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Obbligo vaccinale: respinto il ricorso

Appunti a margine della recente Sentenza del Consiglio di Stato№ 7045/2021
Prospettive
Ph. Cinzia Falcinelli / Prospettive

In epilogo al precedente contributo pubblicato in questo stesso Osservatorio abbiamo segnalato che il Consiglio di Stato, con la sentenza № 7045/2021 del 14 Ottobre 2021, ha respinto il ricorso presentato da alcuni operatori sanitari contro l’obbligo vaccinale loro imposto per norma ai sensi dell’art. 4 del D.L. 44/2021 (convertito con modificazioni dalla L. 76/2021), quale “requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati”.

Non avendone lette, allora, le motivazioni, e non avendo voluto maturare ritardi nella pubblicazione del testo già confezionato, rinviammo il commento della pronunzia in questione con riserva di un suo esame.

Il testo del contributo, comunque, già si soffermava su alcune questioni inerenti la disciplina applicabile al personale sanitario, ed esso già offriva – per così dire – una prima «base» di riflessione ante litteram sopra la citata pronunzia.

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La lettura della sentenza in parola ci impone ora un nuovo e più consapevole rinvio a quanto già osservato, e con questo essa ci impone una riconferma delle tesi colà sostenute.

Il Giudice, infatti, respingendo il ricorso, e non sollevando la pur paventata questione di legittimità costituzionale della contestata norma, l’ha ritenuta pienamente applicabile e scevra da profili di problematicità sostanziale. Dall’esame della sentenza in parola, infatti, non emerge alcun profilo di critica alla norma de qua da parte del Giudice amministrativo, nemmeno in ordine alla teoria dell’Ordinamento, o, ancora prima, in ordine alla logicità e alla coerenza interne all’intiera disciplina c.d. emergenziale

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La lettura della sentenza in parola, però, suggerisce, in continuità con quanto già detto, anche qualche ulteriore annotazione critica.

Ci limiteremo, per ovvie ragioni, a brevissimi cenni, circoscrivendo l’ambito del nostro esame ad alcuni aspetti di merito affrontati dal Giudice all’interno del suo discorso; tralasceremo, invece, in toto, le prime questioni che egli affronta e che concernono aspetti cc.dd. di rito, pur rappresentando, essi, questioni di un certo interesse per le dinamiche del processo amministrativo e quindi per la tutela degli interessi legittimi cui esso è precipuamente preposto.

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Una consapevolezza preliminare che è anche un’avvertenza al Lettore, prima di entrare in medias res.

Abbiamo appena detto che svolgeremo alcune brevi annotazioni critiche sopra la sentenza in parola… Questo faremo. Ciò però non ci illude circa la possibilità di instaurare un vero dibattito, una disputa nel senso più proprio dell’espressione, con le posizioni sostenute dal Giudice, e infondo sintetiche rispetto alla communis opinio: esse, infatti, come anche lo stesso procedimento argomentativo seguito nella sentenza, e di fatto replicativo delle rationes sottostanti a tutta la c.d. legislazione emergenziale, si caratterizzano per una intrinseca dogmaticità e per un assoluto formalismo, i quali sono ex se impermeabili a qualsivoglia confronto e a qualsivoglia indigenza di riflessione. Anzi, essi postulano a monte la loro stessa insindacabilità sulla base di criterii differenti da quelli che essi medesimi adottano per sé, assumendoli come incontrovertibili sotto qualsivoglia profilo di analisi (scientifico, legale, giuridico, politico, statistico et coetera).

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Un primo aspetto, il quale, in un certo senso, rappresenta l’ubi consistam dell’intiero discorso del Giudice, concerne l’irrilevanza gius-normativa dei dubbi sollevati dai ricorrenti in ordine all’inefficacia e alla pericolosità potenziali della vaccinazione loro imposta.

Si tratta, con riguardo a quello del Giudice, di un giudizio formalistico e legalistico, il quale non risponde sostanzialmente ai dubbi stessi. Si tratta, però – è bene rilevarlo immediatamente – di un giudizio che poggia sulle stesse basi sopra le quali i medesimi dubbi si fondano… formalistici e legalistici anch’essi.

In altri termini: il problema posto dal ricorso, che sarebbe o che potrebbe essere un problema reale, è esso erroneamente presentato come mero vulnus interno a una disciplina normativa ritenuta valida per gl’altri aspetti che essa regola. Il problema, in altre parole, è estraniato, per così dire, dalla sua sostanzialità ed esso è ricondotto all’interno degli schemi della legalità formale… contestandola in parte qua, vale a dire nei soli aspetti applicativi che interessano il caso hic et nunc.

Dunque, la risposta formalistica del Giudice, pur discutibile anche sotto il profilo formale – come vedremo –, e pur non esente da limiti e da contraddizioni, come non esente da limiti e da contraddizioni è anche la norma di riferimento, essa è coerente, in punto di metodo, con le tesi del ricorrente, ed essa ha pertanto giuoco facile nell’auto-affermarsi e nell’auto-legittimarsi negando pregio e valore ai rilievi fatti e alle istanze presentate.

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Vediamo, entrando in medias res, di che cosa si discute.

Ebbene, posto che l’immissione in commercio dei preparati vaccinali attualmente utilizzati per la profilassi contro il Sars-Co V-2 (per brevità diremo Covid-19) è legittimata, a livello di normativa europea direttamente applicabile, non dall’esito della procedura ordinaria, ma dall’applicazione di una disciplina speciale (sub art. 14 bis Reg. CE 726/2004 e sub Reg. CE 507/2006), detta “immissione in commercio condizionata”, e posto che essa si basa su “dati meno completi rispetto alla procedura ordinaria di autorizzazione”, i ricorrenti sostengono che non vi sia «certezza scientifica» ragionevole e completamente informata circa la sicurezza e l’efficacia dei vaccini medesimi.

Da questo dato formale essi deducono l’illegittimità o comunque l’arbitrarietà dell’obbligo vaccinale loro imposto rappresentando esso un rischio potenziale, per certi aspetti addirittura non preventivabile, per colui il quale vi si sottopone, sovrattutto considerando il medio e il lungo periodo e le conseguenze non del tutto note dei preparati cc.dd. a m-RNA.

Tale rischio, tuttavia, – sempre stando alla tesi implicita del ricorrente – non sussisterebbe o avrebbe un differente significato ponderale e dunque una diversa legittimazione in iure qualora l’autorizzazione all’immissione in commercio del preparato vaccinale avesse viceversa seguito l’iter consueto ed essa fosse corroborata dalla c.d. autorizzazione ordinaria sub Reg. CE 726/2004.

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Ciò significa – ecco il punctum dolens – che la sussistenza o la sopravvenienza della c.d. autorizzazione ordinaria potrebbe sanare, avrebbe sanato e sanerebbe, per sé stessa e per sé sola, ogni possibile e plausibile vulnus circa la sicurezza del vaccino, offrendo e prestando, in quanto tale, cioè in quanto adottata all’esito della c.d. procedura normale prevista ex lege, ogni ragionevole ed esigibile guarentigia in termini di sicurezza ed efficacia del preparato. Essa, in altri termini, avrebbe determinato l’irrilevanza gius-normativa delle eventuali perplessità dei ricorrenti, anche stando al tenore logico dei loro stessi ricorsi; l’autorizzazione c.d. ordinaria, cioè, avrebbe relegato i varii dubia sulla vaccinazione obbligatoria e le varie resistenze psicologiche alla sua somministrazione nell’ambito del… giuridicamente irrilevante.

Il problema, però, non è procedurale ed esso non si riduce alle procedure, anche perché, effettivamente, facendo riferimento alle procedure vigenti, non può non rilevarsi che quella c.d. eccezionale, applicata per i vaccini in narrativa, vige ed è prevista allo stesso modo nel quale vige ed è prevista quella ordinaria, rappresentando, la prima, almeno in determinati casi, una vera e propria alternativa rispetto alla seconda qualora sussistano le condizioni dalla norma stessa prevedute.

Sotto questo profilo, allora, ha ragione il Giudice nel rilevare che “l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata […] costituisce una sottocategoria del procedimento inteso ad autorizzare l’immissione in commercio ordinaria”, qualora, secondo il disposto dell’art. 2, co. I, pt. 2) del Reg. CE 507/2006, si tratti di “medicinali da utilizzare in situazioni di emergenza in risposta a minacce per la salute pubblica, debitamente riconosciute”, e qualora siano soddisfatte le condizioni – formali anch’esse – sub art. 4, co. I.  lett. dalla a) alla d) del medesimo Regolamento.

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Il Giudice, infatti, non nega in termini assoluti e perentorii che i rilievi e i dubia presentati dai ricorrenti possano avere una qualche ragione d’essere, un fondamento in re – potremmo anche dire –, ma ritiene che essi restino confinati nell’ambito dell’extra-normativo, dell’extra-legale, in quanto… extra-scientifici, cioè in quanto estranei da quella che viene assunta per norma come «scienza ufficiale», soddisfando essa stessa i requisiti, i parametri e i protocolli legalmente previsti ai varii livelli normativi (Leggi, Regolamenti, Carte costituzionali, Discipline sovranazionali et coetera).

In altre parole il Giudice ritiene che i rilievi sostanziali posti dal ricorso restino confinati nell’ambito di ciò che è indifferente rispetto allo ius positum, poiché essi non consentono alcun procedimento di sussunzione del fatto concreto entro un’astratta fattispecie normativa che li contempli. Res facti, si sarebbe detto un tempo.

In vero – afferma ancora il Giudice – “i quattro prodotti ad oggi utilizzati […] sono stati […] regolarmente autorizzati dalla Commissione [… e] il carattere condizionato dell’autorizzazione non incide sui profili di sicurezza del farmaco […] né comporta che la stessa debba essere considerata un minus dal punto di vista del valore giuridico”. Ed è proprio questo il punto! Il Giudice amministrativo non rileva il difetto di legalità nella procedura in parola, eppertanto nella somministrazione dei preparati vaccinali in questione, poiché esso effettivamente non c’è, essendo state rispettate, almeno formalmente, le procedure… legali e quindi anche scientifiche.

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Che poi sia contraddittorio sostenere la natura non sperimentale dei preparati messi in commercio attraverso la c.d. autorizzazione condizionata, cosa che afferma apertis verbis il Giudice censurando il ricorso, è pur vero, e ciò rappresenta una contraddizione interna alla stessa sentenza. Anche se essa è una contraddizione inevitabile, afferendo alle rationes della norma di riferimento e da queste dipendendo.

Infatti, la “circostanza che i dati acquisiti nella fase di sperimentazione siano parziali e provvisori”, così come la necessità di una loro “conferma mediante i cc.dd. ‹comprehensive data post-authorisation›” – aspetti ammessi dallo stesso Giudice – di per sé qualifica come sperimentale il preparato in questione, cioè lo qualifica come preparato in ordine al quale mancano alcuni dati ed è necessario svolgere ricerche ed esami.

Il preparato immesso in commercio a seguito dell’autorizzazione c.d. condizionata, però, non è sperimentale in senso normativo – e non si tratta di un giuoco di parole –, poiché in questo «senso tecnico» sperimentale è o sarebbe  solo quel «farmaco» il quale non ha ancora ottenuta nessuna autorizzazione e non è commerciabile e somministrabile «liberamente», quindi al di fuori delle procedure di esperimentazione farmacologica e clinica, le quali, in Italia, per esempio, sono disciplinate sub DPR 211/2003.

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Indubbiamente, allora, il preparato immesso in commercio con la procedura della c.d. autorizzazione condizionata, al di là di quanto vuole affermare dogmaticamente il Giudice, peraltro contraddicendo la stessa ratio della norma cui egli stesso si appella, non ha raggiunto quel livello di scientifica certezza nell’efficacia e nella sicurezza, il quale è proprio dei prodotti farmaceutici autorizzati in forma ordinaria. Se così non fosse, peraltro, la distinzione tra le due tipologie di autorizzazione e la differente disciplina che le involge non avrebbe ragione d’esistere.

Il problema, allora, non è legato all’immissione in commercio dei citati vaccini, perfettamente legale – occorre ribadire –, quanto piuttosto esso è legato alla stessa legittimità e alla stessa logicità intrinseche alla procedura c.d. speciale, o per meglio dire esso è legato alla sua applicazione anche i preparati profilattici e non solo a quelli terapeutici propriamente detti.

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Invero, altro è autorizzare all’immissione in commercio un farmaco da destinarsi alla cura di una patologia in atto, e altro è autorizzare l’immissione in commercio di un vaccino da destinarsi a un’indistinta platea di fruitori (sani, portatori di altre patologie, non monitorati da un punto di vista medico et similia) per una finalità di profilassi generale. Si tratta di una distinzione rilevante, anzi dirimente – a nostro avviso – la quale, però, purtroppo, non ha cittadinanza normativa all’interno della disciplina di riferimento. Essa, allora, pecca per una certa superficialità. Vediamone il perché.

Partiamo dal presupposto secondo il quale è indubbiamente ragionevole autorizzare l’uso di un farmaco terapeutico stricto sensu, anche prima di disporre di tutti i dati e di tutte le informazioni necessarie in ordine alla sua efficacia e alla sua sicurezza, qualora si sia raggiunto un sufficiente livello di certezza e qualora la sua somministrazione sia indispensabile allo scopo di contrastare gravi e pericolose patologie in atto, non altrimenti curabili.

È il caso, citato anche dai Giudici, dei farmaci cc.dd. antitumorali i quali sono stati (condivisibilmente!) oggetto della mentovata autorizzazione condizionata – la sentenza fa riferimento a trenta casi dal 2006 al 2016, giusta un rapporto dell’Agenzia Europea per i Medicinali – successivamente all’entrata in vigore della relativa disciplina.

Si tratta di casi nei quali i pazienti sono clinicamente seguiti prima, durante e dopo la somministrazione; si tratta di casi nei quali i pazienti dispongono di un compendio informativo e diagnostico indubbiamente elevato; si tratta, infine, di casi nei quali i pazienti non hanno valide alternative, onde il requisito della prudenza nella pratica terapeutica può e per certi aspetti deve sensibilmente gradarsi per lo stesso raggiungimento del fine terapeutico, essendo nel contempo esponenzialmente elevati i profili della diligenza e della perizia.

Questo significa, in estrema sintesi, che anche la c.d. autorizzazione condizionata ha una sua ragione d’essere e una sua legittimità sostanziale.

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Altro, però, è il caso dei vaccini e di questi vaccini.

Premettiamo che, orbi di competenze mediche, non entreremo nel merito di una valutazione relativa al preparato vaccinale, alla sua efficacia, alla sua sicurezza, all’opportunità e al modo della sua somministrazione, anche se – questo ci sarà pur concesso – i dati variamente disponibili, e i contrasti interni allo stesso dibattito medico, fanno ben sorgere alcune perplessità. Ad altri, comunque, il compito di quest’indagine: ne supra crepidam sutor iudicaret...

Noi rileviamo questo, che la legittimità dell’autorizzazione condizionata, quand’essa abbia a oggetto un preparato profilattico da somministrarsi in forma diffusa, non ha lo stesso valore, né essa risponde alle stesse esigenze, che sottostanno ai farmaci terapeutici stricto sensu. In altri termini rileviamo che l’uso dello stesso strumento legal-formale allo scopo di disciplinare situazioni sostanzialmente differenti rappresenta esso stesso un errore non solo procedurale, ma sovrattutto concettuale e logico, un’incongruenza e un’incoerenza interne alla stessa disciplina di riferimento.

Innanzitutto, infatti, quando l’oggetto dell’autorizzazione sia rappresentato da un preparato vaccinale, non si tratta di curare una patologia altrimenti non suscettibile di contrasto valido, ma si tratta di prevenire un’infezione potenziale; in secundis non si tratta di somministrare un preparato farmaceutico a un paziente clinicamente noto, ma si tratta di inocularlo a una platea pressoché indistinta; in tertiis non si tratta di seguire un paziente nel senso proprio dell’espressione, valutando in casibus e con il dovuto scrupolo la sua storia clinica, le condizioni attuali del suo organismo et coetera, ma si tratta si portare a compimento una campagna di massa, nell’ambito della quale le valutazioni relative al singolo soggetto sottopostovi sono a solo carico di lui ed esse sono rimesse alla sua personale percezione del problema.

Conseguentemente, cioè trattandosi di preparati da somministrarsi al di fuori – diremo – di una dimensione terapeutica stricto sensu, e di preparati che hanno come destinatarii soggetti indistinti (per età, sesso, condizione clinica, stato di salute, costituzione fisica et coetera), il livello di sicurezza, prima ancora che quello relativo all’efficacia, non può accontentarsi di dati e di informazioni i quali, stando alla norma di riferimento, e dunque al di fuori da ogni personale valutazione, sono provvisorii, incompleti, da integrarsi et similia.

In altri termini – se vogliamo in termini giuridici (e morali) – la prudenza che nel caso del farmaco terapeutico può gradarsi per le vedute ragioni, in questo caso non può subire e non dovrebbe subire alcun temperamento, e questo – si badi – non perché la vita e la salute di molti valga più della vita e della salute di alcuni, ma perché nel caso della terapia propriamente detta vi è, oltre al presupposto stato di necessità non altrimenti gestibile, una diligente e oculata attenzione al singolo caso, una personalizzazione, potremmo dire, della somministrazione in tutte le sue fasi, la quale nel caso del vaccino e della campagna vaccinale manca, almeno essa manca nella sua sistematicità.

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Ancora tre questioni.

Una prima, collegata a quanto testé detto, involge la teorica del c.d. ignoto irriducibile, fatta propria dalla sentenza al precipuo scopo di rispondere alla questione relativa alla sicurezza del vaccino.

Il Giudice, infatti, afferma che occorre partire dal “presupposto scientifico di ordine generale secondo cui il vaccino, come tutti i farmaci, non può essere considerato del tutto esente da rischi”, onde il riferimento da prendersi concerne e deve concernere – conchiude così il discorso – il “favorevole rapporto costi/benefici della loro somministrazione su larga scala”.

Ciò legittimerebbe, in estrema sintesi, l’obbligo vaccinale.

I termini del problema, però, sono a nostro avviso mal posti, o per meglio dire, essi sono posti secondo una certa, non convincente, rettorica…

Il discorso, allora, va mantenuto su di un piano eminentemente logico ed eminentemente tecnico: esso non concerne l’assoluta sicurezza del farmaco, intesa come certezza relativa all’assenza di eventi avversi lato sensu intesi a seguito della sua somministrazione – aspetto che è e che resta medico, e che è e che resta onere del medico di valutare in casibus –, ma involge il livello di sicurezza normativa che è necessario raggiungere ai fini di legittimare l’eventuale obbligo vaccinale.

E la questione – come ben può vedersi – è tutta interna alla disciplina di riferimento, contestabile, forse, ma vigente, e quindi base di partenza per una «serena» decisione del Giudice, al quale neppure sarebbe chiesto, in questo caso, di valutare dati clinici, proiezioni statistiche e altre cose di questo genere.

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Il problema, ovviamente, prima di essere interno alla sentenza è interno al ricorso, sotto questo profilo discutibilmente articolato; la sentenza, allora, dovendo rispondere e non dovendo andare, come si dice, extra petita, ne eredita il vulnus e lo acuisce...

Non si tratta, infatti, di discutere della sicurezza dei preparati vaccinali sulla base di dati i quali, proprio perché afferiscono alla c.d. autorizzazione condizionata, sono essi stessi provvisorii e parziali, ma si tratta di capire quale è il livello di sicurezza richiesto per la legittima inclusione coattiva di alcuni soggetti, o di alcune categorie di soggetti, all’interno di una campagna vaccinale obbligatoria.   

 La risposta, a nostro avviso, viene già e immediatamente dal tenore letterale e dalla ratio della disciplina di riferimento invocata dallo stesso Giudice, anche se essa viene da un errore interno alla stessa la quale non distingue il farmaco c.d. terapeutico dal farmaco c.d. profilattico.

Pare del tutto evidente, infatti, che solo il preparato farmacologico immesso in commercio a seguito della c.d. autorizzazione ordinaria potrebbe essere coattivamente somministrato, e ciò perché esso solo ha o avrebbe raggiunto il livello di sicurezza ritenuto per norma necessario e sufficiente. Ciò significa che il rischio della sua assunzione/somministrazione resterebbe relegato nell’ambito dell’extra-giuridico, o comunque nell’ambito di ciò che non può avere un rilievo giuridico dirimente.

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Sotto il profilo della coazione, però – è appena il caso di farne un cenno – il problema non si esaurisce nella «sicurezza per norma» del preparato, pur rappresentandone esso il prius logico-tecnico: la costante Giurisprudenza costituzionale, infatti, come è noto, gravita attorno al dogma (liberale) dell’assoluta autodeterminazione in ambito terapeutico, quale analogato della dignità umana intesa in senso personalistico-volontaristico; di talché il problema della coazione è già per sé stesso… problematico, quantomeno sotto il profilo della coerenza interna all’Ordinamento lato sensu considerato. Non dev’essere trascurato, invero, nemmeno il dettato dell’art. 33 co. IV della L. 833/1978, a mente del quale anche “gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori [… cui debbono essere sottoposti i malati di mente] devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”, quantomeno – possiamo intendere – nei limini nei quali ciò sia possibile. Come a dire, dunque, che la dommatica del c.d. consenso assurge, legibus sic stantibus, a ratio fondativa rispetto all’intiero Sistema.

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Viceversa – riprendendo il discorso – i farmaci immessi in commercio a seguito della c.d. autorizzazione provvisoria, per norma, tale livello non hanno raggiunto, onde il rischio della loro assunzione/somministrazione è un rischio, per così dire, interno alla loro stessa disciplina normativa e dalla stessa riconosciuto o quantomeno non superato.

La somministrazione e/o l’assunzione di questi farmaci, allora, comporta un rischio c.d. elettivo, e la domanda che ne consegue sposta, per così dire, i termini del problema condensandosi nella seguente: può la norma imporre l’assunzione di un rischio elettivo al destinatario dell’obbligo che essa introduce? Può, cioè, la norma imporre qualche cosa, e segnatamente un trattamento sanitario, in ordine alla quale essa stessa considera bisognevole di ulteriori approfondimenti?

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La risposta sarebbe tendenzialmente affermativa, perché secondo le varie teoriche positivistiche la norma può tutto e per norma tutto si può. Essa, però, vacilla qualora le si contrapponga la dogmatica del diritto all’assoluta autodeterminazione della persona in ambito sanitario, riconosciuto e sancito (le nostre posizioni sarebbero critiche sul punto, ma non è questa la sede per riprenderle) a livello nazionale e sovranazionale dalle Corti di più alto rango e, a scendere, dalla legislazione applicativa (in particolare, in Italia, dalla recente L. 219/2017).

Sul punto il Giudice parla di un “innegabile spazio di discrezionalità tra i valori in gioco” rimesso al Legislatore, ed egli lo fa estraniando – per così dire – il problema della vaccinazione dall’ambito della salute, per circoscriverlo in quello della sanità. In altri termini il Giudice afferma che la legittimità dell’obbligo vaccinale albergherebbe nella “necessità di preservare la salute pubblica e con essa la salute dei soggetti più vulnerabili”.

Il discorso è, per certi aspetti, lockiano, per altri, kantiano.

Il discorso, cioè, postula che il bene della salute sia nella disponibilità piena del suo titolare il quale potrebbe astrattamente disporne come vuole, e il quale non potrebbe, sempre in abstracto, essere coartato a un facere, a un non facere o a un pati inerenti il bene in parola. Molti, in proposito, invocano il dogma della dignità umana, derivandolo, per esempio, dal combinato disposto tra l’art. 2 cost. e l’art. 32 cost.. Tuttavia il discorso si completa con un ulteriore, fondamentale, rilievo (kantiano, appunto) secondo il quale il titolare del bene-diritto rappresentato dalla salute, disponendone ad libitum, non può egli invadere l’altrui identica, ma contrapposta, sfera di titolarità dominicale.

In altri termini il Giudice accoglie la tesi secondo la quale la restrizione della libertà in ambito terapeutico è legittima ed essa è legittimata sol quando essa stessa sia resa necessaria dall’indigenza di tutelare quella altrui.

Non ci soffermiamo ulteriormente sul punto per non appesantire il discorso e anche perché più interessante è il secondo aspetto da considerarsi.

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Ebbene se l’ubi consistam dell’intiero discorso del Giudice, e infondo dell’intiera rettorica vaccinale, non è la salute della persona interessata, ma quella altrui in ossequio alla lettura liberale del c.d. principio personalista, v’è da chiedersi se l’imposizione dell’obbligo vaccinale sia da un lato efficace veramente e dall’altro proporzionata.

Sull’efficacia transeat, anche perché, come detto, i dati fruibili sono ancora provvisorii. Non sfugge, però, che stando alle informazioni disponibili, pur da accogliersi cum grano salis, parrebbe che il vaccino non comporti una immunità totale e assoluta rispetto al pericolo di infezione e conseguentemente rispetto al pericolo di diffusione del contagio.

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Sulla proporzionalità, però, una parola dev’essere detta, anche perché il tema della proporzionalità non si riduce in sé stesso, involgendo, esso, altresì, quello dell’efficienza rispetto all’obiettivo prefissato per norma, e quello della logica e della coerenza interne rispetto all’articolato di riferimento.

Posto, infatti, che l’obiettivo dell’obbligo vaccinale, in particolare per il personale sanitario – come scrive apertis verbis il Giudice – “risponde a una chiara finalità di tutela […] di questo personale sui luoghi di lavoro, [… ma sovrattutto] degli stessi pazienti e degli utenti della sanità […], secondo il […] richiamato principio di solidarietà” e che – continua ancora il Giudice – “è doveroso per l’ordinamento pretendere che il personale medico […] non diventi esso stesso veicolo di contagio” giusta il “principio di sicurezza delle cure enunciato, tra l’altro, dalla l. 24 del 2017”, rileva che lo strumento vaccinale si pone ed è qualificato ex lege come mezzo (recte, come il migliore mezzo possibile rebus sic stantibus) per evitare la diffusione del contagio e dei contagii, e in quanto tale esso è reso coattivo.      

Sul punto – questo sollevato dal ricorso, anche se forse in modo poco efficace – il Giudice risponde. La risposta, però, a nostro avviso, si limita a un passaggio tautologico dalla scarsa efficacia euristica, invero insoddisfacente. Questo punto, infatti, proprio sotto il profilo della coerenza interna, rappresenta la maggiore debolezza logica dell’intiera pronunzia, e con questa esso tradisce un approccio lato sensu ideologico al problema tutto.

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Il Giudice, infatti, sostiene che “si è già ampiamente chiarito che i quattro vaccini sono efficaci e sicuri, allo stato delle conoscenze acquisite e delle sperimentazioni cliniche eseguite […], e rispondono pienamente allo scopo perseguito dal legislatore e, cioè, quello di evitare la diffusione del contagio tra la popolazione”. Come a dire che sull’efficacia della vaccinazione non v’è margine normativo-legale per alcuna valida e fondata discussione.

Questa conclusione assertoria, però, non renderebbe ragione della natura provvisoria dell’autorizzazione alla loro immissione in commercio, poiché se i vaccini “sono efficaci e sicuri” – come scrive il Giudice – e se in ordine a questa certezza scientifica e normativo-legale, assieme, non fosse necessario alcun altro elemento di verifica, di discussione, di valutazione, di dubbio legittimo et coetera, non si comprenderebbe perché l’autorizzazione c.d. ordinaria non sia stata data a monte o essa non sia sopraggiunta ancora.

Il punto è questo – si badi –, ed esso è tutto interno alla logica normativa, e quindi esso – a tacere su ogn’altro aspetto sostanziale – pone capo a una questione di coerenza sistematica sulla quale il Giudice, a nostro avviso errando, soprassiede: che la qualificazione legale della autorizzazione condizionata, col riferimento che essa stessa richiama all’art. 4 del Reg. CE 507/2006, poggia sulla circostanza in virtù della quale la stessa “autorizzazione all’immissione in commercio condizionata può essere rilasciata quando il comitato ritiene che, malgrado non siano stati forniti dati clinici completi in merito alla sicurezza e all’efficacia del medicinale, siano rispettate” le quattro condizioni elencate nel prosieguo del medesimo articolo.

Il dubbio sull’efficacia dei preparati vaccinali, dunque, è non solo legalmente possibile e plausibile, fondato e giustificato; ma esso è addirittura imposto dalla norma: esso è invero carattere precipuo e peculiare del titolo autorizzativo, ed è causa, ragione, motivo degli adempimenti che la medesima norma richiede successivamente alla immissione in commercio del preparato in parola.

Negare questo significa tradire la littera e la ratio della legge di riferimento.

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Può dirsi, infatti, proprio il contrario di quanto recisamente sostenuto dal Collegio, e cioè che l’efficacia delle vaccinazioni de quibus, pur avendo raggiunto un livello ritenuto per legge sufficiente alla loro commercializzazione – questo sì –, essa non ha ancora superato il vaglio scientifico e normativo in un tempo ritenuto ordinariamente necessario.

Se a questo dato legale, poi, si sommassero le informazioni ricavabili dai mezzi di comunicazione, pur considerandole con i limiti loro proprii, ciò porterebbe a una ancora maggiore fondazione dei dubbi circa l’effettiva e capillare efficacia delle vaccinazioni rispetto al contenimento dei contagii e alla diffusione del patogeno.

Più efficace strumento di contenimento dei contagii, allora, sarebbe non già la omologazione sanitaria formalistica data da una campagna vaccinale «provvisoriamente autorizzata», quanto piuttosto l’individuazione e la selezione precoce e capillare degli individui positivi al patogeno, eppertanto è l’individuazione e la selezione precoce dei cc.dd. veicoli di infezione.

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Consideriamo questo: il contenimento dei contagii, e dunque la difesa «degli altri» dal rischio di infezione, rappresenta lo scopo in virtù del quale il Collegio ritiene legittimo l’obbligo vaccinale giusta il c.d. principio solidaristico, e ritiene proporzionato, in parte qua, il sacrificio dell’autodeterminazione individuale.

Ebbene, ciò che meglio e più efficacemente perseguirebbe questo scopo, però, perché permetterebbe di selezionare i portatori, anche asintomatici, del virus, e così di isolarli dal contatto con gli altri, non è la somministrazione del vaccino, la quale non darebbe un’immunizzazione né certa, né capillare, anche perché mancherebbero i dati (completi) al riguardo, quanto piuttosto è rappresentato dalla diffusa e periodica effettuazione dei cc.dd. test molecolari o antigenici, i quali, infatti, riescono a individuare la presenza della carica virale all’interno dell’organismo quand’anche esso non presenti alcuna sintomatologia.

La circostanza in virtù della quale, poi, per norma, la validità dei citati test non superi le quarantotto ore, e che pertanto essi vadano ripetuti periodicamente e ciclicamente, come punto stabilisce la normativa in materia di c.d. certificazione verde, ne fa uno strumento di monitoraggio e di selezione indubbiamente più efficace del vaccino per quanto attiene alla tutela degli altri.

Poi si può discutere – certamente – se, in relazione alla specifica attività svolta e agli specifici rischi, al personale sanitario sia opportuno imporre la sottoposizione all’esame con maggiore frequenza, in ipotesi… all’inizio di ogni turno, ogni ventiquattro ore, due volte nel corso dello stesso turno di lavoro et coetera.

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Se è vero, infatti, che la persona vaccinata può contagiarsi ed essa può contagiare, sovrattutto considerando – lo rileva anche il Giudice – che l’effetto delle vaccinazioni più che l’immunità garantisce dall’aggravamento della sintomatologia, e se è vero che il periodo di incubazione del patogeno può essere anche amplio e non dare segnali di allarme, è maggiormente vero che la periodica verifica attraverso i cc.dd. tamponi, meglio di ogn’altra provvidenza consente di ottenere il risultato prefissato per norma, eppertanto la difesa dei cc.dd. soggetti deboli e in particolare dei pazienti lato sensu intesi dall’esposizione al rischio di infezione.

La cosa, peraltro, potrebbe e dovrebbe mutuarsi dalla stessa disciplina generale in materia di c.d. certificazione verde, già applicabile per i lavoratori pubblici e privati esclusi dal novero del personale sanitario. Tanto è vero che la diversità di trattamento, posta nei termini nei quali la stessa legge la pone, dovrebbe suscitare almeno qualche dubbio di costituzionalità in ordine, per esempio, alla tralaticia lettura dell’art. 3 cost.. Verrebbe da domandarsi… dove sono i costituzionalisti?

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Un’ultima questione merita un brevissimo cenno, che solo apre a disviluppi successivi.

Essa non avrebbe ictu oculi grande rilievo, ma lo assume alla luce di tutto il discorso fatto e delle molte altre questioni che pur andrebbero ulteriormente considerate. Non solo: essa dà anche conto della cifra ideologica sottostante alla rettorica vaccinale.

Il Giudice parla, con riguardo all’atteggiamento psicologico dei ricorrenti, ed è dubbio che essa sia materia del Giudice e della sentenza, come è dubbia l’opportunità del commento, di “esitazione vaccinale [che] ha una genesi multifattoriale [… e che] non di rado è il frutto […] di una irrazionale sfiducia nei confronti della scienza e, più in generale, dei ʽtecniciʼ […] avvertiti come titolari di un potere ritenuto inaccessibile e, in quanto tale, elitario e antidemocratico”, in proposito il Giudice cita, tra parentesi, il precetto baconiano “nam et ipsa scientia potestas est”.

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La constatazione è densa di problemi, non solo formali, che in questa sede nemmeno possono sfiorarsi; essa, peraltro, tradisce una certa superficialità la quale legittimerebbe il sospetto di un atteggiamento preconcetto, prevenuto, ideologico, da un lato, fideistico, dall’altro.

Scientia locuta, causa finita…  

Innanzitutto, però, scienza e tecnica, scienziati e tecnici, sarebbero cose diverse: ridurre la scienza alla tecnica, come fa anche Galileo, significa ridurre il sapere a operatività, vale a dire a capacità di apparecchiare i mezzi per il conseguimento di un fine purchessia… senza “tentare le essenze”, cioè senza curarsi della natura delle cose e ponendo mente al solo risultato operativamente voluto.

Viceversa la tecnica serve alla scienza ma non la esaurisce, e anzi essa, per essere bene applicata e per essere buona tecnica, ne è necessariamente guidata e informata.

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In secondo luogo è ovvio, addirittura scontato, lapalissiano – già Platone lo rilevava – che il sapere sia elitario e antidemocratico. Essa non è una farneticazione, ma una constatazione.

Il sapere, cioè, proprio in quanto conoscenza delle cose, del loro essere, appartiene ai sapienti che sono tali in virtù di quello; non è, esso, diffusivo, universale. Doctrina est fructus dulcis amarae radicis, si diceva un tempo, ed effettivamente il sapere richiede dedizione, sforzo, studio, applicazione che non tutti profondono e che, comunque, non tutti possono profondere in tutti gli ambiti e in tutti i settori.

Il sapere medico, per esempio, è appannaggio dei medici, dell’élite che essi rappresentano, della loro corporazione, si direbbe con linguaggio arcaico. Lo stesso vale per il sapere giuridico e per i giuristi; per ogni forma, insomma, di sapere, comprese quelle formae di sapere le quali attengono all’artigianato, alle arti belle, al lavoro manuale et similia.

Dunque… considerare il sapere come qualche cosa di elitario è individuarne chiaramente il contenuto, l’ambito, la natura, la genesi.

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Parimenti, il sapere non è democratico: esso non dipende da maggioranze e da minoranze; da consensi e da dissensi; da regolamenti per il computo dei voti, dal quorum deliberativo et coetera.

Il sapere è di chi sa e, contrapposti a chi sa, vi sono quelli che non sanno, i quali, relativamente all’oggetto del sapere considerato, sono inferiori a lui; ne sono sottoposti. Certamente non stanno sullo stesso piano: chi sa sta sopra, per quello che sa, chi non sa sta sotto in relazione a quello che non sa e la parola di chi sa non vale – come il voto nell’assemblea c.d. democratica – quanto quella di chi non sa. Per esempio le diagnosi del medico o i pareri del giurista non si dànno in esito a scrutinii universali.

Ed ecco l’ulteriore questione: sapere e potere.

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Sapere, infatti, è potere!

Il sapere, in altre parole, dà a colui il quale lo detiene il potere di chi sa: il potere di comprendere, di capire, di cogliere l’oggetto della sua sapienza, di applicarne principii e metodi.

Il problema, allora, non sta nel potere, che è conseguenza naturale del sapere, ma nella sua qualificazione sostantiva, la quale deriva dal suo uso. Altro, infatti, è il potere inteso come dominio e altro è il potere inteso come autorità.

Il potere di chi sa qualche cosa, inteso ed esercitato come dominio, è manipolazione; esso, in fondo, è tradimento radicale e assoluto del sapere. Ne è un abuso. Il dominio, infatti, cioè la volontà di piegare le cose e di adoperare le proprie competenze per fini arbitrarii, per vantaggi personali, per l’alterazione dell’ordine naturale delle cose, per fare il male in tutti i sensi, è applicazione tecnica di conoscenze, mai esercizio di un sapere.

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Il sapere, infatti, è sempre normativo e regolativo per colui il quale lo detiene nell’ordine del suo stesso fine, ond’esso è regola e norma per il sapiente.

Per sapere, infatti, occorre ubbidire, e la sapienza è sovrattutto atto di ubbidienza all’ordine delle cose che si conoscono, mai esso ne è o ne legittima l’alterazione. La sapienza, peraltro, è sempre apertura al sapere, quindi essa è sempre disponibilità ad apprendere, a discutere, a mettere in dubbio le conquiste fatte, a tendere verso il sempre maggiore coglimento del proprio essere. Il sapere è, in una parola, anti-dogmatico per essenza, talché il dogmatismo ne è oltraggio.

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Infatti il sapere dà l’autorità: ogni sapere dà autorità nel suo ambito a colui il quale lo detiene. Il sapere politico dà l’autorità politica; quello giuridico dà l’autorità giuridica; quello letterario dà l’autorità letteraria. Tanto è vero che anche nel comune modo di esprimersi, riguardo a una persona che sia sapiente, o sia riconosciuta sapiente, in un determinato settore si dice che ella è un autorità nel suo campo.

L’autorità, però, è potere ordinato: essa, cioè, è potere ordinato al bene di colui il quale ne è sottoposto, relativamente al suo oggetto – Platone, in merito, scrive pagine illuminanti –; ciò significa che l’autorità del sapiente, che è un’autorità autorevole, potremmo dire con una battuta, e che è un’autorità elitaria e aliena alle logiche dei numeri (democratiche, intendiamo), essa è sempre teleologicamente orientata al bene e per il bene; all’applicazione, in una parola e alla realizzazione, della sapienza che è e che non dipende da opzioni.

Il problema di Bacone, allora, non è quello che il Giudice richiama.

Il problema di Bacone – tra i molti che quest’Autore pone – risiede nell’assunto secondo il quale “activum et contemplativum res eadem sunt, et quod in operando utilissimum, id in scientia verissimum”.

Il problema di Bacone, in altre parole, è quello del dogmatismo scientista; del tecnicismo; del sapere servo e servente, onde l’utilità nell’operare determina la verità della scienza, onde, cioè, quello che è utile in operando è per ciò solo scientificamente vero e valido. Deve esserlo, poiché, qualora non lo fosse, ne verrebbe meno la ragion d’essere.

Così facendo, però, la verità viene estraniata dal sapere, ed essa viene legata all’utile, al vantaggioso, all’idoneo rispetto a un fine arbitrariamente eletto, e la scienza, conseguentemente, scade nelle tecniche, nell’operatività acritica; essa si mette, in altre parole, nelle mani di chi ha il potere (economico, politico, militare et coetera) di gestirla definendole ab externo gli obiettivi e dandole i parametri o criterii di utilità.