x

x

Sicurezza sul lavoro: no al concorso di colpa del lavoratore in assenza di apposite precauzioni

Corte di Cassazione Penale – Sezione Terza – sentenza n. 37383 del 14 ottobre 2021
Palo Bianco, Donnalucata - Scicli
Ph. Simona Loprete / Palo Bianco, Donnalucata - Scicli

La vicenda

La vicenda giudiziale che ci occupa trae spunto dall’evento mortale occorso al lavoratore che, entrato nel raggio di azione di una gru manovrata dal suo datore di lavoro per salire sul cassone del camion dove la stessa gru stava prelevando del materiale ferroso, veniva attinto, e schiacciato, dal mezzo meccanico mentre questo compiva un'improvvisa rotazione.

La sentenza di merito, dunque, che accertava e dichiarava la penale responsabilità del datore di lavoro, oltretutto anche autore materiale dell’evento lesivo, evidenziava altresì come alcuna doverosa cautela fosse stata dallo stesso imputato adottata per scongiurare quel prevedibile rischio, come invece prescritto nel DVR, dal momento che risultava che l'area di manovra della gru non fosse stata transennata per impedire l'avvicinamento di persone alla stessa, né che fosse stata prevista l’apposita cartellonistica di prevenzione e segnalazione del pericolo né, ancora, che il mezzo meccanico fosse provvisto di dispositivi sonori che avvertissero del rischio di eccessivo avvicinamento, come pure di specchietto retrovisore che consentisse al manovratore di tenere sotto controllo l'area alle sue spalle, liberamente accessibile dai lavoratori.

Peraltro, la sentenza del Giudice di appello veniva impugnata in quanto, a fronte di una gravissima responsabilità del datore di lavoro e della accertata esclusione dell'abnormità del comportamento del lavoratore, era stato riconosciuto in capo a questi un concorso di colpa sostanzialmente paritario per cui il giudice del rinvio aveva opportunamente rivalutato questo specifico punto escludendo, con argomentazioni di merito che la Corte Suprema ha ritenuto non sindacabili dinanzi a sé, qualsivoglia responsabilità del dipendente.

Il datore di lavoro, dunque, ricorreva in cassazione al fine di ottenere una pronuncia di rivisitazione del giudizio di esclusione della colpevolezza in capo al dipendente deceduto, al fine di ottenere una diminuzione della pena comminatagli.

 

La decisione

La Corte di Cassazione, a conferma del giudizio di responsabilità del datore di lavoro espresso anche dal Giudice di merito e della fondatezza della decisione da quest’ultimo adottata in ordine all’esclusione del concorso di colpa del lavoratore deceduto nella causazione dell’evento mortale, rigettava l’impugnativa su detto specifico punto condannando altresì l’imputato alle spese di lite nei confronti della parte civile per la fase di legittimità.

 

L’importante presa di posizione della Corte in merito alla colpa del lavoratore

Una delle questioni più dibattute del più ampio sistema normativo in materia di Sicurezza sul lavoro, non a caso trattata dalla Corte Suprema anche con la sentenza oggi in commento, riguarda l’individuazione dei presupposti, e degli elementi di fatto e probatori, che possano sostanziare un eventuale concorso di colpa del lavoratore nella causazione del fatto lesivo.

I Giudici di legittimità, infatti, tornano ad occuparsi del problema in parola che ha, come è noto, un rilevante impatto giuridico e sostanziale sulle conseguenze del fatto lesivo poiché l’eventuale correponsabilità del lavoratore determina non solo una correlativa diminuzione del quantum del risarcimento generalmente posto a carico dell’impresa o dei delegati del datore di lavoro ritenuti colpevoli ai sensi dell’art. 1227 comma 1 c.c. (in primis il Coordinatore per la esecuzione dei lavori – CSE - o, soprattutto, il Responsabile del servizio di prevenzione e protezione - RSPP – si veda a tale ultimo proposito in questa Rivista, 16 agosto 2021, la mia nota “Infortunio sul lavoro: il RSPP è sempre il garante della prevenzione in azienda”), ma altresì una corrispondente diminuzione della pena qualora l’evento integri gli estremi di un reato, per non parlare anche della sua possibile incidenza sulle sanzioni amministrative comminabili da parte dei servizi di prevenzione delle ASL.

La posizione, comunque, assunta dagli Ermellini è per l’ennesima volta chiara e perentoria: “va qui richiamato il principio giusta il quale in tema di infortuni sul lavoro non è configurabile il concorso di colpa del lavoratore allorquando le disposizioni di sicurezza dettate dal datore di lavoro e non rispettate dal dipendente siano di per sé illegali e contrarie ad ogni regola di prudenza (Sez. 4, n. 36227 del 26/03/2014, Breda e aa., Rv. 259767, relativa a fattispecie di lesioni personali patite da un operaio a cui il datore di lavoro faceva effettuare attività di pulizia dei rulli di un macchinario, con gli organi in movimento, pur indicandogli alcune cautele da osservare) “.

In definitiva, come possiamo facilmente notare, si tratta dell’applicazione pratica del più generale principio di diritto che riguarda la validità e l’efficacia delle disposizioni impartite dal datore di lavoro, o anche semplicemente da un superiore gerarchico in un rapporto di lavoro subordinato, qualora esse assumano un connotato di illegalità e siano, pertanto, suscettibili di giustificato mancato loro rispetto.

In questo contesto normativo, ancora più delicato per le intuibili conseguenze personali che ne derivano, questo principio assurge a norma imprescindibile di regolamentazione dei rapporti di lavoro, fondamentale nel nostro sistema di diritto per ovviare a tutte quelle direttive ed a quegli ordini, talvolta illegittimi, che il datore di lavoro impartisce ai propri dipendenti forte, purtroppo, della debolezza contrattuale di questi e della propria posizione di supremazia che gli deriva da un mercato del lavoro inevitabilmente proteso al profitto ed al raggiungimento degli obiettivi aziendali.  

In definitiva, se in linea generale l’ordine illegittimo impartito al dipendente è passibile di mancata sua esecuzione, nella pratica del mondo del lavoro è frequente il verificarsi di situazioni di danno conseguenti proprio al puntuale rispetto di tali ordini, nelle quali dunque l’eventuale imprudenza del lavoratore, in quanto indotta e non volontaria, non assume il valore di “causa” dell’infortunio ma solo di mera “occasione” di questo, con conseguente esclusione di responsabilità in capo al dipendente (Cass. Civ. n. 17163 del 2017).

È fin troppo evidente, infatti, che non si possa pretendere che il lavoratore verifichi la pericolosità delle direttive di servizio che gli vengano impartite, né che lo stesso possa in alcun modo assumersene il rischio liberando in tal modo il datore di lavoro da una responsabilità organizzativa e prevenzionale che compete sempre e soltanto a lui.

Non ci meraviglia, pertanto, che nel caso sottoposto oggi alla nostra attenzione la Corte Suprema abbia rilevato, ed accertato in fatto, come nell’azienda nel cui luogo di lavoro si sia verificato questo ennesimo grave evento mortale le cautele, sebbene previste dal documento di valutazione dei rischi per scongiurare proprio infortuni di tal genere, fossero sostanzialmente ignorate dal datore di lavoro.

È piuttosto significativo, ed emblematico della forza dirompente della pronuncia della Corte in materia di infortuni sul lavoro, il fatto che gli Ermellini abbiano testualmente affermato che non si può certo pretendere di ravvisare la colpa del lavoratore nel non avere questi prudenzialmente osservato misure di sicurezza che avrebbe dovuto conoscere in forza dell'esperienza, ma che il datore di lavoro nei fatti non applicava e di cui neppure raccomandava o esigeva il rispetto”.

La dicotomia, dunque, tra prassi aziendale, evincibile chiaramente dall’uso del termine “esperienza” da parte della Corte, e prescrizioni organizzative e di sicurezza effettivamente previste e soprattutto applicate e rispettate, vede ovviamente primeggiare queste ultime, a baluardo di un sistema di garanzia della salute e della integrità fisica e morale dei lavoratori che trova il suo primo fondamento giuridico nella nostra Costituzione (art. artt. 32, 35, 36 e 41) (si veda, in proposito, F. Ferdani, “Il datore di lavoro quale “garante” della sicurezza nei luoghi di lavoro”, in Rivista degli infortuni e delle malattie professionali, fasc. 2/2010, INAIL, p. 241-248) e, di seguito, nelle norme civilistiche (art.2087 c.c. in primis) e tecniche (D. Lgs. n. 81 del 09 aprile 2008), anche di respiro internazionale, appositamente emesse e nel tempo integrate e quasi “cesellate” in relazione all’evoluzione dinamica del mondo del lavoro e dell’organizzazione tecnologica.   

I Giudici di legittimità, pertanto, correttamente aggiungono che “Va, pertanto, ribadito che, ove non si tratti di comportamento del tutto imprevedibile e opinabile e tale, dunque, da presentare i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive organizzative ricevute, nessuna efficacia causale può essere attribuita alla condotta del lavoratore infortunato che eventualmente abbia dato occasione all'evento, quando questa sia da ricondursi alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, avrebbero neutralizzato il rischio del comportamento del lavoratore (Sez. 4, n. 23729 del 19/04/2005, Spinosa e a., Rv. 231736), poiché le norme di prevenzione mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia (Sez. 4, n. 3455 del 03/11/2004, dep. 2005, Volpi, Rv. 230770).”

La chiarezza espositiva di tali principi è tale da non poter generare dubbi di sorta in chi legge questi illuminanti passaggi testuali della sentenza, confermata oltretutto dal puntuale riferimento che i Giudici di legittimità fanno agli elementi di fatto e probatori raccolti nella fase dibattimentale e posti a base della sentenza del Giudice di merito e dai quali se emerge certamente l’imprudenza del lavoratore nella sua manovra di raggiungimento del camion, al contempo se ne rileva l’irrilevanza  nella complessiva valutazione della sua responsabilità proprio a causa della mancata adozione, da parte del datore di lavoro, di quelle cautele e di quelle prescrizioni organizzative che avrebbero dovuto avvertire il dipendente della sussistenza di possibili rischi e l’imposizione a carico dello stesso di comportamenti attenti e rigorosi.

È questa, del resto, l’ennesima conferma di quell’orientamento della Corte che vede la responsabilità esclusiva del datore di lavoro anche nei casi in cui, appunto, la condotta del lavoratore sia imprudente, negligente, disattenta e che la esclude solo in quanto l’atto posto in essere dal dipendente sia abnorme ed eccezionale rispetto alle prescrizioni ed alle norme di sicurezza comunque adottate da esso datore di lavoro.

In proposito ci si riporta alla ormai nota ordinanza della Corte Suprema, Sezione Sesta – Sottosezione Terza, n. 8988 del 15 maggio 2020 che costituisce la pietra miliare dell’intervento dei Giudici di legittimità sul tema ed, in particolare, al principio di diritto con la stessa enunciato: “Nel caso di infortunio sul lavoro, deve escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell'art. 1227, comma primo, c.c., quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza; oppure abbia egli stesso impartito l'ordine, nell'esecuzione puntuale del quale si sia verificato l'infortunio; od ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi; ricorrendo tali ipotesi, l'eventuale condotta imprudente della vittima degrada a mera occasione dell'infortunio, ed è perciò giuridicamente irrilevante”.

In conclusione, dunque, nel solco di una giurisprudenza di legittimità ormai consolidata, possiamo certamente affermare che solo in mancanza di detti specifici presupposti possa ritenersi sussistente quel “rischio elettivo” che delegittima il datore di lavoro da responsabile del fatto lesivo, essendo questo determinato unicamente dalla scelta volontaria, arbitraria e del tutto soggettiva posta in essere dal lavoratore per soddisfare bisogni e/o necessità propri, senza che la stessa abbia alcuna diretta connessione con la sua attività lavorativa ed anzi prescindendo del tutto da questa, con conseguente inapplicabilità della tutela risarcitoria o assicurativa in suo favore per la intervenuta interruzione del nesso causale tra la prestazione e l’attività assicurata (Cass. Civ. Sent n. 17917 del 2017 e sent. n. 10319 del 2017).