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Obbligo vaccinale: su alcuni problemi del decreto legge n. 1/2022

obbligo vaccinale
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Il Decreto Legge n. 1/2022, varato per disporre «misure urgenti per fronteggiare l’emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti di formazione superiore», pone non poche questioni sulle quali è opportuna una riflessione. Le questioni riguardano allo stesso tempo profili politici e profili giuridici, nonché aspetti etici.

Incominciamo con le questioni politiche.

Il D.L. n. 1/2022, all’articolo 1, dichiara apertis verbis le motivazioni che hanno indotto il Governo ad approvarlo e la Presidenza della Repubblica a firmalo. Esso è stato emanato «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza».

L’obbligo vaccinale, dunque, sarebbe stato imposto per rispondere in primis alla «tutela della salute pubblica» (che non è compito della Repubblica, essendo questa chiamata a farsi carico della sanità, cioè delle condizioni che consentono all’individuo umano di mantenere e/o recuperare la salute). La tutela della salute pubblica non può andare oltre gli aspetti «sanitari». Altrimenti allo Stato sarebbero (erroneamente) attribuiti poteri decisionali su ogni aspetto della vita dell’essere umano.

Se, per esempio, lo Stato fosse chiamato a tutelare la salute (e, quindi – insistiamo – andasse oltre gli aspetti sanitari) sarebbe legittimato a, anzi avrebbe il dovere di, disporre circa l’alimentazione, il riposo, le attività fisiche e via dicendo. Esso avrebbe poteri totalitari pervasivi: dovrebbe – cosa di fatto impossibile – farsi carico di tutti gli aspetti individuali relativi alla salute.

Non solo, per esempio, dovrebbe vietare l’uso di sostanze stupefacenti per finalità di comodo1 (cosa che la Repubblica non fa, ritenendo, al contrario, legittimo l’uso personale delle stesse), l’assunzione di alcoolici oltre una certa misura e in taluni casi assolutamente2, il fumo, il consumismo alimentare causa delle cosiddette «malattie del benessere», e via dicendo. Non solo, dunque, sarebbe chiamato a vietare e, talvolta, a «vigilare»: dovrebbe prescrivere minutamente le regole di vita quotidiana, privando così l’individuo della sua libertà e della sua autonomia.

Quello che rileva, inoltre, è la seconda finalità per la quale il D.L. de quo sarebbe stato emanato: quella relativa alle «adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza». Questa finalità – dichiarata – è un doppio errore e può portare ad abusi. Innanzitutto, va osservato che non è necessariamente compito della Repubblica istituire e gestire l’organizzazione sanitaria.

Compito della Repubblica è quello di «garantire cure gratuite agli indigenti» (articolo 32 Costituzione, c. 1°), le quali possono essere assicurate con modalità molto diverse (con un’organizzazione sanitaria «pubblica» ma anche con strutture sanitarie «private»). La «sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza» non è, dunque, dovere dello Stato, il quale – per quanto riguarda questo problema – è chiamato a «vigilare» (autorizzando, controllando, certificando a seconda dei casi3) che la cura e l’assistenza siano offerte da persone competenti e da strutture idonee.

Non è compito – insistiamo – della politica la cura e l’assistenza dei cittadini. Solamente una visione collettivistica porta a considerare compito o, addirittura, dovere dello Stato la cura e l’assistenza della salute individuale.

Il secondo errore (anche rimanendo entro la Weltanschauung socialdemocratica secondo la quale è attualmente organizzato il sistema sanitario), è dato dal fatto che non è lecito imporre una vaccinazione obbligatoria (in quanto vaccinazione, per definizione preventiva), perché le strutture sanitarie sono inadeguate a rispondere alle esigenze dei cittadini (ammalati).

La ratio che sorregge questa impostazione è, in ultima analisi, materialistica: non sono, infatti, gli aspetti economici che giustificano l’imposizione della vaccinazione. Solamente il bene della persona (la salute «assicurata» e praticata senza rischi) può portare (in condizioni di alto pericolo e senza alternative alla vaccinazione) a legittimare la vaccinazione di massa, che comunque deve ottenere il consenso informato del soggetto cui viene praticata.

L’inadeguatezza delle strutture è frutto di incapacità e/o di negligenza. Essa, pertanto, è colpa degli amministratori, i quali non possono invocare ed imporre metodi illegittimi per impedire a chi ne necessita (cioè agli ammalati) l’accesso ai servizi (da loro istituiti). In altre parole è veramente paradossale che si pensi di risolvere il problema organizzativo eliminando presupposti e ragioni per i quali è stato istituito. Sarebbe come dire che certe malattie devono essere curate sopprimendo l’ammalato. È una ratio veramente assurda quella che sta a monte delle finalità del D.L. n. 1/2022.

Sotto il profilo giuridico la questione va considerata con riferimento sia all’aspetto di pura legalità sia all’aspetto, molto più ampio, della giuridicità, in parte quasi sempre presente anche nelle norme positive.

Sotto il profilo strettamente legale si deve osservare che l’obbligatorietà della vaccinazione anti COVID-19 viola norme costituzionali ed ordinarie dell’ordinamento giuridico repubblicano.

Non si può ignorare, infatti, innanzitutto che il corpo umano non è nella disponibilità di alcuno, né del soggetto né (tanto meno) dello Stato. Ancor meno può essere considerato disponibile per risolvere problemi organizzativi e/o per scopi economici.

L’articolo 5 Codice Civile dispone che gli «atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionano una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume».

Gli atti di disposizione di organi o di parte di organi del proprio corpo sono vietati, dunque, innanzitutto al soggetto, il quale tanto meno gode del diritto a procurarsi lesioni o a suicidarsi. Esso può farsi donatore di organi o di parti di essi solamente nei casi tassativamente previsti dalla legge. Per esempio, può donare un rene (Legge n. 458/1967), parte di fegato (Legge n. 483/1999), parte di polmone, di pancreas e dell’intestino (Legge n. 167/2012).

Talvolta la legittimità della donazione non è assolutamente libera ed universale. Nemmeno la diffusa donazione di sangue è assolutamente libera. Essa, infatti, è dettagliatamente regolamentata. Per quel che attiene alla donazione di organi o di parte di essi, si deve annotare che essa, a seconda dei casi, può avvenire solamente da parte di parenti o del coniuge (che abbia un rapporto stabile da almeno tre anni). In altri casi la donazione può avvenire sulla base di trapianti incrociati fra coppie compatibili anonime e non legate da vincoli di familiarità e di coniugio (cosiddetta donazione cross over). In altri casi ancora – questa è quella più «libera» – è consentita la donazione samaritana fra sconosciuti che donano per solidarietà.

Quello, comunque, che va rilevato è il fatto che la donazione di parte del proprio corpo non è assolutamente libera, come si è detto. Essa in taluni casi e a certe condizioni è lecita, ma non può essere fatta ad nutum da parte del soggetto al quale, quindi, non è riconosciuta la sovranità su se stesso. Quanto disposto dalle norme in vigore sulle donazioni vale anche per la disponibilità del soggetto a sottoporsi a sperimentazioni farmacologiche e cliniche e a vaccinazioni, le quali devono, comunque, garantire l’assenza di reazioni avverse gravi. Se questa assenza non fosse garantita, accettare di sottoporsi a vaccinazione equivarrebbe ad esporsi al rischio di procurarsi lesioni e, persino, in casi estremi al rischio di morte.

È vero che nel 2017 è stata approvata la Legge n. 219, la quale consente, in molti casi e in presenza di alcune condizioni, al soggetto il rifiuto delle cure. Questa legge potrebbe essere considerata – e sotto taluni aspetti lo è – come norma che consente di disporre del proprio corpo contrariamente alla normativa ordinaria appena richiamata.

Si tratta, però, innanzitutto di un rifiuto «estremo», vale a dire il soggetto avrebbe visto riconosciuto il «diritto» a non conservare (o, almeno, a non tentare di conservare) la vita (terrena). Una specie di eutanasia passiva, indiretta e strisciante. Questa Legge consentirebbe il rifiuto della vita in sé.

Non consentirebbe, però, la pratica di atti finalizzati alla soppressione diretta della vita e, quindi, non permetterebbe la disponibilità assoluta del proprio corpo. In altre parole la Legge n. 219/2017 consentirebbe il rifiuto di atti necessari al recupero della salute, la cui perdita non sia stata necessariamente e direttamente causata da opzioni soggettive.

In altre parole ancora essa consentirebbe di rifiutare di praticare quelle cure che potrebbero restituire, totalmente o in parte, la salute. Al recupero parziale o totale della salute tendono anche le donazioni di organi e di tessuti. In fondo, tende a questo scopo anche la vaccinazione. Anzi, la vaccinazione tende addirittura a prevenire il contagio di malattie. Questa è anche la ratio del D. L. n. 73/2017, successivamente convertito in legge (Legge n. 119/2017, quella che rende obbligatoria alcune vaccinazioni), di cui la Corte costituzionale ha dichiarato la legittimità ad alcune condizioni (cfr. Sentenze n. 258/1994 e n. 5/2018), le quali rilevano anche e soprattutto per la vaccinazione anti COVID-19.

La Corte costituzionale – lo abbiamo ricordato nella Nota pubblicata in questa rubrica «Osservatorio tre Bio» il 14 dicembre 2021 – ha stabilito, infatti, che al soggetto cui viene chiesta e/o imposta la vaccinazione devono essere fornite dettagliatamente tutte quelle informazioni utili a comprendere benefici e rischi e che la vaccinazione non deve incidere «negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato» (Sentenza n. 5/2018). Nel caso in cui dalla vaccinazione derivino, infatti, reazioni avverse gravi o nel caso in cui essa sia causa probabile di lesioni, essa è da ritenersi costituzionalmente illegittima per violazione dell’articolo 32 Costituzione.

Quanto premesso dimostra che il legislatore (italiano) ritiene che il corpo umano rappresenti un limite invalicabile. In altre parole, nessuno ha diritto di disporne. Né il soggetto né lo Stato. Per nessuna ragione. Anche le Leggi citate che consentono la donazione di organi e/o di parti di essi, sono «deroghe» all’articolo 5 Codice Civile. Il che significa che la regola è il rispetto integrale del corpo e che l’eccezione è la donazione di sue parti che non mettono, però, in pericolo l’esistenza del corpo medesimo (il quale, quando l’individuo muore, diventa cadavere).

Va sottolineato il fatto che l’articolo 5 Codice Civile è regola regolata. Il legislatore del ‘42 (anche in tempi nei quali lo Stato era considerato onnipotente), cioè, ha fatto riferimento alla «integrità fisica» dell’individuo umano. Ora, l’«integrità fisica» altro non è che l’ordine naturale «dato», vale a dire l’ordine fisiologico del corpo umano che non è né ordine «costruito» con le norme positive né ordine «convenzionale» collettivamente pattuito. Esso, infatti, non dipende da definizioni: la sua è realtà ontica immodificabile. Nemmeno per legge esso può essere violato.

Questo limite invalicabile è, per così dire, rafforzato dall’articolo 32 Costituzione, c. 2°, il quale stabilisce, com’è noto, che anche il trattamento sanitario disposto per legge non può «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». La persona umana è questione complessa.

All’Assemblea costituente è prevalsa la concezione «liberale» della persona, secondo la quale essa non si identifica semplicemente con l’individuo umano, ma con l’individuo umano la cui volontà ha sempre diritto all’affermazione, salvo i limiti (kantiani) imposti dalla convivenza. Pertanto, il 2° comma dell’articolo 32 Costituzione non è norma «retorica» come diversi giuristi ritengono e la prevalente giurisprudenza considera (rendendo, di fatto, insignificante la sua ultima parte).

Nel caso de quo l’articolo 32 Costituzione impone limiti che il D.L. n. 1/2022 non rispetta.

Esso, infatti, prescrivendo l’obbligatorietà della vaccinazione anti COVID-19, ignora la volontà della persona umana cui l’imperativo è rivolto: il suo consenso, invece, è condicio sine qua non della legittimità della vaccinazione. Non è necessario richiamare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo a questo proposito (la quale prescrive il consenso informato dell’interessato per ogni intervento preventivo – è il caso della vaccinazione –, diagnostico e terapeutico).

Basterà ricordare che la Legge n. 833/1978 (quella che istituì il Servizio Sanitario Nazionale in vigore) richiede (ex articolo 33) il consenso e la partecipazione da parte dell’obbligato al Trattamento sanitario obbligatorio (TSO). Il che fa riflettere sia perché è singolare (ma significativo) che, per esempio, un malato di mente sia chiamato a prestare il suo consenso al TSO, sia perché – è il caso che qui interessa – il consenso è ritenuto sempre condizione necessaria per qualsiasi trattamento. I trattamenti sanitari, comunque, di norma – stabilisce la citata Legge n. 833/1978 – sono volontari.

La questione è delicata. Essa impone, comunque, di considerare che l’applicazione della disposizione di legge per un trattamento sanitario, definito obbligatorio (si potrebbe dire – l’affermazione, però, non ha valore iuris et de iure – che ciò che la norma dispone come obbligatorio non richiede consenso, altrimenti la norma non sarebbe obbligatoria4), è subordinata sempre al consenso dell’individuo, in particolare se esso gode pleno iure della capacità di agire.

Mai, pertanto, è bypassabile l’ottenimento del consenso informato. Va osservato, inoltre, che difficilmente la vaccinazione può essere considerata «sanitaria» (nel senso di terapeutica), essendo la vaccinazione per definizione «preventiva». Essa, perciò, non pare riconducibile entro le categorie previste per il TSO.

Il D. L. n. 1/2022 prescrive la vaccinazione anti COVID-19 come obbligatoria. A quanto sinora rilevato, vanno aggiunte alcune considerazioni. Innanzitutto la vaccinazione dovrebbe essere veramente tale per essere (forse) imponibile come obbligatoria.

Una «vaccinazione» che copre in percentuale limitata dal rischio di contrarre il virus può essere definita una vaccinazione vera e propria?

Inoltre, la sua limitata efficacia nel tempo non indica, forse, che essa non serve a rendere immuni coloro che vi si sottopongono?

Ancora. Le numerose e gravi reazioni avverse che essa ha sinora causato non impongono una valutazione attenta circa il rapporto benefici/rischi per la salute, la quale è un diritto fondamentale del cittadino (articolo 32 Costituzione) che la Repubblica deve tutelare?

Il D. L. n. 1/2022 non viola, forse, palesemente le Sentenze della Corte costituzionale sopra richiamate (in particolare le Sentenze n. 258/1994 e n. 5/2018) non prescrivendo di illustrare a colui al quale si impone la vaccinazione in maniera dettagliata tutti gli effetti della medesima? La cosa tanto più rileva dal momento che diversi moduli di Consenso informato dichiarano (sicuramente dichiaravano) che non sono (o non erano) note tutte le reazioni avverse5, in particolare quelle possibili anche se lontane nel tempo?

Soprattutto, però, va considerato che lo stesso legislatore ha ritenuto opportuno (forse necessario al fine di evitare processi a loro carico) prevedere con norma il cosiddetto «scudo penale» per gli operatori sanitari chiamati ad effettuare le vaccinazioni.

Il Governo, prima, e il Parlamento, poi, hanno approvato, infatti, il D. L. n. 44/2021, convertito successivamente in legge con modificazioni (Legge n. 76/2021) che stabiliscono – il D. L. e la Legge – l’esclusione della punibilità per omicidio colposo (articolo 589 C. P.) e per lesioni personali (articolo 590 C. P.) per coloro che somministrano il vaccino anti COVID-19.

Trattasi di una exusatio non petita, che rivela la pericolosità per la vita e per la salute di coloro che si sottopongono a vaccinazione anti COVID-19: «scusa non richiesta, accusa manifesta» dice un noto proverbio. Il D. L. n. 44/2021 e la Legge n. 76/2021 sono segno di una preoccupazione.

Sono, nello stesso tempo, tentativi – a nostro avviso illegittimi e a tal fine inidonei – di liberare dalla responsabilità penale coloro che agiscono, avendo la capacità di agire. Il che significherebbe affermare l’impunità di chi commette reati, essendo in grado di intendere e volere. Eccezioni come questa sono ammissibili da parte dell’ordinamento giuridico? Trattasi di eccezioni che non possono essere considerate ius singulare, il quale violerebbe disposizioni costituzionali, in particolare l’articolo 3 (per quel che rileva circa l’eguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge) e l’articolo 27 (per quel che riguarda la responsabilità penale personale) della Legge fondamentale della Repubblica italiana.

Il D. L. n. 1/2022, oltre a violare la Costituzione sotto questo profilo, la viola anche stabilendo una disparità di trattamento comprensibile solamente alla luce della considerazione che segue.

La disparità di trattamento imposta è relativa alla disposizione in base alla quale l’obbligo vaccinale grava – oltre che sui lavoratori – su coloro che «abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età». Non sarebbero, dunque, tenuti a vaccinarsi coloro che, non lavorando, abbiano meno di cinquant’anni. Perché? La risposta va cercata – riteniamo – nel fatto che si ritiene che le persone, definite anziane, possano essere costrette a ricorrere alle strutture ospedaliere per curare il COVID-19 contratto.

Come dire: esse possono essere di peso per il Sistema Sanitario Nazionale, il quale, essendo inadeguato a «rispondere» alle esigenze poste dalla pandemia in atto, andrebbe «alleggerito». Sulla base dell’ipotesi che la vaccinazione sia veramente una vaccinazione e che, pertanto, essa impedisca effettivamente il contagio, si prevede un minor ricorso ai servizi sanitari se la parte della popolazione, ritenuta più fragile, viene risparmiata dal virus e, comunque, se contagiata, essa non è costretta a ricorrere alle strutture ospedaliere.

Se questa lettura è fondata, il D. L. n. 1/2022 con questa norma conferma quanto osservato all’inizio: esso non stabilisce (contrariamente a quanto ufficialmente dichiarato) l’obbligo vaccinale per ragioni di salute pubblica ma principalmente per non rendere evidente l’inadeguatezza del Sistema Sanitario Nazionale e per evitare le spese richieste per le cure e le degenze. Ancora una volta la «dignità della persona» di cui parla la Costituzione è sacrificata sull’altare delle valutazioni economiche.

Oltre alla disparità di trattamento, quindi, il D. L. n. 1/2022, con questa disposizione, rivela la sua vera ratio «operativa», inaccettabile sia sotto il profilo etico sia sotto il profilo giuridico.

Molte sono le questioni etiche poste da D. L. n. 1/2022. Ci limiteremo a evidenziarne tre che saranno poste con altrettante domande.

  1. Tutte le vaccinazioni possono essere causa di reazioni avverse. La vaccinazione anti COVID-19, però, presenta rischi più numerosi, più frequenti e gravi. La domanda, perciò, che ci si deve porre è la seguente: è moralmente lecito a chi gode di salute vaccinarsi incorrendo consapevolmente nei diversi rischi comportati dalla vaccinazione? È lecito, al fine di prevenire (forse, in tutto o in parte) una malattia, rischiare (e correre il rischio con probabilità) di contrarne altre, anche gravi?

  2. La questione etica si complica ulteriormente se si considera il processo di produzione del (definito) vaccino anti COVID-19. L’utilizzo, innanzitutto, di cellule ricavate da embrioni e/o feti abortiti non per processo spontaneo solleva seri dubbi sulla liceità morale dell’uso del vaccino prodotto al fine di combattere la pandemia. Il problema, quindi, è un problema di coscienza che la Corte costituzionale ha stabilito essere un principio non solo morale ma costituzionale sovraordinato ad ogni altro principio (cfr. Sentenza n. 467/1991) e che, comunque, riguarda la «dignità della persona» (limite, secondo il più volte citato articolo 32 Costituzione, invalicabile per l’imposizione coatta dei trattamenti sanitari, anche per quelli di prevenzione).

  3. Da più parti si afferma che la vaccinazione dei sani serve ad evitare il diffondersi del virus che ha provocato la pandemia. Su questa base si è detto che essa è un dovere morale. L’affermazione è a dir poco singolare: i sani, infatti, non sono portatori del virus e, pertanto, non possono essere causa di diffusione del contagio. È lecito moralmente imporre all’individuo umano sano un trattamento che egli rifiuta? Non si tratta, in questo caso, propriamente parlando, di violenza? Se si considera, poi, che i vaccinati possono contrarre il COVID-19 e diffonderlo, non è da irresponsabili porre come condizione per una vita sociale «normale» la vaccinazione? Non sarebbero, a tal fine, più sicuri i tamponi?

I tre ordini di osservazione (politico, giuridico ed etico) richiedono approfondimenti.

Sono insufficienti, infatti, gli appunti, anche se questi presentano da parte loro indicazioni utili per orientarsi nella complessa e confusa questione della pandemia da COVID-19, nelle metodologie adottate per contenerla e combatterla, nelle questioni di legittimità delle diverse misure adottate.

Quello che è sempre doveroso tenere presente è il fatto che la violazione del corpo è violazione della persona umana, della sua coscienza, della sua dignità. Il che non esclude che siano legittime disposizioni e misure necessarie a fronteggiare la situazione.

La richiesta/imposizione, per esempio, di dimostrare di essere sani (e, quindi, di non essere causa di contagi) per esercitare attività lavorative, è legittima. La richiesta, perciò, dei cosiddetti requisiti, condizione sine quibus non, per l’esercizio della professione, per lo svolgimento di funzioni pubbliche, per l’attività lavorativa, è legittima. Essa, però, può essere soddisfatta anche senza interventi sul corpo e con strumenti (per esempio, i tamponi) che certifichino in maniera e misura più certa la salute dell’individuo.

Sembra, però, che la normativa in vigore per contrastare la pandemia da COVID-19 sia frutto di scelte non rispettose del diritto naturale e nemmeno del diritto positivo. Esse, come si è cercato di dimostrare, rispondono a rationes lontane e diverse rispetto a quelle che si sarebbero dovute adottare per rispettare e difendere la persona e per cercare soluzioni veramente efficaci e, nello stesso tempo, equilibrate per fronteggiare una situazione emergenziale indubbiamente difficile.

 

1 Cosa che l’autorità politica dovrebbe fare, comunque, essendo chiamata a favorire innanzitutto il mantenimento da parte di ogni persona della «padronanza» di sé.

2 Lo Stato, per esempio, dovrebbe punire non solamente l’ubriachezza molesta ma l’ubriachezza in sé, poiché questa non consente all’individuo umano di essere temporaneamente compos sui.

3 Per esempio autorizzando e controllando l’esercizio delle professioni e certificando l’adeguata preparazione e le necessarie competenze per il loro esercizio (quello che si dovrebbe fare, per esempio, con seri esami di Stato per l’esercizio delle professioni).

4 Sembra che la Corte costituzionale implicitamente ritenga l’obiezione infondata. La Corte medesima, infatti, se l’avesse ritenuta fondata, avrebbe dovuto dichiarare irricevibile il ricorso a suo tempo presentato per illegittimità costituzionale della Legge n. 119/2017. Comunque, dichiarato ricevibile, avrebbe potuto/dovuto rigettarlo. Invece non solo lo ha ammesso, ma ha anche stabilito l’obbligatorietà del consenso informato anche per le vaccinazioni rese obbligatorie per norma.

5 I tempi dei verbi usati sono diversi, perché in qualche caso la formula originaria del Consenso informato può risultare modificata. Va, comunque, registrato che, per esempio, il modulo di Consenso informato del vaccino «Pfizer-Biontech Covid 19» lasciava (e probabilmente lascia ancora) correttamente ed esplicitamente sospesa l’informazione circa gli effetti sulle donne in gravidanza e in fase di allattamento (n. 4). Soprattutto, questo modulo dichiarava (e, forse, tuttora dichiara) che non «è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza» (n. 10). Esso ammetteva, inoltre, apertis verbis che l’elenco di reazioni avverse, indicate come possibili nel modulo, non è esaustivo di tutti i possibili effetti indesiderati che potrebbero manifestarsi (n. 8). Anche il modulo di Consenso informato «Covid-19 Vaccine AstraZeneca modulo Consenso» dichiara che non «è possibile al momento prevedere danni a lunga scadenza» (n. 10). Questo modulo, inoltre, informa che «Covid-19 Vaccine AstraZeneca» è «coltivato su cellule renali embrionali umane» (n. 7). L’informazione, pertanto, è sotto un certo profilo assolutamente insufficiente per prestare il consenso veramente informato. Sotto un altro profilo, l’informazione che viene offerta circa il processo di produzione del vaccino, solleva gravi problemi morali per una coscienza retta. Si deve rilevare, pertanto, che la vaccinazione anti COVID-19 viene praticata in spregio della normativa vigente e in spregio alle Sentenze della Corte costituzionale richiamate anche in questa Nota.