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Oltraggio al magistrato quando l’avvocato esprime dissenso?

Rito abbreviato
Rito abbreviato

La critica e il dissenso espresso dall’avvocato davanti al collegio giudicante configura il reato di oltraggio del magistrato? Ricordiamo l’incriminazione e la condanna di un collega romano che aveva...

È di questi giorni la presa di posizione della Giunta Esecutiva sezione di Roma di ANM in merito agli articoli pubblicati sul quotidiano “Il Dubbio” in merito al processo “Cerciello - Rega”, celebratosi in Corte d’Assise a Roma.

La giornalista Valentina Angela Stella, recentemente intervistata su Filodiritto, dando conto dell’appello delle difese e soffermandosi - con dovizia di particolari - sulla censura relativa alla violazione delle regole dell’esame e del controesame, cita, virgolettandolo, il contenuto di alcuni messaggi dei lettori.

Tra questi, uno ha suscitato la reazione della Giunta Esecutiva sezione di Roma di ANM che in una nota del 17 dicembre: “stigmatizza le modalità di comunicazione circa gli esiti dei processi ed auspica un cambio di prospettiva, che riservi le argomentazioni anche critiche nei confronti dei provvedimenti giurisdizionali alle sedi preposte per la relativa delibazione”.

Prosegue la nota, evidenziando che la frase “Nei processi penali a Roma è il classico atteggiamento dei giudicanti ... travalica l’ambito processuale dal quale la stessa trae origine e assurge, irragionevolmente, a strumento di immotivata offesa non solo dei giudici che hanno celebrato il processo, ma anche dell’ordine giudiziario nel suo complesso”.

In buona sostanza la Giunta Esecutiva di ANM Roma ritiene che la frase “Nei processi penali a Roma è il classico atteggiamento dei giudicanti” sia in odore di reato.

Il tempo sembra trascorso invano, voglio ricordare una vicenda che accadde sempre a Roma e vide protagonista, suo malgrado, l’avvocato romano G. S. che al termine dell'udienza davanti alla corte di appello aveva rivolto un invito ai giudici, pubblicamente ed in loro presenza, ad un corretto esercizio della professione: "la reformatio in peius non è prevista dal nostro ordinamento, la professione deve essere fatta con serietà da entrambe le partì'.

Per questa frase l’avvocato G.S. venne condannato alla pena di 2 anni di reclusione e solo in cassazione evitò la condanna e non per aver esercitato il diritto di critica.

Non vi meravigliate, la Suprema Corte ricordò a tutti (compresa l’avvocatura romana) che “Integra il delitto di oltraggio a magistrato in udienza la condotta del difensore che, subito dopo la lettura della sentenza che definisce il processo penale nel quale ha svolto la propria funzione, esprime davanti al collegio giudicante il proprio dissenso per la decisione adottata”.

La cassazione sentenziò: “Un diritto delle parti o dei loro difensori di esprimere liberamente ai giudici, di seguito alla lettura del dispositivo, il proprio assenso o dissenso per la sentenza da loro pronunciata non trova giustificazione in alcuna norma ed è incompatibile con il sistema processuale, in quanto il mezzo dell'impugnazione è l'unico previsto come idoneo a riformare il provvedimento giurisdizionale ritenuto illegittimo.

Non esercita pertanto un proprio diritto processuale il difensore il quale, dopo la lettura della sentenza che definisce il processo penale nel quale ha svolto la propria funzione, esprime davanti al collegio giudicante il proprio dissenso per la decisione adottata”.

 

La vicenda richiamata IN FATTO E DIRITTO

Avverso la sentenza della Corte d'appello di Perugia 11 febbraio 2005 n. 124 - con la quale, a conferma della sentenza del Tribunale di Perugia 13 ottobre 2001, è stato dichiarato colpevole del reato previsto dagli artt. 342 e 343 c.p., per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, offeso l'onore e il prestigio della Corte d'appello di Roma, composta dai Dott.ri De Paolis Alfonso, Giuseppe Tavolato e Giorgio Punzo, all'udienza del 2 aprile 1998, dicendo: La reformatio in pejus non è prevista dal nostro ordinamento; la professione dev'essere fatta con sierietà da entrambe le parti - G. S. ha proposto ricorso per Cassazione, chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi:

- Erronea applicazione degli artt. 51, 342 e 343 c.p. (art. 606 c.p.p., n. 1, lett. b) perché il fatto, espressione di critica legittima nei confronti di un provvedimento giurisdizionale giuridicamente non corretto, non costituisce reato, quanto meno putativamente, ai sensi degli artt. 51 e 59 c.p.p.

La ricostruzione dell'episodio che ha dato luogo alla commissione del reato contestato è stata eseguita puntualmente dai Giudici di merito.

All'udienza del 2 aprile 1998 il processo, in cui l'avv. G. S. aveva svolto la propria funzione di difensore, era stato definito con la pronuncia del dispositivo della sentenza ed era iniziata la trattazione del successivo.

L'avv. G.S. era rientrato in aula e, mentre la Corte stava per ritirarsi, aveva pronunciato la frase incriminata. Su tale ricostruzione il ricorrente concorda, limitandosi ad eccepire il diritto di critica, che egli costruisce come fisiologico contrappeso al complesso e articolato sistema di guarentigie della magistratura, connessa con il fatto che i magistrati italiani fruiscono di una condizione e piena libertà di giudizio; che l'indipendenza e l'autonomia dell'ordine giudiziario non è una mera petizione di principio, ma risulta assistita, sia a livello normativo che nell'esercizio quotidiano delle proprie funzioni da garanzie reali che ne consentono una effettiva esplicitazione, riassunte del principio dell'irresponsabilità penale, civile e disciplinare del magistrato per gli atti e i provvedimenti assunti con il solo limite del dolo e della colpa grave.

Tale contrappeso - precisa il ricorrente - consiste nell'incondizionata possibilità e liceità di critica dei provvedimenti giudiziari riconoscibili in capo a tutti i cittadini e segnatamente agli operatori del processo, a quelli, cioè, che per corredo professionale dovrebbero più di altri essere in grado di comprendere quando il magistrato possa essere destinatario di censure e critiche da manifestare a prescindere dall'esperimento dei mezzi d'impugnazione previsti dall'ordinamento. Tale ampia libertà di critica - si conclude - incontra i limiti giurisprudenziali relativi alla verità dei fatti e alla "continenza" e, fatti salvi tali limiti, consente il ricorso alla critica aspra, sferzante, anche irriguardosa, non elegante o espressione di maleducazione, è sempre consentita (anche se ovviamente poco gradita) proprio in ossequio e attuazione dei principi costituzionali di libera manifestazione del pensiero. Le considerazioni che precedono appaiono piuttosto frutto di una petizione di principio.

In realtà, le garanzie dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura, lungi dal poter essere intese come prerogative concesse alla categoria sotto forma di indebite garanzie, sono riconosciute dall'ordinamento giuridico ai componenti dell'istituzione giudiziaria esclusivamente in funzione di un giudizio obiettivo, tecnicamente valido e deontologicamente corretto.

Tale correlazione, di significato e valore istituzionali, non può essere - come propone il ricorrente - impropriamente sostituita col diritto di critica, peraltro con l'incongrua finalità di fungere da contrappeso di presunti privilegi di natura burocratica.

Il diritto di critica, come espressione del diritto individuale di manifestare il proprio pensiero garantito dall'art. 21 Cost., investe le istituzioni nel loro complesso e quindi anche l'istituzione giustizia, venendo esercitato nei modi e nei termini stabiliti dalla legge.

Nel caso dell'attività giudiziaria i modi e i limiti devono essere ricercati in primo luogo nella legge regolatrice del processo, che ne costituisce lo strumento funzionale. Il codice di procedura penale, in particolare, stabilisce che il giudizio si svolge in contraddittorio e che la sentenza che definisce il giudizio, a seguito della deliberazione e della redazione, sia pubblicata mediante la lettura del dispositivo in pubblica udienza.

Da quel momento le parti hanno il diritto, riconosciuto loro in generale dall'ordinamento, di impugnarla nei modi e nei termini previsti per l'impugnativa. Un diritto delle parti o dei loro difensori di esprimere liberamente ai giudici, di seguito alla lettura del dispositivo, il proprio assenso o dissenso per la sentenza da loro pronunciata non trova giustificazione in alcuna norma ed è incompatibile con il sistema processuale, in quanto il mezzo dell'impugnazione è l'unico previsto come idoneo a riformare il provvedimento giurisdizionale ritenuto illegittimo.

Non esercita pertanto un proprio diritto processuale il difensore il quale, dopo la lettura della sentenza che definisce il processo penale nel quale ha svolto la propria funzione, esprime davanti al collegio giudicante il proprio dissenso per la decisione adottata.

Ragioni di ordine che sono alla base della direzione del dibattimento e della disciplina dell'udienza, connesse con l'immagine stessa della Giustizia, escludono la possibilità di istituzionalizzare un simile comportamento, attribuendo a ciascuna parte la facoltà di tenerlo come corrispondente a un diritto di critica costituzionalmente garantito.

Inoltre, la funzione per così dire riparatoria dell'istituto dell'impugnazione assorbe e priva di rilievo al riguardo la circostanza che il difensore abbia torto o ragione di esprimere sul verdetto emesso un proprio eventuale dissenso.

Esclusa, in base alle argomentazioni che precedono, la sussistenza di un diritto di critica collegato con la funzione di parte o di difensore nel processo, si registra, in parallelo, l'impossibilità di ricondurre comunque la fattispecie in esame al generale diritto di critica del cittadino, per le medesime ragioni di ordine connesse con la natura di servizio pubblico del processo, che non tollera interruzioni e proteste in nome di un diritto di critica che può essere espresso nei modi e nelle sedi consentite, al di fuori del contesto esso si svolge.

Pertanto il motivo di ricorso, che vorrebbe giustificata la condotta del G.S. in base all'esercizio di un presunto diritto di critica, vero o erroneamente supposto, risulta quindi infondato.

Resta, infine, da verificare la potenzialità offensiva delle espressioni proferite dall'imputato. I Giudici del merito hanno osservato come solo la prima, La reformatio in pejus non è prevista dal nostro ordinamento, avesse significato critico in rapporto alla decisione della Corte d'appello, mentre la seconda, la professione dev'essere fatta con serietà da entrambe le parti, era rivolta ai magistrati componenti del collegio giudicante, presenti, ed aveva valore offensivo, consistente nel metterne in dubbio serietà e professionalità.

La valutazione appare aderente al significato delle parole, nella loro connessione complessiva, e alla logica dell'episodio. In effetti, se la prima frase, nella misura in cui è rivolta al provvedimento, non ha di per sè valore offensivo, la seconda, nel significato complessivo dell'espressione, è quella che la qualifica determinandone il senso. L'invito rivolto ai Giudici, pubblicamente ed in loro presenza, ad un corretto esercizio della professione, con evidente riferimento al provvedimento da loro appena pronunciato, suona indubbiamente offensivo. Il riferimento ai doveri professionali di entrambe le categorie, avvocati e magistrati, non elimina il potenziale oltraggioso della frase proferita, anzi ne conferma il significato, lasciandone immutato il disvalore.

Tuttavia, è proprio questo accenno, posto in relazione con la protesta avanzata con la prima frase, a suscitare il dubbio che l'imputato si sia reso conto del senso effettivo della frase predetta, nel senso che il richiamo ai doveri di professionalità del giudice come dell'avvocato può essergli apparso come un modo non irriguardoso di porre la questione, che secondo la sua percezione, così impostata, veniva resa obiettiva e quindi privata di capacità lesiva.

In conseguenza di tale rilievo viene meno la certezza che l'imputato abbia agito con dolo, per cui la sentenza impugnata dev'essere annullata perché il fatto non costituisce reato.