, fa sentire la sua voce (riportata unitamente a quella del questore) e, riferendosi alla vittima, afferma che «Delle persone amiche hanno tentato di forzarla a rapporti che non ha ritenuto di avere ed è stata uccisa».

Le esternazioni seguono all’omicidio della cittadina britannica MK (ritratta nella foto sopra), avvenuto nella notte tra l’1 e il 2 novembre 2007.

Il processo che ne è derivato è così noto che mi sento dispensato da qualsiasi obbligo riassuntivo[3].

Del resto, la mia attenzione non è attirata dal processo in sé e dal suo esito finale ma dalle dichiarazioni dei protagonisti, da ciò che le ha precedute e occasionate e dagli effetti che hanno prodotto.

Trovo che le esternazioni di ADF siano un piccolo capolavoro comunicativo e abbiano il pregio di incrociarsi empaticamente col bisogno di sicurezza tipico di ogni società umana.

ADF chiama a raccolta la comunità perugina, idealmente espressiva dell’intero popolo italiano, e le chiede simpatia, ammirazione e fiducia verso la Polizia di Stato.

Non si limita a chiedere, giustifica la sua richiesta: la gente perugina può contare su un corpo di polizia coeso in ogni sua articolazione (dunque privo di lacerazioni interne che possano ridurre l’efficacia e l’oggettività della sua azione), capace di qualunque sacrificio pur di ottenere il risultato perseguito, dotato di tutti gli strumenti che servono all’ottimale espletamento dei suoi compiti, così abile tecnicamente da rendere impossibile qualunque incidente di percorso.

ADF non esita poi ad associare all’azione della Polizia di Stato caratteristiche emotive:

l’amaro senso di perdita per una giovane vita spezzata, certo, ma anche il lecito compiacimento di chi sa di aver compiuto per intero il suo dovere istituzionale.

Ma c’è di più ed è qui che comincia il capolavoro mediatico.

Non è soltanto il dovere ad aver mosso il questore e i suoi uomini.

I perugini vogliono risposte e le vogliono subito.

ADF non disquisisce sull’appropriatezza di queste esigenze, non spacca il capello in quattro.

Considera ineludibili quei bisogni per il solo fatto della loro derivazione popolare e li soddisfa senza se e senza ma.

La gente vuole una risposta, cioè un colpevole, e il questore gliene dà addirittura tre.

Pretende che si scopra l’autore dell’omicidio e lui non solo lo scopre ma si accorge che ha inflitto violenza sessuale oltre che morte.

La gente vuole subito quel colpevole e ADF provvede in quattro giorni.

Le dichiarazioni del questore meritano ancora attenzione non solo per quel che affermano ma anche per quello su cui tacciono.

ADF si rivolge alla gente ma trascura la vittima, alla quale dedica solo un fugace cenno di amarezza, e ignora completamente gli accusati, evidentemente ritenendoli immeritevoli di pietà umana e di qualsiasi ulteriore attenzione rispetto alla loro identificazione come colpevoli.

Fin qui il questore.

Già efficace da solo ma la coralità è meglio ed ecco il ministro dell’interno che, con quei semplici accenni alle persone amiche e al movente sessuale, legittima al più alto livello il percorso seguito dagli investigatori perugini.

Penso che sia già possibile trarre alcune conclusioni.

Le esternazioni citate in apertura vanno attribuite allo Stato, non ai singoli uomini che lo rappresentano in un certo momento e per certe funzioni.

Sono perciò parole con bollino blu e fede privilegiata, destinate a creare certezze e dissipare dubbi.

La fiducia che chiedono e impongono non è selettiva ma massimamente inclusiva.

Chi ascolta non deve solo credere che le forze dell’ordine stanno facendo del loro meglio per venire a capo di un crimine odioso, individuarne i possibili autori e consegnarli alla giustizia perché faccia il suo corso.

Deve invece essere certo che quelli, proprio loro e non altri, sono gli assassini, che quella è l’unica storia da raccontare.

Deve sapere che altri membri della sua comunità hanno interloquito con le istituzioni, gli hanno chiesto ciò che gli stava a cuore, sono stati ascoltati con attenzione, hanno avuto esattamente la risposta che si attendevano.

Si deve convincere che i suoi consociati hanno chiesto un colpevole e vogliono che le istituzioni mirino al cuore del bersaglio senza inutili fronzoli.

Prima e sopra di tutto, lo Stato chiede alla gente di focalizzare la sua attenzione su un unico aspetto, la colpa.

Non sono consentite distrazioni.

C’è una vittima, certo, ed è giusto tributarle qualche sommessa parola, ma subito dopo deve scomparire perché spetta alla colpa occupare il centro della scena e vivere di vita propria, come simbolo e conferma delle pulsioni negative dell’uomo.

Ci sono i colpevoli, chiaro, ma sono soltanto l’occasione per soddisfare l’eterno bisogno della colonna infame e celebrare una volta di più il rito della punizione.

Nessuno spazio, va da sé, può essere riservato all’innocenza.

Il grande spettacolo della rappresentazione della colpa ha fatto il tutto esaurito.

L’innocenza si metta l’anima in pace, non sono rimasti neanche posti in piedi e poiché non è un’autorità, non ci saranno biglietti omaggio a sua disposizione.

Che le cose dette siano vere, che sia corretta la logica su cui sono fondate, che le investigazioni siano state ortodosse, che la gente abbia fatto davvero sentire la sua voce e, facendolo, abbia chiesto proprio quello di cui ha parlato il Questore, tutto questo va creduto sull’onore e l’autorevolezza di chi lo afferma.

Niente di più, niente di meno.

Esiste un’unica verità ed è quella dei pochi che possono proclamarla e comunicarla.

Una verità che lo Stato non racconta solo ai cittadini ma anche a se stesso.

I messaggi contenuti nelle parole di ADF e GA provengono dal potere esecutivo e, se le cose hanno un senso, sono destinati anche e soprattutto al potere giudiziario.

Non trovo di meglio che definire questo scambio come un pressante invito alla coralità.

L’esecutivo si mostra assertivo e rassicurante con i cittadini e già questo, in tempi in cui la riflessione pacata e autonoma non è moneta corrente, è sufficiente a far mettere radici ad un’idea colpevolista di tipo monodirezionale.

È chiaro però che se lo stesso progetto è condiviso da coloro cui spetta il definitivo lasciapassare, la sua esattezza e corrispondenza ai bisogni popolari non ammetteranno neanche il più marginale dei dissensi.

È questa la quadratura del cerchio, è qui che la tensione verso la colpa si trasforma in un obiettivo raggiunto, è qui che la conciliazione sociale viene assicurata.

L’invito dell’esecutivo, in effetti, viene accolto da molti protagonisti del successivo processo e le cronache sono lì a dimostrarlo.

Non solo lo recepiscono ma vi aderiscono con assertività fuori del comune, quella che di solito si riservano alle grandi occasioni, tali per capacità simbolica o oggettiva gravità dei fatti o risonanza mediatica o tutte queste cose messe insieme.

Non faccio alcuna rassegna, ancora una volta la notorietà della vicenda mi viene in aiuto e rende inutile ogni scrupolo informativo.

Mi limito a due passaggi che mi pare esprimano al meglio quella speciale assertività.

CPH è il presidente della Corte di Assise di Appello di Perugia che assolve RS e AK e la cui decisione viene annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione.

Alla fine di marzo del 2015 è intervistato da La Repubblica[4].

Due le notizie che giustificano l’interesse giornalistico: qualche giorno prima la Cassazione ha emesso il verdetto finale, a sua volta annullando senza rinvio la condanna di RS e AK; qualche mese prima CPH si è dimesso dalla magistratura, pur potendo rimanere ancora in servizio.

Così spiega il suo gesto: «Praticamente fui costretto. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un’ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alle pressioni della Cia. Panzane, certo, ma quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l’inchiesta, avevano avallato l’accusa. In più ero in predicato per la presidenza del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne».

Entra così in gioco, pur se introdotto da una singola voce, un aspetto di particolare interesse.

La coralità dell’adesione al progetto di costruzione della colpa può ammettere mugugni sotterranei ma non tollera pubbliche prese di distanza.

La sanzione per i divergenti è l’isolamento.

Passano un paio di mesi, si arriva al 28 maggio 2015, e GM, sostituto procuratore titolare dell’inchiesta perugina e punta di diamante del fronte colpevolista, presenta, assieme a due componenti della Squadra Mobile di Perugia, una denuncia – querela alla Procura di Firenze[5].

Considero privi di interesse il contenuto dell’atto, le ragioni che lo hanno determinato e gli effetti che ha prodotto.

Mi attraggono invece passaggi testuali come questi: «In sede di appello, la Corte di Assise d’Appello di Perugia, inspiegabilmente composta dal Presidente della Sezione Previdenziale e da un consigliere addetto alla Sezione civile … ha assolto i due  … Nel corso del processo sono stati nominati due periti che, tra l’altro, avevano redatto la perizia ignorando i documenti comprovanti l’esito negativo dei controlli sulla pretesa contaminazione del coltello e del gancetto, prodotti invece dalla Procura. Ciò avrebbe dovuto travolgere la perizia stessa ma la Corte … ha ignorato il grave errore commesso dai periti … La Quinta Sezione della Suprema Corte, chiamata a decidere in merito ai ricorsi presentati dagli imputati contro la sentenza del giudice di rinvio, avrebbe dovuto considerare inammissibili i ricorsi … Non si può negare … che la decisione della Quinta Sezione sia una decisione non solo assolutamente imprevedibile e anomala ma che costituisce addirittura un unicum della giurisprudenza della Corte di legittimità».

Ancora una caratteristica significativa: l’irriducibilità della convinzione.

Giusto è ciò che asseconda l’unica chiave di lettura ritenuta possibile, sbagliato è tutto il resto.

Giusto e sbagliato sono così evidenti da sopravanzare qualunque barriera formale e rendere insignificanti e grotteschi tutti i comportamenti privati e pubblici che negano quest’evidenza.

[1] M. Brambilla, www.gazzettadiparma.it%2Fnews%2Fnews%2F423910%2Fl-eterno-bisogno-di-una-colonna-infame,  2 aprile 2017.

[2] “Omicidio Perugia, 3 fermi. Caso chiuso”, Il Sole 24 ore.com, 6 novembre 2007

[3] Per chi fosse comunque interessato a un approfondimento focalizzato sui risvolti mediatici della vicenda, mi permetto di rinviare a V. Giglio, Parole, soltanto parole: le esternazioni sull’omicidio di MK, Filodiritto, 6 settembre 2016

[4] LaRepubblica.it, sezione cronaca, edizione del 30 marzo 2015

[5] Il testo dell’atto, non so bene perché, circola liberamente sul web ed è facilmente rintracciabile.