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Presunzione di innocenza e stampa: alla vigilia di un nuovo volto

Marina di Ravenna, 2017
Ph. Alessandro Saggio / Marina di Ravenna, 2017

Le mie notti sarebbero un incubo al solo terribile pensiero di un innocente

che sconta tra i tormenti crudelissimi una colpa che non ha commesso

Emile Zola

Qualche elemento utile per capire meglio l’articolato normativo che ruota intorno alla presunzione di innocenza e il meccanismo d’informazione giudiziaria nella riforma che sta per essere portata avanti su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e della Ministra della Giustizia, di concerto con il Ministro degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale e il Ministro dell’economia e delle finanze, con atto sottoposto a parere parlamentare e composto di sei articoli.

In verità, non è una questione nuova quella del rapporto tra stampa e colpevoli, tra presunzione di innocenza e dovere d’informazione, e in Italia ha una salda matrice costituzionale contenuta nell’articolo 27, comma 2.

E c’è poco da scandalizzarsi se alla fine l’Italia abbia deciso di rafforzare un precetto costituzionale, non avendo fatto altro che aderire a una precisa direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo.

Per capire l’importanza del principio va precisato che la garanzia contenuta non riguarda solo la reputazione dell’indagato, ma anche l’indipendenza di giudizio del giudice, quella che viene definita la neutralità psicologico-cognitiva.

La presunzione di innocenza e il diritto a un equo processo sono sanciti negli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Carta»), nell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («CEDU»), nell’articolo 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici («ICCPR») e nell’articolo 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Nell’articolo 4 della direttiva UE del 2006, intitolato “Riferimenti in pubblico alla colpevolezza”, e già il lessico utilizzato lascia intendere la vastità della problematica delle comunicazioni alla stampa su vicende penali balzate alla cronaca con la necessità di avere una garanzia che funga da minimo comune denominatore, si è previsto che:

“Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità.”

Al comma 2 è sancito che:  “Gli Stati membri provvedono affinché siano predisposte le misure appropriate in caso di violazione dell’obbligo stabilito al paragrafo 1 del presente articolo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in conformità con la presente direttiva, in particolare con l’articolo 10.”

Mentre al comma 3 del citato articolo 4 viene statuito che:  “L’obbligo stabilito al paragrafo 1 di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico.”

La Direttiva Ue, dunque, stabilisce norme minime comuni sulla protezione dei diritti procedurali di indagati e imputati, mira a rafforzare la fiducia degli Stati membri nei reciproci sistemi di giustizia penale e, quindi, a facilitare il riconoscimento reciproco delle decisioni in materia penale. Tali norme minime comuni possono altresì rimuovere gli ostacoli alla libera circolazione dei cittadini nel territorio degli Stati membri.

La direttiva Ue è stata approvata il 9 marzo del 2016 (in G.U.U.E. dell’11 marzo 2006, L 65/1) e aveva come termine di recepimento il 1 aprile del 2018.

Inserita nella legge di delegazione 2016-2017, la delega di recepimento era scaduta nel febbraio del 2018.

Il dato politico è che la legge 22 aprile 2021 nr. 53, che costituisce una delega al recepimento della direttiva del 2006, è stata poi votata quasi all’unanimità. Un solo deputato ha votato contro, undici astenuti e 427 favorevoli nell’aula della Camera.

Se già esiste l’articolo 27 nella nostra Costituzione, sarebbe stato politicamente molto difficile negare l’ingresso di una legge di recepimento di quella direttiva.

Questo principio ha radici lontane nel trattato di Cesare Beccaria, dove il giurista nell’opera “Dei delitti e delle pene” già nel 1764 affermava che “un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violato i patti coi quali le fu accordata.”

E come scrisse Ferrajoli, la forza innovatrice di Beccaria risiede nell’assunzione di un punto di vista esterno al sistema della giustizia penale del suo tempo. Il punto di vista dei giuristi, quello della scienza giuridica, era sempre stato interno al diritto, prevalentemente descrittivo pur se critico.  Il punto di vista adottato da Beccaria è, invece, filosofico-politico, con risvolti normativi, sul dover essere del diritto, assunto non più come strumento di governo e di controllo sociale a vantaggio di pochi, ma come strumento di garanzia per tutti (L. FERRAJOLI, L’attualità del pensiero di Cesare Beccaria, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XLV, n.1, giu. 2015, pp. 149-150).

Beccaria aveva già una visione europea, e può considerarsi il padre del costituzionalismo garantista, nonché del diritto penale.

È il buon legislatore criminale di oggi che deve saper cogliere la portata culturale di questi principi, che partono dalla presa di coscienza di uno statuto processuale dell’indagato e dell’imputato, per allargarsi alle ragioni di un sentire comune, al ruolo di orientamento della norma come strumento di avanzamento e modernizzazione della società civile al tempo in cui il diritto penale si scontra con il populismo giudiziario innescato dai social.

Il legislatore dovrà accompagnare questa riforma, non lasciarla da sola, dovrà seguire gli sviluppi e far percepire che il nodo centrale tocca la presunzione di innocenza e il rafforzamento della fiducia nei sistemi di giustizia penale interconnessi in uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia.

D’altra parte, la Magistratura saprà ridisegnare il meccanismo di comunicazione giudiziaria non eliminando il ruolo di "cane da guardia" del giornalismo, altrettanto importante. Già aveva il suo codice etico, ma ora l’etica si fa norma, precetto tangibile di fronte all’Europa.

La pubblicazione degli atti processuali, adesso, appare davvero al centro del dibattito tra giusto processo e libertà di stampa.

Ma veniamo al merito: con un comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 32 del 5 agosto 2021 si è esaminato il testo di un decreto legislativo da approvare riguardante il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, in attuazione della delega di cui all’articolo 1 della legge 22 aprile 2021, nr. 53 (Ministro della giustizia).

Nel breve comunicato della Presidenza del Consiglio si evidenzia che “durante la celebrazione delle udienze, si richiede una valutazione, caso per caso, della necessità di ricorrere all’uso delle manette e della presenza di imputati all’interno delle gabbie. In stretta attuazione della direttiva, si estende a tutte le pubbliche autorità il divieto di indicare come “colpevole” la persona indagata o imputata, fino a sentenza definitiva. Rispetto alla diffusione di informazioni su indagini in corso, in recepimento di prassi già adottate da più uffici giudiziari, il Procuratore capo potrà ricorre a comunicati stampa e, per casi di particolare rilevanza, a conferenze stampa. È fatto divieto assegnare alle operazioni giudiziarie titoli lesivi della presunzione di innocenza.”

Allo stato, il decreto legislativo è solo uno schema che dovrà seguire il suo iter, e prevede che le autorità, magistrati inclusi, non potranno indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato, fino a quando la colpevolezza non sarà stata accertata con sentenza irrevocabile. In caso di violazione, “ferma l’applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari, nonché l’obbligo di risarcimento del danno, l’interessato ha diritto di richiedere all’autorità pubblica la rettifica della dichiarazione”.

Qualora l’istanza di rettifica non sia accolta, o non rispetti i criteri e le condizioni indicate tali da renderla pubblica con le medesime modalità delle dichiarazioni lesive o comunque idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione, è previsto uno strumento specifico e cioè il ricorso al Tribunale per l’adozione di un provvedimento urgente ai sensi dell’articolo 700 c.p.c. per ordinare la pubblicazione della rettifica con le modalità di legge.

È prevista una modifica al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 (“ Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero”) riguardante il meccanismo comunicativo con la stampa inserendo il seguente comma 2 bis: “La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende, e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.

Il Procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio apposto delegato, i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenza stampa. Il Procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. Nei comunicati e nelle conferenza stampa è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza.

Se la presunzione di innocenza è un diritto che scatta con l’innesto di una procedura giudiziaria, la stessa non viene meno anche dopo, come stabilito dalla Corte EDU, sentenza del 20/10/2020: la garanzia di cui all’articolo 6.2 CEDU esige che qualora il procedimento abbia un esito diverso dalla condanna, poiché l’imputato è stato assolto oppure il procedimento è stato interrotto, tale esito sia rispettato in ogni altro procedimento, al fine di preservare la reputazione della persona e la percezione che il pubblico ha della medesima.

La presunzione di innocenza, però, non può essere interpretata in modo da impedire di fornire all’opinione pubblica informazioni relative a indagini penali in corso, di dibattere di tali temi in sede parlamentare o sugli organi di stampa (v. Corte Edu, Rywin c. Polonia, nn. 6091/06, 4047/07, 4070/07, 18 febbraio 2016, § 207) , e ciò in ragione della protezione offerta dall’articolo 10 CEDU al diritto a fornire e ricevere informazioni. Tuttavia, i meccanismi di comunicazione devono svolgersi con discrezione e riserbo e le dichiarazioni di un funzionario dello Stato in merito alla responsabilità penale di una persona non devono poter spingere l’opinione pubblica a credere nella colpevolezza dell’indagato, e pregiudicare quindi l’accertamento e la valutazione dei fatti che devono essere svolti dall’autorità competente (v. Corte Edu, Peša c. Croazia, n. 40523/08, 8 aprile 2000, § 141; Konstas c. Grecia, n. 53466/07, 24 maggio 2011, §§ 34-35).

Al fine di valutare concretamente il rispetto dell’articolo 6 § 2, la Corte EDU in alcune decisioni ha esaminato l’impatto che le dichiarazioni hanno avuto sull’opinione pubblica e ha valutato i seguenti elementi: il significato proprio delle parole e dei termini utilizzati, la fase nella quale era pendente il processo penale al momento delle dichiarazioni, la copertura mediatica dello stesso, la posizione gerarchica dell’agente dello Stato (v. Corte Edu, Petyo Petkov c. Bulgaria, n. 32130/03, 7 gennaio 2010, §91).

È chiara la necessità di evitare che ogni rappresentazione delle indagini sia idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate. Nella bozza del decreto legislativo si osserva ancora: “Nei provvedimenti che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richiesta dalla legge per l’adozione del provvedimento”. La norma limita anche la possibilità per i PM di pubblicare singoli atti o parti di essi ai soli casi in cui sia “strettamente” necessario.

La presunzione di innocenza assume diversi contorni, e viene declinata sia come regola di trattamento, avuto riguardo alla circostanza che il soggetto deve essere considerato e trattato sempre come innocente, sia come regola probatoria, posto che, attraverso di essa, si distribuisce l’onere della prova tra le parti, sia come regola di giudizio attraverso il principio della condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò comporta per la Corte EDU l’impossibilità di ritenere colpevole chi, sottoposto a procedimento penale, abbia beneficiato di una decisione di improcedibilità  - nel caso di specie per sopravvenuta amnistia - senza che sia stato reso un giudizio di merito sulla fondatezza dell’accusa. Anche in base alla legislazione nazionale applicabile nel caso in esame, si è escluso che il semplice fatto di aver prestato consenso all’applicazione dell’amnistia abbia comportato una rinuncia - consapevole e chiara - alla presunzione di innocenza ed al diritto a non contribuire alla propria incriminazione. Quando, nel corso di un procedimento ulteriore a quello penale e a quest’ultimo strettamente collegato, il giudice civile adotti una decisione implicante affermazione di responsabilità penale – come nella specie avvenuto con riguardo alla ritenuta legittimità del licenziamento intimato per furto sul luogo di lavoro – trovano applicazione le garanzie dell’articolo 6 § 2 Cedu, di cui nel caso esaminato è stata riconosciuta la violazione per essere stato desunto il riconoscimento della colpevolezza dalla richiesta di applicazione dell’amnistia in sede penale (v. Corte EDU, Sez. II, Gutu c. Repubblica di Moldova, 20 ottobre 2020).

Una recente sentenza della Corte Costituzionale, emessa il 30 luglio 2021, n. 182, mette in luce che nell’interpretazione e applicazione fornita dalla Corte di Strasburgo (ex plurimis, Corte EDU, grande camera, sentenza 12 luglio 2013, Allen contro Regno Unito), la norma convenzionale, peraltro, assume un più ampio rilievo rispetto al parametro nazionale, presentando una portata non strettamente endoprocessuale.

Da un lato, la presunzione di innocenza costituisce una “garanzia procedurale” destinata ad operare “nel contesto di un processo penale”, producendo effetti sul piano dell’ ”onere della prova”, sull’operatività delle “presunzioni legali di fatto e di diritto”, sull’applicabilità del “privilegio contro l’autoincriminazione”, nonché in ordine “alla pubblicità preprocessuale e alle espressioni premature, da parte della Corte processuale o di altri funzionari pubblici, della colpevolezza di un imputato”.

Dall’altro lato, la presunzione di innocenza, “in linea con la necessità di assicurare che il diritto garantito” dall’articolo 6, paragrafo 2, CEDU “sia pratico e effettivo”, estende i suoi effetti al di fuori del processo penale ed opera nel tempo successivo alla sua conclusione o interruzione, non in funzione di apprestare garanzie procedurali all’imputato, ma allo scopo di “proteggere le persone che sono state assolte da un’accusa penale, o nei confronti delle quali è stato interrotto un procedimento penale, dall’essere trattate dai pubblici ufficiali e dalle autorità come se fossero di fatto colpevoli del reato contestato”.

Secondo la Corte EDU, terza sezione, sentenza 20 ottobre 2020, Pasquini contro Repubblica di San Marino, senza una tutela che garantisca il rispetto dell’assoluzione o della decisione di interruzione in qualsiasi altro procedimento, le garanzie del processo equo di cui all’articolo 6 [paragrafo] 2, rischiano di diventare teoriche o illusorie, sicché, in seguito ad un procedimento penale conclusosi con un’assoluzione o con una interruzione, la persona che ne è stata oggetto è innocente agli occhi della legge e deve essere trattata in modo coerente con tale innocenza in tutti i successivi procedimenti che la riguardano, a meno che si tratti di procedimenti giudiziari che diano luogo ad una nuova imputazione penale, ai sensi della Convenzione.

Questo secondo aspetto della tutela della presunzione di innocenza entra, dunque, in gioco quando il procedimento penale si conclude con un risultato diverso da una condanna.

Al riguardo, dunque, la Corte Costituzionale con la pronuncia n. 182 del 2021 sottolinea che l’articolo 6, paragrafo 2, CEDU, nella sua portata "ultraprocessuale" tutela anche la reputazione della persona, sovrapponendosi, per questo profilo, alla protezione offerta dall’articolo 8, richiamando così la Corte EDU, sentenza Pasquini contro Repubblica di San Marino.

Nel report dell’Agenzia dell’Unione Europea per i dritti fondamentali (FRA) si legge che la sfida cruciale riguarda la “sproporzionata attenzione prestata dai media alla fase istruttoria e alla fase iniziale del procedimento,” quando si ha la “necessità di dimostrare la solidità dell’accusa e di ottenere il coinvolgimento dell’imputato nel caso”. Poi “gli imputati spesso presentati come colpevoli dai media durante la fase delle indagini, non hanno l’opportunità di ripulire la propria reputazione se danneggiata poiché nessuna attenzione viene prestata al risultato del procedimento”.

Siamo giunti al punto in cui è necessario che lo Stato garantisca uno status giuridico e dei diritti non teorici o illusori, ma concreti ed effettivi, perché la presunzione di innocenza sia davvero un diritto individuale non solo riconosciuto ma garantito.

In questa ottica, il processo deve diventare un luogo dove si realizza e si afferma convintamente la presunzione di innocenza, e ogni atto diffusivo delle informazioni di quel processo, e prima ancora di quelle indagini che hanno portato un individuo al processo, deve saper diffondere la cultura di quella precisa presunzione, dentro e fuori.

Quel principio della “regola minima” e del “comune denominatore europeo” sul tema della presunzione di innocenza deve diventare lo strumento per accomunare tutti gli operatori del diritto, come promotori di un nuovo volto politico della comunicazione giudiziaria.

Peraltro, l’Italia è stata condannata nel 2005 dalla Cedu (sentenza 50774/99, 11 gennaio 2005) per violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, laddove un’insegnante italiana, accusata di associazione a delinquere e altro, era stata ripresa in una fotografia scattata durante le indagini che poi era stata diffusa nel corso di una conferenza stampa delle forze dell’ordine, quindi pubblicata su diverse edizioni di due giornali locali. La sentenza Cedu ha confermato i principi già sostenuti dal Garante italiano, il quale più volte era intervenuto stabilendo il divieto di diffondere foto segnaletiche, anche nell’ambito delle conferenze stampa, se non ricorrevano fini di giustizia e polizia, o motivi di interesse pubblico (v. Provv. Garante Privacy, 19 marzo 2003; Comunicato stampa: 26 novembre 2003 – 8 aprile 2003).

La Corte Cedu, nel caso di specie, ha ravvisato che non si era in presenza di un personaggio pubblico e che la pubblicità degli atti non era necessaria ai fini della prosecuzione delle indagini.

Era il 19 ottobre 1972 quando Marco Bellocchio portò nelle sale cinematografiche il film “Sbatti il mostro in prima pagina”, con la magistrale interpretazione di Gian Maria Volontè, una pellicola di cruda denuncia socio-culturale sulla gestione da parte dei mass media di uno scottante caso giudiziario. Quel film deve rimanere solo un ricordo.