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Proprietà intellettuale/2: l’urgenza di diversificare gli strumenti di tutela

Esame delle differenze tra settore farmaceutico e del software che potrebbe portare a differenze di tutela della proprietà intellettuale
Proprietà Intellettuale
Proprietà Intellettuale

Abstract:

Il seguente post è la seconda parte di studio sul sistema di protezione della proprietà intellettuale (IP) e, in particolare, sull’opportunità di adeguare gli strumenti di privativa alle peculiarità dell’industria di riferimento, al fine di contemperare benefici e costi, tanto individuali quanto sociali. Nella precedente parte, si è analizzato il settore farmaceutico, tradizionalmente considerato come il testimonial ideale dei vantaggi di un sistema di protezione IP, al contempo inquadrando i contenuti e gli effetti della riforma degli SPC voluta dalla Commissione europea. In questo post, invece, si analizzerà il settore dell’industria informatica, in cui è possibile vedere all’opera i rischi maggiori – per il benessere dei consumatori – prodotti dal sistema IP. Al termine, si offriranno delle riflessioni conclusive.

 

Indice:

1. Vantaggi e svantaggi del sistema brevettuale: due industrie a confronto.

2. Il caso dell’industria dei software.

3. Il software “libero” o open source.

4. Conclusioni: one size doesn’t’ fit all.

 

1. Vantaggi e svantaggi del sistema brevettuale: due industrie a confronto

Nella prima parte del nostro studio, abbiamo già messo in evidenza i vantaggi e gli svantaggi del sistema brevettuale, mettendo a confronto l’industria farmaceutica e quella informatica.

Abbiamo suggerito che, per individuare il livello ottimale di contemperamento tra i benefici e i costi (sociali e individuali) di un sistema di protezione intellettuale, sia necessario valutare il rapporto tra i costi che chiameremo di “invenzione” e quelli che chiameremo di “copia”: quanto più alti saranno i primi, e quanto più bassi saranno i secondi, allora tanto più sarà opportuna una duratura garanzia di proprietà intellettuale; viceversa, quanto più bassi saranno i primi (e i secondi), allora tanto meno sarà necessario proteggere un inventore dalla concorrenza (cfr. W. M. Landes e R. A. Posner, The Economic Structure of Intellectual Property Law, 2003, pp. 294-297 e 312-313).

Visto che l’impatto di questi costi (specialmente quelli di “invenzione”) divergono notevolmente tra le due industrie, un sistema di protezione della proprietà intellettuale che sia identico per entrambe rischia di essere controproducente: mentre nel caso di un farmaco, come si è visto, la tutela IP sembra indispensabile, nell’ambito dei software essa può facilmente condurre (come già accaduto) a una guerra legale per ostacolare i propri concorrenti (con lo spostamento di risorse preziose dalla ricerca e sviluppo al contenzioso).

Come abbiamo avuto modo di scrivere altrove, nel campo della protezione intellettuale “one size doesn’t fit all“.

 

2. Il caso dell’industria dei software

Concentrandoci, ora, sull’industria dei software è opportuno ricordare che la Convenzione di Monaco introdusse un divieto di brevettazione che fu, pertanto, recepito dalle legislazioni dei paesi aderenti alla Convenzione (cfr. A. Vanzetti e V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, 2012, p. 391).

Fu la Corte Suprema degli Stati Uniti – con la sentenza Diamond v. Diehr (1981) – ad aprire la strada alla brevettabilità del software (così riducendo l’importanza delle leggi sul copyright); ma ancora più importante, in materia, è stata la giurisprudenza della Corte d’Appello per il Circuito Federale, a partire dalla pronuncia In re Alappat (1994): questa Corte, infatti, ha via via eliminato gran parte degli stringenti requisiti di pubblicità e dettagliate descrizioni dell’invenzione prima richieste a chi faceva domanda per la concessione di un brevetto e ampliato l’area delle tipologie di software brevettabili.

Si può dire che i mutamenti legali che hanno aperto la strada alla brevettabilità del software siano stati all’origine della straordinaria innovazione che ha contrassegnato questa industria?

«Neanche per sogno», hanno risposto due noti critici del sistema di IP: «se tutte [le] parti del complesso del software che fa funzionare un computer […] fossero state brevettate, come sarebbe sicuramente avvenuto in base alle normative attuali, il progresso del settore del software, lungi dall’essere potenziato, non avrebbe mai nemmeno avuto luogo» (così M. Boldrin e D. K. Levine, Abolire la proprietà intellettuale, 2012, pp. 21-22).

È appena il caso di notare che, però, proprio dalla Corte d’Appello per il Circuito Federale potrebbe giungere un netto cambio di marcia.

Così, almeno, sembra suggerire la lettura della concurring opinion che il giudice Mayer ha reso nel caso Intellectual Ventures I LLC v. Symantec Corp. (2016).

Per un’analisi dettagliata della sentenza, rinviamo al nostro “Proprietà intellettuale: one size doesn’t fit all“ (IBL, 2019); in questa sede è sufficiente evidenziare come questa abbia individuato il problema principale, in tema di IP applicata all’industria informatica, nell’eccessiva vaghezza dei brevetti sul software: per citare senza mediazioni di sorta proprio l’opinion del giudice Mayer, «[p]atent protection is all about boundaries».

Difatti, la proprietà intellettuale è pur sempre un diritto di proprietà, ancorché sui generis (cfr. Landes e Posner, The Economic Structure, pp. 11-36), e il potere tipicamente riconosciuto al proprietario è quello di escludere terze parti dal godimento del proprio bene (il cosiddetto ius excludendi); ma perché questo potere possa essere utilmente esercitato è necessario che ci siano confini sicuri che rendano noto ai terzi che “qualcosa” appartiene a “qualcuno”.

Lo stesso vale nel caso dell’IP: il requisito di pubblicità che è imposto a chi faccia richiesta della concessione di un brevetto non serve solo ad incrementare le conoscenze a disposizione della collettività, ma anche a segnalare con rigorosa e sufficiente precisione cosa è sottratto alla sfida della concorrenza, dimodoché gli interessati sappiano quale segmento del mercato è temporaneamente monopolizzato e quale, invece, essi possono sfruttare (così da poter «invent around» il brevetto). Ma nel caso dei diritti di privativa sui software, ciò diventa particolarmente difficile: e non solo per la vaghezza quanto all’oggetto dell’invenzione con cui le domande vengono spesso avanzate, ma anche e soprattutto perché è il concetto stesso di software a sfuggire a una sicura delimitazione.

 

3. Il software “libero” o open source

È appena il caso di ricordare, però, che nel settore dei software non tutte le imprese e gli inventori hanno scelto di ricorrere alla protezione (di natura “monopolistica”) classicamente accordata dal sistema di IP.

Anzi, proprio diversi segmenti di questa industria hanno rappresentato l’avanguardia dello sviluppo di modelli “alternativi” a quelli “tradizionali” in tema di diritto d’autore e di brevetto, nel momento in cui essi hanno rinunciato al proprio monopolio intellettuale, in favore di strumenti che favoriscono una sempre più ampia partecipazione nel processo di innovazione e scoperta.

Per far sì che questa “filosofia” trovi concreta applicazione nel mondo reale è necessaria un’adeguata struttura “giuridica”, rappresentata dal cosiddetto copyleft. La contrapposizione di quest’ultimo rispetto al classico diritto d’autore (copyright, come è noto negli ordinamenti anglosassoni) è evidente sin dal suo stesso nome: la parola “right” – che può essere tradotta tanto con “diritto”, quanto con “destra” – viene sostituita dal suo opposto semantico “left” – che può essere tradotta tanto con “ceduto”, quanto con “sinistra” – cosicché il “diritto d’autore” diventa il “permesso d’autore” e il logo di quest’ultimo è ricavato dal rovesciamento del primo (dunque, un cerchio con inscritta al suo interno una “c” orientata a sinistra anziché a destra).

L’accordo copyleft è un impegno volontario da parte dei produttori dei software finalizzato a consentire la libera circolazione dei contenuti e, allo stesso tempo, ad evitare che uno dei fruitori possa spezzare il circolo virtuoso di condivisione creando una versione “chiusa” e “proprietarizzata” del prodotto (cfr. C. Piana, Open source, software libero e altre libertà. Un’introduzione alle libertà digitali, 2018, pp. 24-25 e 39-46).

In questo modo, affidandosi a una licenza copyleft, il valore che il produttore si aspetta di ricavare non è dato dall’estrazione dei profitti del monopolista accordata dal sistema tradizionale di IP, ma dalla possibilità di poter liberamente impiegare le innovazioni e i miglioramenti che saranno conseguiti dai successivi utilizzatori (nonché potenziali concorrenti) del software che egli ha originariamente concepito. Ciò ha come effetto evidente non solo quello di «[scatenare] il grande gioco di mutua cooperazione involontaria che chiamiamo “concorrenza”» (Boldrin e Levine, Abolire, p. 27), ma anche e soprattutto di mantenere sempre aperto il canale di acquisizione delle conoscenze disperse nel processo produttivo.

 

4. Conclusioni: one size doesn’t’ fit all

Nel nostro studio, abbiamo inizialmente messo in luce che il tema più rilevante è quello del difficile bilanciamento tra i benefici e i costi che il sistema di proprietà intellettuale porta con sé: facendo riferimento al rapporto tra costi di “invenzione” e costi di “copiatura”, abbiamo dunque messo a confronto gli effetti del sistema di IP (e, in particolar modo, dell’istituto del brevetto) sulle industrie farmaceutica e dei software, notando come si prestino a rappresentare con immediatezza il delicato bilanciamento di interessi che il sistema della proprietà intellettuale cerca di raggiungere.

Da qui la domanda che ci siamo posti sull’opportunità di mantenere un sistema simile, che non distingua, cioè, tra le diverse tipologie di “invenzione”: la risposta che ci siamo dati è negativa, confortati, in questo senso, dalla migliore dottrina (vd., ad esempio, le riflessioni svolte da Posner, “Do patent and copyright law restrict competition and creativity excessively?”, in The Becker-Posner Blog; “Why There Are Too Many Patents in America”, in The Atlantic).

Se la giustificazione tradizionale per riconoscere il diritto alla brevettabilità di un’invenzione è quella di promuovere l’innovazione – incoraggiando un imprenditore a farsi carico dei costi dell’incertezza, con la promessa di poter godere indisturbato per un determinato periodo dei profitti che sarà in grado di conseguire – bisogna riconoscere che il processo e i costi di scoperta (con annesse difficoltà) variano da settore a settore, per cui anche gli incentivi devono variare da settore a settore, così da evitare che le specificità di una determinata industria possano avere l’effetto di ampliare le conseguenze negative degli svantaggi del sistema brevettuale.

In altre parole, vi sono pochi dubbi sul fatto che sia necessario ritagliare la natura e l’estensione degli strumenti legali di protezione della proprietà intellettuale sulle concrete peculiarità delle diverse industrie e delle diverse tipologie di invenzione.