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Licenziamento - Cassazione Civile: è legittimo il licenziamento se il dipendente copia dati aziendali anche se non vengono divulgati a terzi

Licenziamento - Cassazione Civile: è legittimo il licenziamento se il dipendente copia dati aziendali anche se non vengono divulgati a terzi
Licenziamento - Cassazione Civile: è legittimo il licenziamento se il dipendente copia dati aziendali anche se non vengono divulgati a terzi

La Corte di Cassazione ha stabilito che è licenziabile il dipendente che copia su una pen drive personale alcuni dati aziendali riservati anche se le informazioni non vengono divulgate a terzi.

 

Il caso

Nel caso in esame, la Corte di Appello di Perugia ha riformato la sentenza del Tribunale, ritenendo legittimo il licenziamento di un dipendente da parte del datore di lavoro per aver trasferito su una pen drive di sua proprietà (poi smarrita e casualmente ritrovata nei locali della società) un numero rilevantissimo di dati appartenenti all’azienda.

La Corte ha ritenuto che la condotta del ricorrente integrasse la fattispecie prevista dall’articolo 52 del c.c.n.l. dei dipendenti di aziende chimiche, sanzionata con il licenziamento in tronco.

In merito alla richiesta di pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza sottoscritto dal lavoratore, la Corte territoriale ne ha escluso la spettanza in quanto, per effetto della sua assunzione presso una società con oggetto sociale coincidente, si era determinata una violazione del patto stesso.

Il lavoratore, avverso la sentenza della Corte di merito ha proposto ricorso per Cassazione basato su due motivi.

Con il primo motivo il ricorrente ha contestato la legittimità del licenziamento, sostenendo che i dati aziendali copiati sulla pen drive di sua proprietà non erano mai stati divulgati a terzi e che i file in questione non erano protetti da password e da specifici vincoli di riservatezza. Secondo il dipendente la sua condotta non andava sanzionata con il licenziamento, semmai con un provvedimento a carattere conservativo (articolo 51 del c.c.n.l.).

Con il secondo motivo il ricorrente ha sostenuto che la Corte territoriale avesse interpretato erroneamente la clausola contrattuale sottoscritta dalle parti in quanto con essa non era vietato lo svolgimento di attività presso una società concorrente, ma piuttosto la specifica attività di ricerca nel settore tricologico in relazione alla produzione e distribuzione di prodotti destinati al mercato dell’acconciatura professionale e non professionale specificatamente descritti nella clausola contrattuale. Quindi, lo svolgimento di un’attività in favore di un’impresa concorrente non poteva costituire una violazione dell’accordo sottoscritto.

 

La decisione della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha ritenuto il primo motivo infondato, confermando le motivazioni della Corte di Appello di Perugia.

La Cassazione ha condiviso l’affermazione della Corte territoriale in merito alla condotta del lavoratore. La stessa ha ritenuto che tale condotta abbia violato il dovere di fedeltà sancito dall’articolo 2105 del codice civile. Tale dovere, ha precisato la Cassazione (a sostegno di quanto affermato della Corte Territoriale) “si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, tali dovendosi considerare anche quelle che, sebbene non attualmente produttive di danno, siano dotate di potenziale lesività” (cfr. Cass. 30/01/2017 n. 2239).

La Corte ha affermato che la condotta del dipendente non è collocabile nell’ipotesi meno grave consistente nell’utilizzo improprio di strumenti di lavoro aziendali, in quanto ai fini del perfezionamento della condotta non è essenziale la divulgazione a terzi dei dati di cui si era appropriato il lavoratore, ma risulta sufficiente la mera sottrazione dei dati stessi.

La Cassazione ha chiarito che risulta irrilevante ai fini della valutazione della condotta la circostanza che i dati sottratti fossero o meno protetti da specifiche password. Tale circostanza, ha proseguito la Corte, non autorizzava il dipendente ad appropriarsi dei dati creandone copie idonee a far uscire le informazioni al di fuori della sfera di controllo del datore di lavoro.     

La Cassazione ha rigettato anche il secondo motivo oggetto del ricorso, precisando che: “premesso che il patto di non concorrenza, previsto dall’articolo 2125 del codice civile, può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto esso è nullo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale (cfr. Cass. 10/09/2003 n. 13282)”.

Nello specifico la Corte ha escluso il pagamento della somma concordata proprio perché ne ha accertata la violazione. Il lavoratore non si duole di una nullità del patto ma denuncia, piuttosto, che lo stesso in concreto non sarebbe stato violato. Ha proseguito la Cassazione affermando che: “così facendo, senza denunciare la violazione di canoni interpretativi della clausola contrattuale, richiede alla Corte, nella sostanza, una diversa valutazione dei fatti che in sede di legittimità è preclusa. Come affermato dalla stessa Corte (Cassazione 4 maggio 2009, n. 10232) l’interpretazione del contratto è riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, nella specie non dedotti, ovvero per vizi di motivazione censura che nella specie, per come dedotta, è inammissibile”.

Pertanto, la Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.

(Corte di Cassazione - Quarta Sezione Lavoro, Sentenza del 24 ottobre 2017, n. 25147)