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Rider: la prima condanna per caporalato digitale

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Un ‹‹regime di sopraffazione retributivo e trattamentale›› che obbligava soprattutto i rider stranieri più vulnerabili a condizioni di lavoro degradanti. È quello che emerge dalla sentenza del Tribunale di Milano del 15 ottobre 2021: la prima condanna per caporalato sui rider in Italia.

 

Caporalato sui rider: la pronuncia del Tribunale di Milano

‹‹Fare il rider è meglio di niente››. È questo quello che pensavano tanti rider del food delivery, soprattutto stranieri. Ed è per questo che finivano con l’accettare le pessime condizioni di lavoro che gli venivano proposte.

Tanto emerge dalla sentenza del 15 ottobre 2021 del Tribunale di Milano - Sez. G.I.P./G.U.P. – con la quale è stato condannato a 3 anni e 8 mesi di reclusione ed al pagamento di una multa di 30.000 euro uno dei responsabili delle società Flash Road City e FCR srl per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Si tratta della prima condanna per caporalato sui rider in Italia.

Il responsabile delle due società è stato anche condannato al pagamento di 10.000 euro in favore di ciascuno dei 44 rider costituitisi parte civile.

Si legge nella sentenza che i rider venivano assunti da queste società per poi essere destinati al lavoro presso il gruppo Uber in condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno: ‹‹è emerso, dunque, un complessivo disegno criminoso in danno dei rider, per fini di profitto, in cui sono coinvolti sia i manager Uber che i titolari/gestori delle società intermediarie››.

Secondo il giudice lo schema era il seguente: Uber metteva l’applicazione, il sistema di pagamento e il marchio al servizio di queste imprese, mentre gli intermediari si occupavano delle relazioni con i ristoranti e della gestione dei rider.

In questo modo ‹‹i rider venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione retributivo e trattamentale›› che lo stesso Tribunale di Milano aveva già rilevato in una nota pronuncia che aveva portato, nel 2020, all’amministrazione giudiziaria di Uber (Caso Uber: volevamo braccia e arrivano bici).

 

Le condizioni di lavoro dei rider

Si legge nella sentenza che i rider venivano pagati a cottimo 3 euro a consegna, indipendentemente dalla distanza da percorrere, dalle condizioni atmosferiche, dalla fascia oraria (diurna/ notturna e giorni festivi) e pertanto in modo sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato.

Inoltre venivano “derubati” delle mance lasciate dai clienti e “depauperati” delle ritenute d’acconto che venivano operate, ma non versate.

In aggiunta i rider venivano:

  • “puniti” attraverso un’arbitraria decurtazione (c.d. malus) del compenso pattuito qualora non si fossero attenuti alle disposizioni impartite;
  • sanzionati attraverso l’arbitraria sospensione dei pagamenti dovuti a fronte di asserite mancanze lavorative;
  • estromessi arbitrariamente dal circuito lavorativo di Uber attraverso il blocco dell’account a fronte di condotte lavorative sgradite.

Ma la sentenza si sofferma anche sull’inosservanza, in danno dei rider, delle norme di cui al d.lgs. n. 81/2008 in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Emerge, infatti, che i rider venivano ripetutamente messi in pericolo nella loro integrità psico-fisica poichè:

  • venivano sollecitati ad effettuare consegne anche in caso di malattia;
  • non gli venivano forniti i necessari dispositivi di protezione individuali (giubbotti catarinfrangenti, caschi da biciclette, calzature anti-infortunistiche, guanti);
  • non venivano sottoposti ad alcun tipo di sorveglianza sanitaria o accertamento di idoneità psicofisica;
  • non veniva effettuato alcun controllo sull’idoneità dei mezzi utilizzati per lo svolgimento dell’attività lavorativa;
  • gli veniva di fatto imposto l’utilizzo del telefono cellulare durante la pedalata (condotta vietata dalla normativa sul codice della strada);
  • non veniva elaborato alcun documento di valutazione del rischio.

Il giudice ha così ritenuto violate ‹‹tutte le norme contrattuali in tema di lavoro autonomo›› (formalmente svolto dai ciclofattorini)  poiché le società intermediarie intrattenevano con i rider un ‹‹rapporto di lavoro subordinato “alterato”››, controllando gli orari di lavoro dei rider, ‹‹imponendo loro, di fatto, di connettersi all’applicazione web nelle fasce orarie più richieste e performanti, per accettare qualunque consegna ed a qualsiasi distanza, soprattutto in condizioni di tempo avverse e in giorni festivi – allorquando aumentano le richieste di consegne a domicilio – con la minaccia – più volte realizzata - del blocco dell’account, indi, sostanzialmente impedendo loro di lavorare sulla piattaforma››.

 

Il reclutamento di rider stranieri

Il Tribunale evidenzia, inoltre, come la veste di apparente legalità che caratterizzava le due società che gestivano i rider abbia consentito alle stesse di reclutare, dal giugno 2018 al febbraio 2020, ‹‹una crescente manodopera costituita da numerosi migranti richiedenti asilo, per lo più dimoranti presso centri di accoglienza straordinaria, che si trovavano in condizioni di vulnerabilità sociale tale da poter richiedere un permesso di soggiorno per motivi umanitari››.

Difatti i rider reclutati per il trasporto a domicilio di prodotti alimentari provenivano in gran parte da zone conflittuali del pianeta (Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan, Bangladesh), vivevano in condizione di forte isolamento sociale e la loro vulnerabilità era ‹‹segnata da anni di guerre, povertà alimentare e lontananza dai propri affetti familiari››.

Le due società, quindi, reclutavano aspiranti rider che vivevano in una situazione di emarginazione sociale e di ‹‹fragilità sul piano di una possibile tutela dei diritti minimi›› aggravata dall'emergenza sanitaria, a seguito della quale l'utilizzo dei rider è progressivamente aumentato in ragione della crescente richiesta legata ai restringimenti della libertà di circolazione.

In ragione di tale aumento della richiesta si è proceduto, secondo il giudice, a reclutamenti a valanga e non controllati, che hanno portato a scegliere soprattutto soggetti in stato di bisogno.

 

“Caporalato grigio” e gig economy

Il lavoro “a cottimo” rappresentava ‹‹un anello fondamentale di questo sistema di sfruttamento, comandato da padroni pronti a tutto per aumentare i propri profitti››; così le due società ‹‹grazie a una consolidata metodica truffaldina›› hanno intenzionalmente sottratto ingenti quantità di denaro ai rider, del tutto ignari di tale sistema.

Senza dubbio, infatti, ‹‹le illegalità compiute hanno fatto leva generalmente su un evidente squilibrio del potere contrattuale a sfavore del rider che […] “si accontenta” di lavorare per pochi euro giornalieri perché “è meglio di niente”››.

La condizione di estrema fragilità sociale in cui vivevano molti aspiranti rider stranieri contribuiva a far sì che fossero soprattutto quest’ultimi ad essere reclutati e ad accettare le condizioni di lavoro proposte dalle due società.

La Flash Road City e la FRC srl, d’altra parte, potendo contare su un’offerta di lavoro che superava la domanda ed avendo a disposizione un’ampia platea di aspiranti rider con problemi linguistici e con documenti non sempre in regola, aveva gioco facile nell’adottare sistemi di reclutamento che riducevano al minimo i margini di guadagno dei rider.

Secondo il giudice si è quindi trattato di c.d. “caporalato grigio”, cioè forme di sfruttamento lavorativo che si celano dietro una parvenza di legalità del rapporto di lavoro e che non implicano il totale assoggettamento del lavoratore: ‹‹siffatti parametri giuridici trovano pieno riscontro nell’ambito dell’economia digitale›› dove le accertate pratiche di sfruttamento e di approfittamento dello stato di bisogno in danno dei rider sono state ‹‹sicuramente agevolate dall’assenza di una specifica regolamentazione dei rapporti di lavoro connotati dalla “smaterializzazione” e dalla gestione tramite applicazioni informatiche e digitali››.

Così la condanna per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro sui rider dimostra come il fenomeno del caporalato possa trovare spazio anche all’interno della c.d. gig economy, dando prova che il progresso tecnologico e l’impiego delle più avanzate tecnologie digitali non rappresentano un ostacolo alla sua diffusione. D’altronde se fare il rider è meglio di niente...