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Studiare per il concorso in magistratura (parte I)

A Michele Santoro

senza il quale non avrei conosciuto l’Amicizia

Questo scritto che viene proposto diviso a puntate sul sito Filodiritto è un invito alla lettura ed alla riflessione intorno all’ampio tema degli esami per le professioni legali e del concorso in magistratura in particolare.

Non è senza dubbio la pietra filosofale, capace di trovare soluzione a problemi soggettivi d’approccio al sistema-concorso/esame (esercizio che va comunque fatto seriamente), ma è un indizio sui linguaggi e sulle necessità d’approcci multipli, multidisciplinari, dei quali oggi le professioni legali necessitano.

Il lavoro è stato certosino. È nato dal “materiale” ci permettiamo di asserire “informe” (sostanzialmente sentenze di Cassazione) di una nota scuola di perfezionamento, ed è monco di Diritto amministrativo, perché convinzione personale muove al suggerimento verso la lettura di manuali più professionalizzanti della materia.

Per professionalizzanti intendo ad opera di colleghi professionisti, appunto, quali: avvocati, notai e magistrati; i soli aventi quell’approccio pratico e contemporaneamente sistemico, capace di entrare nel vivo dei discorsi giuridici.

In più, il Diritto amministrativo sarebbe stato troppo ampio per essere contenuto da un timone ideale, come quello qui proposto, e si è preferito riportare un unico argomento, uno dei più storici, al fine di rendere palese la necessità di acquisizione del precipuo andamento linguistico proprio, anche perché storicamente stratificato, di questa complessa ed affascinante materia-Pangea.

Un unico appunto personale: all’università, in sede d’esame, il professore mi fece presente che mancava qualcosa, si sentiva l’assenza di trasporto per questa materia. Ma mi preannunciò, lasciandomi all’epoca più che scettica, che le perplessità d’approccio avrebbero potuto condurre, in età adulta, ad un ripensamento. Ed eccomi qui, a proporre questo scritto, con già alle spalle una piccola operetta proprio di Diritto amministrativo, il più vero, quello che indaga i rapporti tra autorità e libertà, detto in termini socio-filosofici, o attività autoritativa ed attività privata, in termini più prettamente tecnici.

Penso che continuerò. Qualcosa mi dice che se non troverò risposte consone all’interpretazione del sistema, in vista delle prove d’esame, senz’altro avrò affrontato studi più edificanti dal punto di vista personale, e sarò diventata più brava, il che innalza senza dubbio l’autostima.

Un appunto, scaturente dalle riflessioni interne agli Ordini professionali, e dall’associazionismo di specie in particolare, mi ha condotta a proporre il sempre attualissimo pensiero di re Salomone, emblema della cultura in generale e della terzietà del giudice in particolare.

Cos’altro dirvi, se non che la lettura di ogni libro conduce ad un pensiero personale, e l’utilità è un concetto più intimo di quanto si possa immaginare. Pertanto, sarò fiera del lavoro se qualcuno mi dirà che è servito, sia pure ad altro rispetto al suo scopo-mera divulgazione, di quanto incamerato da un collega che gentilmente mi regalò il suo materiale di studi, e che è oggi divenuto questo diario di bordo, da leggere fra le righe, per interrogarsi sulla cultura in generale e sul mondo-giustizia in particolare.

Chissà – dico un po’ presuntuosamente – se un giorno qualche università si renderà conto del valore metagiuridico, bussola per il professionista legale, sotteso a quest’opera, e deciderà di pubblicarla in cartaceo.

Per ora, ringrazio di cuore la dottoressa Celia di Filodiritto, per l’accoglienza su questo prestigiosissimo sito, dato che l’orgoglio che mi lega all’opera è più forte del desiderio di celarla al lettore.

Politicamente credo che sia meglio divulgare e condividere le scoperte e gli studi, piuttosto che esserne gelosi custodi inconsistenti, e pertanto buona lettura a tutti, anche a quelli che non la pensano come noi, e “furbescamente” tesoreggiano soltanto per se stessi.

 

1. Massime e leggi

La necessità d’inclusione delle leggi scientifiche nella nozione di massime è tendenza dottrinaria; anche se massima e scienza dispiegano una differenza strutturale, come due buoni vestiti indossati dalla stessa modella.

Tale diversità è la peculiarità delle leggi scientifiche d’essere inserite «in» e giustificate «da» un sistema d’asserti generalmente accertato; come in una sfilata d’alta moda.

Le massime non sono sistematizzabili e possono essere utilizzate, costruite, recepite dall’organo giudicante, richiamandosi al bagaglio delle proprie osservazioni.

Mentre, le leggi scientifiche[1] non consentono di trasformare empirismo in scienza. Cosicché, per il giudice penale soprattutto, il vincolo d’osservanza delle stesse troverà fondamento costituzionale[2].

Sostenere il contrario implica violazione del principio di tassatività[3].

2. Viaggio all’interno della Giustizia

Non è compito dedicato al solo giudice costituzionale cogliere/non precorrere il significato del dettato formale, se all’Università degli Studi di Bari il professor Costantino Michele, al principiare d’ogni lezione in più che rigoroso dialetto barese, ci faceva porre, dopo comiziata lettura d’ogni norma[4], la seguente domanda: «A cè serv»[5].

La norma, processuale o sostanziale, volge ad uno scopo, se non proprio ad un fine. Precisiamo: è con la frequentazione del diritto che i neonati giuristi imparano l’imperfetta simmetria scopo-processo civile, fine-processo penale. Ovviamente, entrambi dichiarano l’obiettivo della ricerca della verità[6].

Partendo dall’illuminismo, si comincia a discutere della necessità d’istituzionalizzare poteri, facoltà, diritti e doveri; e tale e tanta filosofia condurrà alle Costituzioni[7]. E, nello Stato di diritto, l’unica forma di verità diventa la certezza, quale risultato del contraddittorio processuale tra tesi opposte, avanzate da posizioni paritarie[8].

Due, i punti fondanti questo sistema:

1)     per conoscere la realtà, bisogna confidare nel criterio di attendibilità, secondo un modello processuale, che da inquisitorio si trasforma in accusatorio[9];

2)     per un giudicante a sola conoscenza del capo d’imputazione, il contraddittorio diviene l’anima del processo[10].

Il giudice, monocratico o collegiale, assume l’aria sacrale tributata al saggio vate conoscitore delle massime[11].

Nel linguaggio comune, il termine generalizzazione è sinonimo di pensiero negativo, preconcetto, stupidità. Ed i buoni insegnanti delle elementari provano ad allontanare i bambini da pratiche massificanti. Delle due l’una: o la cultura del rispetto risiede in scienze umane[12] diverse dal diritto, oppure esso partecipa del costrutto conoscitivo insieme ad altri saperi – più o meno empirici – e quindi l’effettuata generalizzazione con la massima, è dolorosa indagine conoscitiva, volta più a staticizzare ed omogeneizzare che ad attuare un teorema d’intolleranza istituzionalizzato[13]. Il giudice legge tecnicamente una serie di vocaboli-comandi. E la generalizzazione effettuata con la massima, individua caratteri “comuni” presupposti in eventi passati, assunti come dati di partenza, con esclusione o svalutazione dei casi che potrebbero smentire siffatta estensione. Esse gli evitano l’accusa di oscurantismo, a patto che si accetti l’eventualità che l’una possibile possa essere confutata da almeno un’opposta.

Per il linguaggio analitico, l’astrazione è nulla se la forza esplicata dalla massima non supera quella prodotta dalla somma dei casi precedentemente considerati[14].

Il dialogo delle parti[15] subisce, nella mente del giudice, una scissione chimica, più fusioni date dal metodo catalizzatore della funzione catartica delle massime, che bussano incendiarie al neurone attento, dichiarando il linguaggio esplicativo dell’interprete[16]. Le leggi logiche reggono conoscenze intrinsecamente universali, che non possono essere disapplicate nel corso dello svolgimento processuale; penalità l’incorrere del giudice nell’incomunicabilità delle decisioni[17].

Sorto il paradosso delle scienze umane in generale, e delle giuridiche in particolare, la tematica concernente le leggi scientifiche risulta la meno lontana da quella relativa alla massima d’esperienza[18].

3. Fatti notori e massime

Nella considerazione degli studiosi, fatti notori e massime d’esperienza[19], sono accostati come accadimenti individuali, storicamente precisati/precisabili; e non ipotizzate regole generali[20].

Quando si rivelerà che notorio e vero, nonostante la loro tendenziale coincidenza, sono da tenersi distinti, non si esiterà nel sostenere che la notorietà non potrà evitare l’acquisizione probatoria tesa alla verifica del fatto.

Una pretesa notorietà non consente al giudice l’utilizzo del fatto dato al di fuori della sua enunciazione giudiziale. Se tanto accadesse, cadrebbe la garanzia dell’esercizio effettivo del contraddittorio, vietando alle parti, nell’occasione basica del processo, di sollevare eventuali obiezioni in argomento[21].

4. Indizi

Saputo che le massime svolgono quella funzione topico-euristica, che assume importanza particolare nella risoluzione dell’ostica questione della discriminazione, nell’ambito delle prove in senso lato[22], tra prove in senso stretto e indizi, distinguiamo l’elemento dal risultato di prova.

Il primo è rappresentato da ciò che, introdotto nel procedimento, può essere utilizzato come fondamento dell’attività inferenziale[23]. Il secondo costituisce l’enunciato, ottenuto quale esito del procedimento d’inferenza compiuto a partire dall’elemento.

Prova rappresentativa e critica sono connesse, ma vanno distinte[24]. Rileva il differente rapporto tra elemento e risultato[25].

Nella prova critica, il delineato dall’elemento è palesemente diverso dal risultato; da confrontare con l’affermazione probatoria[26].

Supposta come positivamente superata la questione relativa alla valutazione di fatti secondari[27], gli studiosi immaginano l’oggetto di prova costituito dall’incontro d’imputato e vittima all’ora T del delitto e nell’abitazione X.

Un teste depone d’essersi allontanato da tale luogo in quel periodo temporale, mentre imputato e vittima si trattengono. “Automaticamente” appare l’inferenza di un risultato conducente, nel momento decisorio, alla verifica dell’iniziale formazione probatoria. Altro teste dichiara che l’imputato si trova in diverso luogo Y nello stesso T - momento. Questo elemento di prova dovrebbe essere collegato all’indubitabile principio che nega l’ubiquità, prima di poter pervenire ad un risultato idoneo[28].

5. Thema

La distinzione tra prova in senso stretto[29] ed indizio/presunzione semplice, concerne la modalità logica della conclusione successiva fondata sull’elemento di prova.

Ambedue vengono impiegati per la verifica di un elemento fattuale integrativo del thema probandum, ma soltanto nella prova il passaggio da elemento a risultato è univocamente determinato.

La conclusione inferenziale si ottiene per l’utilizzo esclusivo di leggi logiche/scientifiche non probabilistiche; mentre nell’indizio vi è applicazione delle massime[30], cosicché, per quest’ultimo, vi è carenza di validità logica[31].

6. Procedimento intellettivo

Linguisticamente distinguiamo premesse, sviluppi, conclusioni del procedimento intellettivo del giudice.

In questa prospettiva, l’elemento di prova in senso lato, costituisce il genus al cui interno collocare le species dei fattori[32] probatorio e indirizzario/presuntivo, a seconda che si riferisca alla prova in senso stretto o all’indizio[33].

Il momento più impegnativo consta nell’individuare, tra quanto acquisito in sede istruttoria, ciò che è più adeguato a fondare la decisione.

La disamina del giudizio di concludenza verte su idoneità e sufficienza anche dei fatti secondari e dei conseguenti risultati con relative inferenze.

La prova come strumento gnoseologico diventa epilogo conoscitivo: conclusione posta a base della ricostruzione giuridica del fatto[34].

7. Dubbio

Le considerazioni esposte riconoscono fondamento alle tesi di chi ritiene la ricostruzione fattuale, operata in sede giudiziaria, soggetta al dubbio.

Ne deriva la convinzione dell’impossibile discriminazione tra prova in senso stretto ed indizio.

Il possibile discrimine emerge concentrando l’attenzione non su quanto ottenuto attraverso il procedimento probatorio, ma sulla disamina del procedimento intellettivo del giudice, dopo l’individuazione delle premesse.

Quando si pone in forse l’affidabilità di un teste oculare o l’autenticità di un documento, si dice che la decisione che ne facesse uso sarebbe fondata su prove ingannevoli o false, e non su indizi, neppure accennandosi al «processo indiziario»[35].

8. La missione

Secondo la concezione del positivismo giuridico, la missione del giudice si esaurisce nell’applicazione meccanica della legge scritta[36]; riducendosi l’interpretazione ad attività tecnica di accertamento della norma e ricognizione acritica del legislatore “re”.

Quest’impostazione trova espressione nello stile espositivo della sentenza e riflette la logica del processo giurisdizionale, strutturato come sillogismo:

a)     la premessa maggiore è la norma (fattispecie astratta);

b)    la premessa minore è il fatto (fattispecie concreta);

c)     la conclusione è formata nel dispositivo.

In sintesi, la soluzione della controversia segue la direttrice di ridurre il fatto alla norma. Tuttavia, in qualunque modo si definisca la sentenza e si risolva la questione, se sia atto d’intelligenza o volontà, non si potrà mai negare che in essa è contenuto un giudizio logico[37].

Con l’affermazione dell’esistenza di una premessa generale (propositio major), con l’asserzione che il caso concreto rientra/non rientra tra quelli contemplati dalla stessa (propositio minor), e con la deduzione del verificarsi in concreto (conclusione) dell’effetto giuridico posto in astratto dalla norma, nella mente del giudice è compiuto il sillogismo giudiziario[38].

Oggi, l’illusione del giudice “bocca della legge” è entrata in crisi, risultando del tutto abbandonata la rassicurante identificazione del diritto con la legge scritta e, di conseguenza, l’utopia ottocentesca di una legge che non necessiti d’interpretazione[39].

9. La conclusione

Il sillogismo non è rilevazione dell’esistente[40], ma ragionamento sofisticato sulle fonti del diritto e sugli elementi della vicenda concreta[41]. Esso non dice nulla sull’effettivo ragionamento seguito dal giudice per giungere alla conclusione.

Questa è contenuta nelle premesse e da esse dipende. Avrà, necessariamente, lo stesso grado di verità ed attendibilità di quelle[42]. Sarà credibile[43] ove corretta l’individuazione della premessa maggiore.

Le priorità formali del sillogismo garantiscono la validità della deduzione ed il valore dimostrativo dell’operazione, ma è nella ricostruzione delle premesse che si sviluppa il ragionamento[44].

La norma non data dal legislatore e non trovata dall’interprete è costantemente ricercata nel momento applicativo[45].

 

[1] Indipendenti dal caso concreto oggetto d’indagine.

[2] Tali leggi assumono quella determinatezza socio-storica capace di fungere da «premesse certe» per il giudice; che partecipa del suo tempo, della sua società e storia, con decisioni che debbono esserne specchio.

[3] Articolo 25 comma 2 Costituzione.

[4] In un giuoco di maschere che pareva più volto al cogitare filosofico che alla proposizione giuridica sul fatto.

[5] A cosa serve.

[6] La normazione non può proporsi la ricerca della verità assoluta (di pertinenza soltanto del divino), ma quella della certezza processuale. Per questo assunto, consiglierei di frequentare il diritto prima di affrontare un esame che contempli  la conoscenza dello stesso. Frequentare il diritto significa maneggiare la materia, considerarne la plasmabilità. Un buon metodo è quello della pratica legale, sia pur limitata a quanto trattato dal dominus di referenza. Anche la politica, fatta bene, quando conduca al buon amministrare, aiuta. E comunque, l’abito mentale del giurista è sempre il pensiero iuris prudente, senza cadere nell’ossessione conoscitiva. Praticare è anche, e soprattutto, cogitare ed essere. Ed il Cogitare precede sempre l’Essere. Ma l’Essere – ne sapeva qualcosa Cartesio – non esiste senza Pensiero. Il già pensato plasma e muta.

[7] La Costituzione porta seco il corpo della Società, nutrito dalle vene della democrazia, quale capacità/pienezza di diritti. Diritti che necessitano di certezza e, quando posti in forse, sono discussi sotto l’egida del paritario contraddittorio delle parti. Costituire è come creare: equivalente normativo dello strutturarsi anatomico.

[8] L’avvocato, il penalista soprattutto, troverà molta disparità tra parti, tra accusa e difesa. È il suo lavoro. Un lavoro di civiltà giuridica, che non possiamo approfondire in questo testo di (auto)preparazione ad un concorso dalle apparenti linee teoriche. L’impostazione ideologica innova la procedura, trasformando lo stesso diritto sostanziale, laicizzandolo sull’idea (non sappiamo quanto consapevolezza) della fallacia umana, che conosce la verità. Inquietante assunto, per un giurista che prenda atto dell’esser servo dei propri umani limiti, ma anche perno sul quale poggiare le statue dei criteri e modelli conoscitivi.

[9] Il modello accusatorio si caratterizza per la presenza di tre elementi essenziali: contraddittorio, parità processuale delle parti, terzietà del giudice.

[10] Passaggi cruciali percorrono le sinapsi: ammissione, formazione, discussione della/delle/sulla/sulle prova/e. L’ammissione dà lustro alla difesa. È l’essenza di quella funzione, che indica e presenta prove, enunciandone pertinenza e rilevanza all’Ignaro Terzo. Il momento più complesso del processo è quello della formazione delle prove. Precipuamente, quello dei fuochi crociati, della battaglia delle verità: l’esame incrociato. Il requirente sarà un soldato come e quanto l’avvocato. Il giudice farà il sovrumano “sforzo” d’avere scienza e coscienza di dirigere l’incontro, ma anche quella di ricostruire il fatto.

[11] Il legislatore ha dichiarato che il 192 comma 1 procedura penale, richiede la comparsa in motivazione dei criteri di valutazione: le massime utilizzate per vagliare il fondamento della prova. Si ritiene impossibile negare l’impiego di dette forbici senza precludere al giudicante ogni riflessione e scelta.

[12] Antropologia, letteratura, pedagogia.

[13] Il diritto si serve della propria lingua di referenza, dando ai suoi termini significati scevri dall’eticamente buono o cattivo. I termini assumono un significato altro ed alto, libero dalla sovrastruttura “politica”. La parola ritorna limpida, chiara, scorrevole, sterilizzata come bisturi. È strumento d’ordine, spiegazione, scoperta, individuazione.

[14] È non-idonea a fondare senza incertezza la conclusione inferenziale concernente un evento che ha il carattere di novità. Qualora si sostenesse che la nuova circostanza indagata sarebbe inclusa nella massima, si presupporrebbe l’oggetto dell’inferenza deduttiva, l’id quod semper necesse. Tuttavia, la massima non può trasformare l’id quod plerumque accidit nell’id quod semper necesse, il cui elemento sotto esame costituisce premessa minore. La conclusione si caratterizza per ipoteticità congetturale, carente d’univocità e sempre falsificabile. Il ragionamento a struttura sillogistica è aristotelicamente distinto in dialettica e retorica, la cui conclusione fondata su premesse probabili è altrettanto probabile.

[15] Preposizioni e perorazioni.

[16] La funzione topico-euristica consente un pluralismo culturale, ed il ricorso a diverse prospettive reputate significative per l’indagine. Una serie di tòpoi utilizzabili quali premesse per la soluzione di svariate problematiche sembra logica, ma è scienza umana al limitar delle matematiche. E la questione relativa all’uso delle leggi logiche in ambito giudiziario, trasmoda e differisce profondamente dai costrutti esperenziali.

[17] Antico derma processual-sostanziale è il rilievo che la contraddittorietà interna della motivazione, oppure tra motivazione e dispositivo, o tra capi di una medesima sentenza, rendono incomprensibile il provvedimento per la coesistenza di argomentazioni/comandi incompatibili.

[18] L’impiego di leggi probabilistiche, se effettuato in sede di valutazione concernente l’attendibilità di un’ipotesi ricostruttiva della regiudicanda in base agli elementi gnoseologici processualmente disponibili, condurrebbe il giudice all’uso di calcoli numerici analoghi a quelli utilizzati nei sistemi di prova legale, e non offrirebbe garanzia conoscitiva sostanzialmente differente da quella originata dalla massima d’esperienza. Da non sottovalutare che gli stessi argomenti impiegati per contestare l’assolutezza di una massima, potrebbero essere utilizzati anche nei confronti di una legge scientifica universale, dato che l’ultima istanza d’entrambe poggia su un procedimento induttivo, concluso con la generalizzazione dei dati empirici.

[19] Senza reputare necessario esaminare il problema relativo all’esatta nozione di notorietà ed il suo collegamento con quello di comune e media cultura. E, se non siamo propriamente degli studiosi, sicuramente, dovendo prepararci al concorso/esame, siamo almeno studenti, e i temi preferiamo accorparli in vista di risultato proficuo per la memoria e per il ragionamento intorno alle scatole sinottiche che il cervello crea in prospettiva del finimondo emotivo che ci attende. A tal fine, rammentiamo che ambedue i termini sono universalmente considerati alla stregua di eccezioni al divieto imposto al giudice di utilizzo della propria “scienza privata”.

[20] Il cervello avrebbe meglio compreso una definizione-differenziazione circa “regole generalizzanti”, piuttosto che “generali”, foriere di lunghe possibili tematizzazioni, ma così è nell’ambito di un’impostazione sillogistica della questione, che vuole dare un posto alle massime nella premessa maggiore e ai fatti notori nella premessa minore.

[21] Studiosi a parte, una minima nozione di fatto notorio va data, per livellare il ragionamento e l’intento di summa. Esso dovrebbe concernere l’affermazione/negazione di un evento, la cui fondatezza può essere riconosciuta con maggior facilità e più brevemente che per le altre osservazioni giudizialmente rilevanti.

[22] Sono tali tutti gli strumenti gnoseologici che consentono di accertare la verità di uno degli enunciati fattuali integranti il thema probandum.

[23] Dichiarazione testimoniale, caratteristica dell’oggetto sequestrato, espressione contenuta in un documento.

[24] Esempio: l’attività critica che si sviluppa sulla base di una testimonianza.

[25] L’inferenza dell’uno all’altro appare automatica.

[26] In questo caso, al risultato si perviene attraverso una più consapevole e manifesta mediazione intellettuale.

[27] Insieme costituito da elementi, fonti, mezzi di prova, fatti notori implicati nell’esperimento probatorio cui per ipotesi ci si riferisce.

[28] In relazione al medesimo oggetto di prova, concernente l’incontro dell’imputato con la vittima all’ora del delitto T e nell’abitazione X, può ipotizzarsi che un teste dichiari di aver visto l’imputato posteggiare la propria vettura nell’autorimessa pertinente al suddetto immobile in tale lasso di tempo. L’elemento così conseguito non sarebbe però idoneo a rendere certa l’inferenza conducente ad un risultato che confermi l’effettuazione dell’incontro. Si saprebbe solo che l’imputato era nei pressi della casa in cui è stato commesso il delitto, ma i motivi atti a giustificare tale evento potrebbero essere innumerevoli. La massima secondo cui «chi posteggia la propria autovettura nella rimessa altrui ha normalmente appuntamento col proprietario della stessa» potrebbe essere smentita da altra, per la quale «la disponibilità dell’autorimessa altrui è normalmente concessa a chi deve effettuare, senza difficoltà di posteggio, una commissione d’interesse comune nel palazzo di fronte». Se, per differenziare prova rappresentativa e prova critica, ci si riferisce ad una diversa complessità della mediazione logica, questo rilievo non è sufficiente per individuare la differente qualità dell’attività intellettuale impiegata nell’ipotesi esemplificatrice di ciò che viene denominato indirizzo o presunzione semplice. Rispetto ala prova rappresentativa, si è in presenza non soltanto di un mutamento della struttura cognitiva, ma di una variazione della natura gnoseologica, che consente di discriminare l’ipotesi dell’indizio dalle precedenti.

[29] Tanto critica quanto rappresentativa.

[30] Cui vanno assimilate le leggi scientifiche probabilistiche.

[31] I termini della questione non vengono mutati dall’inserimento nel dibattito giuridico della nozione di «abolizione», intesa come forma di ragionamento che, noto l’effetto, consente di risalire alla causa. Si fruisce del passaggio intermedio, costituito dalla mera generalizzazione empirica, cioè da una massima del tipo «Y normalmente è conseguenza soltanto di X»; mentre, durante l’esperimento probatorio, non si può ancora sapere se si otterrà una prova in senso stretto (critica o rappresentativa) o un indizio. Tale incertezza non sussiste più, una volta conseguito l’elemento di prova. Fissata la premessa della relativa inferenza, si è in grado di definire come necessario, o soltanto possibile, il risultato di prova.

[32] Qui «fattori» è sinonimo di «elementi».

[33] Così come nell’ambito del genus,  rappresentato dal risultato di prova (in senso stretto), si differenziano le species del risultato probatorio e del risultato indiziario (presuntivo) quali conseguenze, rispettivamente, di un’inferenza probatoria o indiziaria (presuntiva).

[34] Una volta accertata affidabilità del testimone, attendibilità di un documento, attendibilità dell’esperimento giudiziale, sufficiente chiarezza dell’impronta lasciata sull’oggetto sequestrato, come pure la fondatezza dell’inferenza sul passaggio dell’elemento preso in considerazione, al risultato e la compatibilità di quest’ultimo con quelli ottenuti da altre acquisizioni probatorie, si potrà osservare che tali conclusioni sono costituite da quello stesso enunciato che, al livello della singola struttura probatoria, integra il risultato; positivamente valutato secondo il criterio della corretta efficacia persuasiva.

Per adempiere il proprio compito valutativo, l’organo procedente deve operare su base argomentativa, con ampio impiego delle massime, dato che, nell’analisi delle «circostanze qualificanti» concernenti i fatti secondari, sono di poco ausilio le leggi logico-scientifiche.

[35] A questa locuzione si ricorre quando ci si riferisce non alla credibilità della fonte e all’attendibilità dell’elemento di prova, bensì alla mancanza di un criterio che consenta di trarre degli elementi di prova emersi, conclusioni sicure sul fatto e/o sulla responsabilità dell’imputato.

[36] Espressione della Volontà Sovrana.

[37] Il quale, come ogni giudizio, anche il più elementare, deve essere il risultato di un sillogismo esplicito od incosciente.

[38] Al quale viene, dai trattati, schematicamente ridotta l’attività mentale del giudice; che da taluno viene considerata come espressione peculiare della funzione giurisdizionale, vincolata sempre al rigore logico di questo giudizio, in confronto alla funzione amministrativa, che può estrinsecarsi secondo libera volontà.

[39] È una visione che esprime la volontà politica di concentrare il potere normativo nelle sole mani del sovrano; che negli Stati liberali, in virtù del principio della tripartizione dei poteri, è il Parlamento eletto dal popolo. Non a caso, la tecnica normativa più frequentemente utilizzata è quella della codificazione, attraverso cui il diritto vigente viene enunciato in compilazioni di carattere sistematico, unitario, coerente.

Questa impostazione, che ha esercitato tanta influenza nella formazione della cultura giuridica del secolo scorso, è superata, essendo ormai generalmente riconosciuto il ruolo necessariamente “creativo” dell’attività d’interpretazione.

[40] Fatti o leggi.

[41] Necessariamente ne è coinvolta la personalità di chi è chiamato a decidere.

[42] Esempio: «Solo i residenti hanno diritto di accedere in auto al centro storico della città Alfa (premessa maggiore).

Nicola è residente (premessa minore).

Nicola ha diritto ad accedere in auto al centro storico Alfa (conclusione)».

[43] Qui «credibile» è sinonimo di «attendibile».

[44] Si è assunta consapevolezza piena della distinzione concettuale tra «disposizione», intesa come testo scritto della legge, e «norma» come significato che – attraverso l’interpretazione – viene attribuito al testo. Ciascuna disposizione, anche quella in apparenza più chiara, è suscettibile di essere variamente letta. Innanzitutto a causa dell’inevitabile polivalenza linguistica delle parole che, considerate indipendentemente dalla ragione dell’enunciato, si prestano a diversi significati.

[45] Si pensi al caso di scuola del cartello, apposto all’ingresso di un parco pubblico e recante il divieto d’ingresso per i veicoli. Il termine «veicolo», per quanto di immediata cognizione, può prestarsi a molteplici letture: riferirsi a veicoli a motore, o anche a biciclette, monopattini elettrici…

Se dovesse rendersi necessario l’ingresso di un’autoambulanza per prestare soccorso urgente?

Le eventuali risposte nascono da un ragionamento, finalizzato ad argomentare la corrispondenza della regola individuata al testo giuridico. La soluzione dipende dalla ratio della norma. Se la ratio è nella volontà di limitare l’accesso di mezzi pericolosi e inquinanti:

a)       i motori elettrici non inquinano, ma possono essere pericolosi per l’elevata velocità;

b)       il triciclo non è pericoloso, forse inquinante;

c)       l’ingresso dell’ambulanza, mezzo pericoloso e inquinante, viola sicuramente la ratio.

È il classico caso di lacune: mancanza nel pensiero legislativo.

L’ingresso del veicolo può essere ammesso quale eccezione alla regola, sul fondamento di una norma costituzionale, che individua nella tutela della salute e della vita umana un valore primario dell’ordinamento; superiore a quello individuato dalla disposizione violata.

L’ambiguità del testo può essere d’origine semantica. Un esempio è quello dell’articolo 59 comma 1 Costituzione, secondo il quale il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini.

Ci si chiede se il limite di cinque sia riferito al Presidente come organo oppure come persona fisica. Nel primo caso, non possono sedere in Parlamento più di cinque senatori di nomina presidenziale. Nel secondo, ciascun Presidente ha diritto di nominare fino a cinque senatori; con la conseguenza che non è definibile il limite massimo di senatori di nomina presidenziale contemporaneamente in vita.

Entrambe le interpretazioni sono giustificabili in base alla sola lettura del testo. Entrambe sono «correttamente» sostenibili.

A Michele Santoro

senza il quale non avrei conosciuto l’Amicizia

Questo scritto che viene proposto diviso a puntate sul sito Filodiritto è un invito alla lettura ed alla riflessione intorno all’ampio tema degli esami per le professioni legali e del concorso in magistratura in particolare.

Non è senza dubbio la pietra filosofale, capace di trovare soluzione a problemi soggettivi d’approccio al sistema-concorso/esame (esercizio che va comunque fatto seriamente), ma è un indizio sui linguaggi e sulle necessità d’approcci multipli, multidisciplinari, dei quali oggi le professioni legali necessitano.

Il lavoro è stato certosino. È nato dal “materiale” ci permettiamo di asserire “informe” (sostanzialmente sentenze di Cassazione) di una nota scuola di perfezionamento, ed è monco di Diritto amministrativo, perché convinzione personale muove al suggerimento verso la lettura di manuali più professionalizzanti della materia.

Per professionalizzanti intendo ad opera di colleghi professionisti, appunto, quali: avvocati, notai e magistrati; i soli aventi quell’approccio pratico e contemporaneamente sistemico, capace di entrare nel vivo dei discorsi giuridici.

In più, il Diritto amministrativo sarebbe stato troppo ampio per essere contenuto da un timone ideale, come quello qui proposto, e si è preferito riportare un unico argomento, uno dei più storici, al fine di rendere palese la necessità di acquisizione del precipuo andamento linguistico proprio, anche perché storicamente stratificato, di questa complessa ed affascinante materia-Pangea.

Un unico appunto personale: all’università, in sede d’esame, il professore mi fece presente che mancava qualcosa, si sentiva l’assenza di trasporto per questa materia. Ma mi preannunciò, lasciandomi all’epoca più che scettica, che le perplessità d’approccio avrebbero potuto condurre, in età adulta, ad un ripensamento. Ed eccomi qui, a proporre questo scritto, con già alle spalle una piccola operetta proprio di Diritto amministrativo, il più vero, quello che indaga i rapporti tra autorità e libertà, detto in termini socio-filosofici, o attività autoritativa ed attività privata, in termini più prettamente tecnici.

Penso che continuerò. Qualcosa mi dice che se non troverò risposte consone all’interpretazione del sistema, in vista delle prove d’esame, senz’altro avrò affrontato studi più edificanti dal punto di vista personale, e sarò diventata più brava, il che innalza senza dubbio l’autostima.

Un appunto, scaturente dalle riflessioni interne agli Ordini professionali, e dall’associazionismo di specie in particolare, mi ha condotta a proporre il sempre attualissimo pensiero di re Salomone, emblema della cultura in generale e della terzietà del giudice in particolare.

Cos’altro dirvi, se non che la lettura di ogni libro conduce ad un pensiero personale, e l’utilità è un concetto più intimo di quanto si possa immaginare. Pertanto, sarò fiera del lavoro se qualcuno mi dirà che è servito, sia pure ad altro rispetto al suo scopo-mera divulgazione, di quanto incamerato da un collega che gentilmente mi regalò il suo materiale di studi, e che è oggi divenuto questo diario di bordo, da leggere fra le righe, per interrogarsi sulla cultura in generale e sul mondo-giustizia in particolare.

Chissà – dico un po’ presuntuosamente – se un giorno qualche università si renderà conto del valore metagiuridico, bussola per il professionista legale, sotteso a quest’opera, e deciderà di pubblicarla in cartaceo.

Per ora, ringrazio di cuore la dottoressa Celia di Filodiritto, per l’accoglienza su questo prestigiosissimo sito, dato che l’orgoglio che mi lega all’opera è più forte del desiderio di celarla al lettore.

Politicamente credo che sia meglio divulgare e condividere le scoperte e gli studi, piuttosto che esserne gelosi custodi inconsistenti, e pertanto buona lettura a tutti, anche a quelli che non la pensano come noi, e “furbescamente” tesoreggiano soltanto per se stessi.

 

1. Massime e leggi

La necessità d’inclusione delle leggi scientifiche nella nozione di massime è tendenza dottrinaria; anche se massima e scienza dispiegano una differenza strutturale, come due buoni vestiti indossati dalla stessa modella.

Tale diversità è la peculiarità delle leggi scientifiche d’essere inserite «in» e giustificate «da» un sistema d’asserti generalmente accertato; come in una sfilata d’alta moda.

Le massime non sono sistematizzabili e possono essere utilizzate, costruite, recepite dall’organo giudicante, richiamandosi al bagaglio delle proprie osservazioni.

Mentre, le leggi scientifiche[1] non consentono di trasformare empirismo in scienza. Cosicché, per il giudice penale soprattutto, il vincolo d’osservanza delle stesse troverà fondamento costituzionale[2].

Sostenere il contrario implica violazione del principio di tassatività[3].

2. Viaggio all’interno della Giustizia

Non è compito dedicato al solo giudice costituzionale cogliere/non precorrere il significato del dettato formale, se all’Università degli Studi di Bari il professor Costantino Michele, al principiare d’ogni lezione in più che rigoroso dialetto barese, ci faceva porre, dopo comiziata lettura d’ogni norma[4], la seguente domanda: «A cè serv»[5].

La norma, processuale o sostanziale, volge ad uno scopo, se non proprio ad un fine. Precisiamo: è con la frequentazione del diritto che i neonati giuristi imparano l’imperfetta simmetria scopo-processo civile, fine-processo penale. Ovviamente, entrambi dichiarano l’obiettivo della ricerca della verità[6].

Partendo dall’illuminismo, si comincia a discutere della necessità d’istituzionalizzare poteri, facoltà, diritti e doveri; e tale e tanta filosofia condurrà alle Costituzioni[7]. E, nello Stato di diritto, l’unica forma di verità diventa la certezza, quale risultato del contraddittorio processuale tra tesi opposte, avanzate da posizioni paritarie[8].

Due, i punti fondanti questo sistema:

1)     per conoscere la realtà, bisogna confidare nel criterio di attendibilità, secondo un modello processuale, che da inquisitorio si trasforma in accusatorio[9];

2)     per un giudicante a sola conoscenza del capo d’imputazione, il contraddittorio diviene l’anima del processo[10].

Il giudice, monocratico o collegiale, assume l’aria sacrale tributata al saggio vate conoscitore delle massime[11].

Nel linguaggio comune, il termine generalizzazione è sinonimo di pensiero negativo, preconcetto, stupidità. Ed i buoni insegnanti delle elementari provano ad allontanare i bambini da pratiche massificanti. Delle due l’una: o la cultura del rispetto risiede in scienze umane[12] diverse dal diritto, oppure esso partecipa del costrutto conoscitivo insieme ad altri saperi – più o meno empirici – e quindi l’effettuata generalizzazione con la massima, è dolorosa indagine conoscitiva, volta più a staticizzare ed omogeneizzare che ad attuare un teorema d’intolleranza istituzionalizzato[13]. Il giudice legge tecnicamente una serie di vocaboli-comandi. E la generalizzazione effettuata con la massima, individua caratteri “comuni” presupposti in eventi passati, assunti come dati di partenza, con esclusione o svalutazione dei casi che potrebbero smentire siffatta estensione. Esse gli evitano l’accusa di oscurantismo, a patto che si accetti l’eventualità che l’una possibile possa essere confutata da almeno un’opposta.

Per il linguaggio analitico, l’astrazione è nulla se la forza esplicata dalla massima non supera quella prodotta dalla somma dei casi precedentemente considerati[14].

Il dialogo delle parti[15] subisce, nella mente del giudice, una scissione chimica, più fusioni date dal metodo catalizzatore della funzione catartica delle massime, che bussano incendiarie al neurone attento, dichiarando il linguaggio esplicativo dell’interprete[16]. Le leggi logiche reggono conoscenze intrinsecamente universali, che non possono essere disapplicate nel corso dello svolgimento processuale; penalità l’incorrere del giudice nell’incomunicabilità delle decisioni[17].

Sorto il paradosso delle scienze umane in generale, e delle giuridiche in particolare, la tematica concernente le leggi scientifiche risulta la meno lontana da quella relativa alla massima d’esperienza[18].

3. Fatti notori e massime

Nella considerazione degli studiosi, fatti notori e massime d’esperienza[19], sono accostati come accadimenti individuali, storicamente precisati/precisabili; e non ipotizzate regole generali[20].

Quando si rivelerà che notorio e vero, nonostante la loro tendenziale coincidenza, sono da tenersi distinti, non si esiterà nel sostenere che la notorietà non potrà evitare l’acquisizione probatoria tesa alla verifica del fatto.

Una pretesa notorietà non consente al giudice l’utilizzo del fatto dato al di fuori della sua enunciazione giudiziale. Se tanto accadesse, cadrebbe la garanzia dell’esercizio effettivo del contraddittorio, vietando alle parti, nell’occasione basica del processo, di sollevare eventuali obiezioni in argomento[21].

4. Indizi

Saputo che le massime svolgono quella funzione topico-euristica, che assume importanza particolare nella risoluzione dell’ostica questione della discriminazione, nell’ambito delle prove in senso lato[22], tra prove in senso stretto e indizi, distinguiamo l’elemento dal risultato di prova.

Il primo è rappresentato da ciò che, introdotto nel procedimento, può essere utilizzato come fondamento dell’attività inferenziale[23]. Il secondo costituisce l’enunciato, ottenuto quale esito del procedimento d’inferenza compiuto a partire dall’elemento.

Prova rappresentativa e critica sono connesse, ma vanno distinte[24]. Rileva il differente rapporto tra elemento e risultato[25].

Nella prova critica, il delineato dall’elemento è palesemente diverso dal risultato; da confrontare con l’affermazione probatoria[26].

Supposta come positivamente superata la questione relativa alla valutazione di fatti secondari[27], gli studiosi immaginano l’oggetto di prova costituito dall’incontro d’imputato e vittima all’ora T del delitto e nell’abitazione X.

Un teste depone d’essersi allontanato da tale luogo in quel periodo temporale, mentre imputato e vittima si trattengono. “Automaticamente” appare l’inferenza di un risultato conducente, nel momento decisorio, alla verifica dell’iniziale formazione probatoria. Altro teste dichiara che l’imputato si trova in diverso luogo Y nello stesso T - momento. Questo elemento di prova dovrebbe essere collegato all’indubitabile principio che nega l’ubiquità, prima di poter pervenire ad un risultato idoneo[28].

5. Thema

La distinzione tra prova in senso stretto[29] ed indizio/presunzione semplice, concerne la modalità logica della conclusione successiva fondata sull’elemento di prova.

Ambedue vengono impiegati per la verifica di un elemento fattuale integrativo del thema probandum, ma soltanto nella prova il passaggio da elemento a risultato è univocamente determinato.

La conclusione inferenziale si ottiene per l’utilizzo esclusivo di leggi logiche/scientifiche non probabilistiche; mentre nell’indizio vi è applicazione delle massime[30], cosicché, per quest’ultimo, vi è carenza di validità logica[31].

6. Procedimento intellettivo

Linguisticamente distinguiamo premesse, sviluppi, conclusioni del procedimento intellettivo del giudice.

In questa prospettiva, l’elemento di prova in senso lato, costituisce il genus al cui interno collocare le species dei fattori[32] probatorio e indirizzario/presuntivo, a seconda che si riferisca alla prova in senso stretto o all’indizio[33].

Il momento più impegnativo consta nell’individuare, tra quanto acquisito in sede istruttoria, ciò che è più adeguato a fondare la decisione.

La disamina del giudizio di concludenza verte su idoneità e sufficienza anche dei fatti secondari e dei conseguenti risultati con relative inferenze.

La prova come strumento gnoseologico diventa epilogo conoscitivo: conclusione posta a base della ricostruzione giuridica del fatto[34].

7. Dubbio

Le considerazioni esposte riconoscono fondamento alle tesi di chi ritiene la ricostruzione fattuale, operata in sede giudiziaria, soggetta al dubbio.

Ne deriva la convinzione dell’impossibile discriminazione tra prova in senso stretto ed indizio.

Il possibile discrimine emerge concentrando l’attenzione non su quanto ottenuto attraverso il procedimento probatorio, ma sulla disamina del procedimento intellettivo del giudice, dopo l’individuazione delle premesse.

Quando si pone in forse l’affidabilità di un teste oculare o l’autenticità di un documento, si dice che la decisione che ne facesse uso sarebbe fondata su prove ingannevoli o false, e non su indizi, neppure accennandosi al «processo indiziario»[35].

8. La missione

Secondo la concezione del positivismo giuridico, la missione del giudice si esaurisce nell’applicazione meccanica della legge scritta[36]; riducendosi l’interpretazione ad attività tecnica di accertamento della norma e ricognizione acritica del legislatore “re”.

Quest’impostazione trova espressione nello stile espositivo della sentenza e riflette la logica del processo giurisdizionale, strutturato come sillogismo:

a)     la premessa maggiore è la norma (fattispecie astratta);

b)    la premessa minore è il fatto (fattispecie concreta);

c)     la conclusione è formata nel dispositivo.

In sintesi, la soluzione della controversia segue la direttrice di ridurre il fatto alla norma. Tuttavia, in qualunque modo si definisca la sentenza e si risolva la questione, se sia atto d’intelligenza o volontà, non si potrà mai negare che in essa è contenuto un giudizio logico[37].

Con l’affermazione dell’esistenza di una premessa generale (propositio major), con l’asserzione che il caso concreto rientra/non rientra tra quelli contemplati dalla stessa (propositio minor), e con la deduzione del verificarsi in concreto (conclusione) dell’effetto giuridico posto in astratto dalla norma, nella mente del giudice è compiuto il sillogismo giudiziario[38].

Oggi, l’illusione del giudice “bocca della legge” è entrata in crisi, risultando del tutto abbandonata la rassicurante identificazione del diritto con la legge scritta e, di conseguenza, l’utopia ottocentesca di una legge che non necessiti d’interpretazione[39].

9. La conclusione

Il sillogismo non è rilevazione dell’esistente[40], ma ragionamento sofisticato sulle fonti del diritto e sugli elementi della vicenda concreta[41]. Esso non dice nulla sull’effettivo ragionamento seguito dal giudice per giungere alla conclusione.

Questa è contenuta nelle premesse e da esse dipende. Avrà, necessariamente, lo stesso grado di verità ed attendibilità di quelle[42]. Sarà credibile[43] ove corretta l’individuazione della premessa maggiore.

Le priorità formali del sillogismo garantiscono la validità della deduzione ed il valore dimostrativo dell’operazione, ma è nella ricostruzione delle premesse che si sviluppa il ragionamento[44].

La norma non data dal legislatore e non trovata dall’interprete è costantemente ricercata nel momento applicativo[45].

 

[1] Indipendenti dal caso concreto oggetto d’indagine.

[2] Tali leggi assumono quella determinatezza socio-storica capace di fungere da «premesse certe» per il giudice; che partecipa del suo tempo, della sua società e storia, con decisioni che debbono esserne specchio.

[3] Articolo 25 comma 2 Costituzione.

[4] In un giuoco di maschere che pareva più volto al cogitare filosofico che alla proposizione giuridica sul fatto.

[5] A cosa serve.

[6] La normazione non può proporsi la ricerca della verità assoluta (di pertinenza soltanto del divino), ma quella della certezza processuale. Per questo assunto, consiglierei di frequentare il diritto prima di affrontare un esame che contempli  la conoscenza dello stesso. Frequentare il diritto significa maneggiare la materia, considerarne la plasmabilità. Un buon metodo è quello della pratica legale, sia pur limitata a quanto trattato dal dominus di referenza. Anche la politica, fatta bene, quando conduca al buon amministrare, aiuta. E comunque, l’abito mentale del giurista è sempre il pensiero iuris prudente, senza cadere nell’ossessione conoscitiva. Praticare è anche, e soprattutto, cogitare ed essere. Ed il Cogitare precede sempre l’Essere. Ma l’Essere – ne sapeva qualcosa Cartesio – non esiste senza Pensiero. Il già pensato plasma e muta.

[7] La Costituzione porta seco il corpo della Società, nutrito dalle vene della democrazia, quale capacità/pienezza di diritti. Diritti che necessitano di certezza e, quando posti in forse, sono discussi sotto l’egida del paritario contraddittorio delle parti. Costituire è come creare: equivalente normativo dello strutturarsi anatomico.

[8] L’avvocato, il penalista soprattutto, troverà molta disparità tra parti, tra accusa e difesa. È il suo lavoro. Un lavoro di civiltà giuridica, che non possiamo approfondire in questo testo di (auto)preparazione ad un concorso dalle apparenti linee teoriche. L’impostazione ideologica innova la procedura, trasformando lo stesso diritto sostanziale, laicizzandolo sull’idea (non sappiamo quanto consapevolezza) della fallacia umana, che conosce la verità. Inquietante assunto, per un giurista che prenda atto dell’esser servo dei propri umani limiti, ma anche perno sul quale poggiare le statue dei criteri e modelli conoscitivi.

[9] Il modello accusatorio si caratterizza per la presenza di tre elementi essenziali: contraddittorio, parità processuale delle parti, terzietà del giudice.

[10] Passaggi cruciali percorrono le sinapsi: ammissione, formazione, discussione della/delle/sulla/sulle prova/e. L’ammissione dà lustro alla difesa. È l’essenza di quella funzione, che indica e presenta prove, enunciandone pertinenza e rilevanza all’Ignaro Terzo. Il momento più complesso del processo è quello della formazione delle prove. Precipuamente, quello dei fuochi crociati, della battaglia delle verità: l’esame incrociato. Il requirente sarà un soldato come e quanto l’avvocato. Il giudice farà il sovrumano “sforzo” d’avere scienza e coscienza di dirigere l’incontro, ma anche quella di ricostruire il fatto.

[11] Il legislatore ha dichiarato che il 192 comma 1 procedura penale, richiede la comparsa in motivazione dei criteri di valutazione: le massime utilizzate per vagliare il fondamento della prova. Si ritiene impossibile negare l’impiego di dette forbici senza precludere al giudicante ogni riflessione e scelta.

[12] Antropologia, letteratura, pedagogia.

[13] Il diritto si serve della propria lingua di referenza, dando ai suoi termini significati scevri dall’eticamente buono o cattivo. I termini assumono un significato altro ed alto, libero dalla sovrastruttura “politica”. La parola ritorna limpida, chiara, scorrevole, sterilizzata come bisturi. È strumento d’ordine, spiegazione, scoperta, individuazione.

[14] È non-idonea a fondare senza incertezza la conclusione inferenziale concernente un evento che ha il carattere di novità. Qualora si sostenesse che la nuova circostanza indagata sarebbe inclusa nella massima, si presupporrebbe l’oggetto dell’inferenza deduttiva, l’id quod semper necesse. Tuttavia, la massima non può trasformare l’id quod plerumque accidit nell’id quod semper necesse, il cui elemento sotto esame costituisce premessa minore. La conclusione si caratterizza per ipoteticità congetturale, carente d’univocità e sempre falsificabile. Il ragionamento a struttura sillogistica è aristotelicamente distinto in dialettica e retorica, la cui conclusione fondata su premesse probabili è altrettanto probabile.

[15] Preposizioni e perorazioni.

[16] La funzione topico-euristica consente un pluralismo culturale, ed il ricorso a diverse prospettive reputate significative per l’indagine. Una serie di tòpoi utilizzabili quali premesse per la soluzione di svariate problematiche sembra logica, ma è scienza umana al limitar delle matematiche. E la questione relativa all’uso delle leggi logiche in ambito giudiziario, trasmoda e differisce profondamente dai costrutti esperenziali.

[17] Antico derma processual-sostanziale è il rilievo che la contraddittorietà interna della motivazione, oppure tra motivazione e dispositivo, o tra capi di una medesima sentenza, rendono incomprensibile il provvedimento per la coesistenza di argomentazioni/comandi incompatibili.

[18] L’impiego di leggi probabilistiche, se effettuato in sede di valutazione concernente l’attendibilità di un’ipotesi ricostruttiva della regiudicanda in base agli elementi gnoseologici processualmente disponibili, condurrebbe il giudice all’uso di calcoli numerici analoghi a quelli utilizzati nei sistemi di prova legale, e non offrirebbe garanzia conoscitiva sostanzialmente differente da quella originata dalla massima d’esperienza. Da non sottovalutare che gli stessi argomenti impiegati per contestare l’assolutezza di una massima, potrebbero essere utilizzati anche nei confronti di una legge scientifica universale, dato che l’ultima istanza d’entrambe poggia su un procedimento induttivo, concluso con la generalizzazione dei dati empirici.

[19] Senza reputare necessario esaminare il problema relativo all’esatta nozione di notorietà ed il suo collegamento con quello di comune e media cultura. E, se non siamo propriamente degli studiosi, sicuramente, dovendo prepararci al concorso/esame, siamo almeno studenti, e i temi preferiamo accorparli in vista di risultato proficuo per la memoria e per il ragionamento intorno alle scatole sinottiche che il cervello crea in prospettiva del finimondo emotivo che ci attende. A tal fine, rammentiamo che ambedue i termini sono universalmente considerati alla stregua di eccezioni al divieto imposto al giudice di utilizzo della propria “scienza privata”.

[20] Il cervello avrebbe meglio compreso una definizione-differenziazione circa “regole generalizzanti”, piuttosto che “generali”, foriere di lunghe possibili tematizzazioni, ma così è nell’ambito di un’impostazione sillogistica della questione, che vuole dare un posto alle massime nella premessa maggiore e ai fatti notori nella premessa minore.

[21] Studiosi a parte, una minima nozione di fatto notorio va data, per livellare il ragionamento e l’intento di summa. Esso dovrebbe concernere l’affermazione/negazione di un evento, la cui fondatezza può essere riconosciuta con maggior facilità e più brevemente che per le altre osservazioni giudizialmente rilevanti.

[22] Sono tali tutti gli strumenti gnoseologici che consentono di accertare la verità di uno degli enunciati fattuali integranti il thema probandum.

[23] Dichiarazione testimoniale, caratteristica dell’oggetto sequestrato, espressione contenuta in un documento.

[24] Esempio: l’attività critica che si sviluppa sulla base di una testimonianza.

[25] L’inferenza dell’uno all’altro appare automatica.

[26] In questo caso, al risultato si perviene attraverso una più consapevole e manifesta mediazione intellettuale.

[27] Insieme costituito da elementi, fonti, mezzi di prova, fatti notori implicati nell’esperimento probatorio cui per ipotesi ci si riferisce.

[28] In relazione al medesimo oggetto di prova, concernente l’incontro dell’imputato con la vittima all’ora del delitto T e nell’abitazione X, può ipotizzarsi che un teste dichiari di aver visto l’imputato posteggiare la propria vettura nell’autorimessa pertinente al suddetto immobile in tale lasso di tempo. L’elemento così conseguito non sarebbe però idoneo a rendere certa l’inferenza conducente ad un risultato che confermi l’effettuazione dell’incontro. Si saprebbe solo che l’imputato era nei pressi della casa in cui è stato commesso il delitto, ma i motivi atti a giustificare tale evento potrebbero essere innumerevoli. La massima secondo cui «chi posteggia la propria autovettura nella rimessa altrui ha normalmente appuntamento col proprietario della stessa» potrebbe essere smentita da altra, per la quale «la disponibilità dell’autorimessa altrui è normalmente concessa a chi deve effettuare, senza difficoltà di posteggio, una commissione d’interesse comune nel palazzo di fronte». Se, per differenziare prova rappresentativa e prova critica, ci si riferisce ad una diversa complessità della mediazione logica, questo rilievo non è sufficiente per individuare la differente qualità dell’attività intellettuale impiegata nell’ipotesi esemplificatrice di ciò che viene denominato indirizzo o presunzione semplice. Rispetto ala prova rappresentativa, si è in presenza non soltanto di un mutamento della struttura cognitiva, ma di una variazione della natura gnoseologica, che consente di discriminare l’ipotesi dell’indizio dalle precedenti.

[29] Tanto critica quanto rappresentativa.

[30] Cui vanno assimilate le leggi scientifiche probabilistiche.

[31] I termini della questione non vengono mutati dall’inserimento nel dibattito giuridico della nozione di «abolizione», intesa come forma di ragionamento che, noto l’effetto, consente di risalire alla causa. Si fruisce del passaggio intermedio, costituito dalla mera generalizzazione empirica, cioè da una massima del tipo «Y normalmente è conseguenza soltanto di X»; mentre, durante l’esperimento probatorio, non si può ancora sapere se si otterrà una prova in senso stretto (critica o rappresentativa) o un indizio. Tale incertezza non sussiste più, una volta conseguito l’elemento di prova. Fissata la premessa della relativa inferenza, si è in grado di definire come necessario, o soltanto possibile, il risultato di prova.

[32] Qui «fattori» è sinonimo di «elementi».

[33] Così come nell’ambito del genus,  rappresentato dal risultato di prova (in senso stretto), si differenziano le species del risultato probatorio e del risultato indiziario (presuntivo) quali conseguenze, rispettivamente, di un’inferenza probatoria o indiziaria (presuntiva).

[34] Una volta accertata affidabilità del testimone, attendibilità di un documento, attendibilità dell’esperimento giudiziale, sufficiente chiarezza dell’impronta lasciata sull’oggetto sequestrato, come pure la fondatezza dell’inferenza sul passaggio dell’elemento preso in considerazione, al risultato e la compatibilità di quest’ultimo con quelli ottenuti da altre acquisizioni probatorie, si potrà osservare che tali conclusioni sono costituite da quello stesso enunciato che, al livello della singola struttura probatoria, integra il risultato; positivamente valutato secondo il criterio della corretta efficacia persuasiva.

Per adempiere il proprio compito valutativo, l’organo procedente deve operare su base argomentativa, con ampio impiego delle massime, dato che, nell’analisi delle «circostanze qualificanti» concernenti i fatti secondari, sono di poco ausilio le leggi logico-scientifiche.

[35] A questa locuzione si ricorre quando ci si riferisce non alla credibilità della fonte e all’attendibilità dell’elemento di prova, bensì alla mancanza di un criterio che consenta di trarre degli elementi di prova emersi, conclusioni sicure sul fatto e/o sulla responsabilità dell’imputato.

[36] Espressione della Volontà Sovrana.

[37] Il quale, come ogni giudizio, anche il più elementare, deve essere il risultato di un sillogismo esplicito od incosciente.

[38] Al quale viene, dai trattati, schematicamente ridotta l’attività mentale del giudice; che da taluno viene considerata come espressione peculiare della funzione giurisdizionale, vincolata sempre al rigore logico di questo giudizio, in confronto alla funzione amministrativa, che può estrinsecarsi secondo libera volontà.

[39] È una visione che esprime la volontà politica di concentrare il potere normativo nelle sole mani del sovrano; che negli Stati liberali, in virtù del principio della tripartizione dei poteri, è il Parlamento eletto dal popolo. Non a caso, la tecnica normativa più frequentemente utilizzata è quella della codificazione, attraverso cui il diritto vigente viene enunciato in compilazioni di carattere sistematico, unitario, coerente.

Questa impostazione, che ha esercitato tanta influenza nella formazione della cultura giuridica del secolo scorso, è superata, essendo ormai generalmente riconosciuto il ruolo necessariamente “creativo” dell’attività d’interpretazione.

[40] Fatti o leggi.

[41] Necessariamente ne è coinvolta la personalità di chi è chiamato a decidere.

[42] Esempio: «Solo i residenti hanno diritto di accedere in auto al centro storico della città Alfa (premessa maggiore).

Nicola è residente (premessa minore).

Nicola ha diritto ad accedere in auto al centro storico Alfa (conclusione)».

[43] Qui «credibile» è sinonimo di «attendibile».

[44] Si è assunta consapevolezza piena della distinzione concettuale tra «disposizione», intesa come testo scritto della legge, e «norma» come significato che – attraverso l’interpretazione – viene attribuito al testo. Ciascuna disposizione, anche quella in apparenza più chiara, è suscettibile di essere variamente letta. Innanzitutto a causa dell’inevitabile polivalenza linguistica delle parole che, considerate indipendentemente dalla ragione dell’enunciato, si prestano a diversi significati.

[45] Si pensi al caso di scuola del cartello, apposto all’ingresso di un parco pubblico e recante il divieto d’ingresso per i veicoli. Il termine «veicolo», per quanto di immediata cognizione, può prestarsi a molteplici letture: riferirsi a veicoli a motore, o anche a biciclette, monopattini elettrici…

Se dovesse rendersi necessario l’ingresso di un’autoambulanza per prestare soccorso urgente?

Le eventuali risposte nascono da un ragionamento, finalizzato ad argomentare la corrispondenza della regola individuata al testo giuridico. La soluzione dipende dalla ratio della norma. Se la ratio è nella volontà di limitare l’accesso di mezzi pericolosi e inquinanti:

a)       i motori elettrici non inquinano, ma possono essere pericolosi per l’elevata velocità;

b)       il triciclo non è pericoloso, forse inquinante;

c)       l’ingresso dell’ambulanza, mezzo pericoloso e inquinante, viola sicuramente la ratio.

È il classico caso di lacune: mancanza nel pensiero legislativo.

L’ingresso del veicolo può essere ammesso quale eccezione alla regola, sul fondamento di una norma costituzionale, che individua nella tutela della salute e della vita umana un valore primario dell’ordinamento; superiore a quello individuato dalla disposizione violata.

L’ambiguità del testo può essere d’origine semantica. Un esempio è quello dell’articolo 59 comma 1 Costituzione, secondo il quale il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini.

Ci si chiede se il limite di cinque sia riferito al Presidente come organo oppure come persona fisica. Nel primo caso, non possono sedere in Parlamento più di cinque senatori di nomina presidenziale. Nel secondo, ciascun Presidente ha diritto di nominare fino a cinque senatori; con la conseguenza che non è definibile il limite massimo di senatori di nomina presidenziale contemporaneamente in vita.

Entrambe le interpretazioni sono giustificabili in base alla sola lettura del testo. Entrambe sono «correttamente» sostenibili.