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Non necessità della nomina di un interprete in un procedimento penale se l’imputato mostra di comprendere il significato degli atti a suo carico

Nota a Cassazione - Sezione Seconda Penale, Sentenza 6 ottobre 2005, n. 40807
In tema di necessità della traduzione degli atti di un procedimento giudiziario, nel caso di un imputato che non conosca la lingua italiana, la sentenza in oggetto opta per valutare la concreta comprensione che lo stesso imputato abbia degli atti che lo riguardano.

Sulla problematica in oggetto e sulla necessità della nomina di un interprete il nostro Codice di Procedura Penale all’articolo 143 statuisce a riguardo che “l’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di potere comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa. La conoscenza della lingua italiana è presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano.  Oltre che nel caso previsto dal comma 1 e dall’articolo 119, l’autorità procedente nomina un interprete quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana. La dichiarazione può anche essere fatta per iscritto e in tale caso è inserita nel verbale con la traduzione eseguita dall’interprete. L’interprete è nominato anche quando il giudice, il pubblico ministero o l’ufficiale di polizia giudiziaria ha personale conoscenza della lingua o del dialetto da interpretare. La prestazione dell’ufficio di interprete è obbligatoria”.

È chiaro che l’applicazione di tale disposizione ha quale presupposto l’indagine sulla conoscenza della lingua da parte dell’accusato, indagine che non può essere oggetto di discussione nel giudizio di legittimità innanzi la Suprema Corte, poiché riguarda essenzialmente il merito della questione.

Nel caso specifico, essendo stato provato “con argomentazioni esaustive e concludenti” dal giudice di grado precedente la conoscenza del significato degli atti compiuti da parte dell’imputato, esula nei suoi confronti l’applicazione dell’articolo 143 Codice di Procedura Penale.

Per tale ragione la Corte di Cassazione non ravvisa la necessità della nomina di un interprete nel caso de quo, in quanto nel procedimento penale assunto l’imputato aveva dato prova di riconoscere concretamente il significato degli atti a lui indirizzati e da lui compiuti; argomentazione suffragata dalla circostanza che lo stesso aveva effettuato interrogatori e colloqui in precedenza.

Dovendosi configurare, in ossequio ai principi del “giusto processo” (vedasi anche per la lingua degli atti le garanzie accordate dall’articolo 109 Codice di Procedura Penale), quale presupposto indefettibile per la nomina di un interprete, l’accertamento dell’ignoranza della lingua italiana, quando quest’ultimo accertamento abbia esito negativo ovvero quando sia negata anche la difficoltà di comprensione della lingua italiana da parte dell’imputato, non vi è necessità di applicare l’articolo 143 del Codice di Procedura Penale.

In tema di necessità della traduzione degli atti di un procedimento giudiziario, nel caso di un imputato che non conosca la lingua italiana, la sentenza in oggetto opta per valutare la concreta comprensione che lo stesso imputato abbia degli atti che lo riguardano.

Sulla problematica in oggetto e sulla necessità della nomina di un interprete il nostro Codice di Procedura Penale all’articolo 143 statuisce a riguardo che “l’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di potere comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa. La conoscenza della lingua italiana è presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano.  Oltre che nel caso previsto dal comma 1 e dall’articolo 119, l’autorità procedente nomina un interprete quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana. La dichiarazione può anche essere fatta per iscritto e in tale caso è inserita nel verbale con la traduzione eseguita dall’interprete. L’interprete è nominato anche quando il giudice, il pubblico ministero o l’ufficiale di polizia giudiziaria ha personale conoscenza della lingua o del dialetto da interpretare. La prestazione dell’ufficio di interprete è obbligatoria”.

È chiaro che l’applicazione di tale disposizione ha quale presupposto l’indagine sulla conoscenza della lingua da parte dell’accusato, indagine che non può essere oggetto di discussione nel giudizio di legittimità innanzi la Suprema Corte, poiché riguarda essenzialmente il merito della questione.

Nel caso specifico, essendo stato provato “con argomentazioni esaustive e concludenti” dal giudice di grado precedente la conoscenza del significato degli atti compiuti da parte dell’imputato, esula nei suoi confronti l’applicazione dell’articolo 143 Codice di Procedura Penale.

Per tale ragione la Corte di Cassazione non ravvisa la necessità della nomina di un interprete nel caso de quo, in quanto nel procedimento penale assunto l’imputato aveva dato prova di riconoscere concretamente il significato degli atti a lui indirizzati e da lui compiuti; argomentazione suffragata dalla circostanza che lo stesso aveva effettuato interrogatori e colloqui in precedenza.

Dovendosi configurare, in ossequio ai principi del “giusto processo” (vedasi anche per la lingua degli atti le garanzie accordate dall’articolo 109 Codice di Procedura Penale), quale presupposto indefettibile per la nomina di un interprete, l’accertamento dell’ignoranza della lingua italiana, quando quest’ultimo accertamento abbia esito negativo ovvero quando sia negata anche la difficoltà di comprensione della lingua italiana da parte dell’imputato, non vi è necessità di applicare l’articolo 143 del Codice di Procedura Penale.