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Obbligo vaccinale dei sanitari: la sentenza del Consiglio di Stato

Instanbul, 2015
Ph. Alessandro Saggio / Instanbul, 2015

Il Consiglio di Stato, Sezione Terza, con la sentenza 20 ottobre 2021, n. 7045, respinge il ricorso dei sanitari contrari all’obbligo vaccinale, imposto dall’art. 4 del decreto legge n. 44 del 2021, convertito con modificazioni dalla legge n. 76 del 2021.

E mette un primo importante stop alle doglianze di chi è contrario all’imposizione del vaccino anti Covid 19.

Ma come si è arrivati a questa pronuncia?

Un gruppo di sanitari – medici, infermieri e altri sanitari – avevano contestato gli atti con cui le Aziende sanitarie friulane avevano inteso dare applicazione, nei loro confronti, dell’obbligo vaccinale cd. selettivo previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 per gli esercenti le professioni sanitarie e per gli operatori di interesse sanitario.

Infatti, tale articolo 4 prevede che, in considerazione della situazione di emergenza da Covid 19, fino alla completa attuazione del Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione appunto del Covid 19 e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cure e di assistenza, i sanitari (precisamente gli esercenti le professioni sanitari e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, delle l. n. 43 del 2006 che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali) sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita contro il Covid 19. La vaccinazione costituisce espressamente, per la disposizione di legge, requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati. Unica esenzione dall’obbligo vaccinale, con differimento o addirittura omissione del trattamento sanitario in prevenzione è prevista, nel comma 2, per il solo caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale.

Il decreto legge prevede poi una precisa procedura per l’accertamento dell’avvenuta vaccinazione, nei confronti del sanitario, che si può concludere, in caso di mancata vaccinazione, con l’atto di accertamento da parte dell’Azienda sanitaria locale di residenza dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale.

L’adozione di tale atto determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da Covid 19, come espressamente stabilito dal comma 6 dello stesso articolo 4.

Ricevuta la comunicazione, il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate nel comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate e che comunque non implichino rischi di diffusione del contagio. Quando l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile, per il periodo di sospensione, e cioè fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o in mancanza fino al completamento del piano vaccinale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato.

I sanitari ricorrenti hanno contestato, avanti al Tribunale Amministrativo per il Friuli Venezia Giulia hanno contestato la legittimità di questa disciplina.

Il Tribunale Amministrativo ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso.

Avverso tale sentenza, gli interessati hanno proposto appello avanti al Consiglio di Stato.

Appunto con la sentenza del 20 ottobre, il Consiglio di Stato, Sezione Terza, ha ritenuto ammissibile l’appello.

In primo luogo, ha contestato la presunta mancanza di efficacia e di sicurezza dei vaccini anti Covid 19, lamentata dagli appellanti. I giudici hanno ritenuto infatti che l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata segue “un quadro solido e controllato e fornisce valide garanzie di un elevato livello di protezione dei cittadini”. Il fatto che sia stata rilasciata un’autorizzazione condizionata “non incide sui profili di sicurezza del farmaco” “né comporta che la stessa debba essere considerata un minus dal punto di vista del valore giuridico” ed è già stata utilizzata più volte in passato. La circostanza che i dati acquisiti nella fase di sperimentazione siano parziali e provvisori “nulla toglie – secondo i magistrati – al rigore scientifico e all’attendibilità delle sperimentazioni che hanno preceduto l’autorizzazione”. “L’AIFA – continuano nella sentenza – nello studio pubblicato sul proprio sito, ha chiarito che “gli studi che hanno porato alla messa a punto dei vaccini Covid 19 non hanno saltato nessuna delle fasi di verifica dell’efficacia e della sicurezza previste per lo sviluppo di un medicinale, anzi, questi studi hanno visto la partecipazione di un numero assai elevato di volontari, circa dieci volte superiore a quello di studi analoghi per lo sviluppo di altri vaccini””. Questi studi si sono avvalsi peraltro delle ricerche già condotte sulla tecnologia a Rna messaggero e degli studi sui coronavirus umani.

Quanto al piano dell’efficacia, sottolinea il Consiglio di Stato, emergono significative evidenze dall’ultimo bollettino dell’ISS, che conclude per livelli di efficacia molto elevati, nell’evitare la malattia e il contagio. “I dati relativi alla drastica riduzione dei contagi, ricoveri e decessi, ad oggi disponibili e resi di pubblico dominio dalle istituzioni e dagli enti sanitari – scrivono i giudici – dimostrano sul piano epidemiologico che la vaccinazione – unitamente alle altre misure di contenimento – si sta dimostrando efficace, su larga scala, nel contenere il contagio e nel ridurre i decessi o i sintomi gravi”.

Il Consiglio di Stato poi entra nel ‘vivo’ della materia ed afferma che “il legislatore, in una situazione pandemica che vede il diffondersi di un virus a trasmissione aerea, altamente contagioso e spesso letale per i soggetti più vulnerabili per via di malattie pregresse – si pensi ai pazienti cardiopatici, diabetici od oncologici – e dell’età avanzata, ha il dovere di promuovere e, se necessario, imporre la somministrazione dell’unica terapia – quella profilattica – in grado di prevenire la malattia o, quantomeno, di scongiurarne i sintomi più gravi e di arrestare o limitarne fortemente il contagio”.

In questo contesto, “la vaccinazione obbligatoria selettiva introdotta dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 per il personale medico e, più in generale, di interesse sanitario risponde ad una chiara finalità di tutela non solo – e anzitutto – di questo personale sui luoghi di lavoro” “ma a tutela degli stessi pazienti e degli utenti della sanità, pubblica e privata, secondo il pure richiamato principio di solidarietà, che anima anch’esso la Costituzione, e più in particolare delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (…) che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e di assistenza”.

I giudici richiamano altresì il principio di sicurezza delle cure, che già trova espressione nella legge n. 24 del 2017, la cd. legge Gelli-Bianco, che si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative.

È doveroso – proseguono i magistrati – per l’ordinamento pretendere che il personale medico o infermieristico non diventi esso stesso veicolo di contagio”: sarebbe, per il Consiglio di Stato, un “macabro paradosso” se i pazienti contraessero il virus, con effetti letali per essi, proprio nella struttura deputata alla cura e per causa del personale deputato alla loro cura, refrattario alla vaccinazione. Nel dovere di cura che incombe sul personale sanitario, “rientra anche il dovere di tutelare il paziente” e non si può, si legge nella sentenza, “lasciare il passo, evidentemente, a visioni individualistiche dd egoistiche, non giustificate in nessun modo sul piano scientifico, del singolo medico che, a fronte della minaccia pandemica, rivendichi la propria autonomia decisionale a non curarsi”.

Questa scelta, che, secondo il Consiglio di Stato, sarebbe in una condizione di normalità del tutto legittima, “costituisce nel contesto emergenziale in atto un rischio inaccettabile per l’ordinamento perché mette a repentaglio la salute e la vita stessa di altri – le persone più fragili, anzitutto – che, di fronte all’elevata contagiosità della malattia, potrebbero subirne e ne hanno subito le conseguenze in termini di gravità o addirittura mortalità della malattia”.

Nel bilanciamento tra il valore dell’autodeterminazione individuale e quello della tutela della salute pubblica, compiuto dal legislatore, non vi è spazio per la cd. esitazione vaccinale.

Peraltro, ricorda lo stesso Consiglio di Stato, la Corte Costituzionale nella sua giurisprudenza ha precisato che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibili con l’art. 32 della Costituzione.

Pertanto respinte tutte le eccezioni svolte dai ricorrenti.