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Studiare per il concorso in magistratura (parte III)

1. Bancarotta: esempio d’abolitio e successione

Il fenomeno di diritto intertemporale nel settore penale può avere ad oggetto:

a)     la fattispecie legale astratta[1];

b)    la disciplina della fattispecie legale astratta[2];

c)     la fattispecie legale astratta e, contemporaneamente, la sua disciplina.

Nel primo caso, viene ridefinito il perimetro del penalmente rilevante[3]. In caso di successione di norme meramente modificative della fattispecie, non viene in discussione la rilevanza del fatto che l’ordinamento continua a configurare come reato, ma la sua regolamentazione[4].

Se il fenomeno della successione di leggi penali ha per oggetto non solo la fattispecie legale e astratta, ma anche la sua disciplina, è meno agevole stabilire il confine tra abolitio criminis e successione di norme modificative della disciplina[5]. L’abolitio consegue alla corrispondente modifica normativa della fattispecie legale astratta.

Soltanto nell’ipotesi della trasformazione dell’illecito in amministrativo (depenalizzazione), l’abolizione del reato si realizza, per lo più sostituendosi la nuova sanzione alla precedente, e incidendo sulla norma incriminatrice, ma non sulla struttura della fattispecie[6].

Domandiamoci se, a seguito dell’intervento normativo sulla disposizione incriminatrice dettata dall’articolo 263 comma 2, numero 1, legge fallimentare, ad opera dell’articolo 147 decreto legislativo numero 5 del 2006, con riferimento all’ipotesi di bancarotta patrimoniale o societaria nell’amministrazione controllata, si sia verificata abolitio criminis, ai fini della revoca della sentenza di condanna ex 673 procedura penale, ovvero successione di fattispecie incriminatici.

La novella[7] ha introdotto una riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, in particolare abrogando il titolo IV del regio decreto 16 marzo 1942, numero 267, relativo all’amministrazione controllata. Compreso quello presente nella norma incriminatrice di cui al 236 comma 2 numero 1, il cui campo operativo sembra essere circoscritto ai soli fatti di bancarotta – fraudolenta o semplice – commessi dal ceto gestorio di società ammesse alla procedura di concordato preventivo.

La modifica legislativa pone il problema della corretta lettura dei canoni successori in materia di norme penali, regolati, secondo disposto dell’articolo 2, dai principi fondamentali della irretroattività della norma incriminatrice più sfavorevole, e della retroattività di quella più favorevole – lex mitior – abbia, quest’ultima, contenuto abrogativo o meramente modificativo della disciplina precedente. La riflessione deve mirare a stabilire se si sia di fronte ad un’ipotesi di continuità punitiva (quarto comma articolo 2) con applicazione della disciplina più favorevole (salvo eventuale limite di pronunciata sentenza irrevocabile), ovvero ad un caso di vera abolito criminis (secondo comma articolo 2); la quale ha forza di travolgere il giudicato di condanna[8].

L’avvicendarsi delle norme dà origine a conflitti tra esse, col carico, per l’ordinamento, d’individuare i limiti di efficacia delle stesse. Per accertare l’abolitio criminis, l’interprete deve procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, al fine di verificare la sussistenza di uno spazio comune[9].

Se l’intervento legislativo posteriore altera la fisionomia della fattispecie, sopprimendo un elemento strutturale della stessa e la figura di reato in essa descritta, ci si trova di fronte a un’ipotesi di abolitio criminis[10].

Il principio di retroattività della legge abolitrice[11] finisce per acquisire rilievo sotto il profilo dell’articolo 3 della Carta (principio d’eguaglianza), e s’impone in forza del modello di diritto penale del fatto accolto dal nostro ordinamento.

Il Giudice delle Leggi[12] ha sottolineato che il principio è legato ad una concezione oggettiva del diritto penale, che emerge dal complessivo tessuto dei precetti costituzionali[13]. Se la valutazione del legislatore in ordine al disvalore del fatto muta, nel senso di ritenere che quel presidio non sia più necessario od opportuno, tale cambiamento deve riverberarsi a vantaggio anche di coloro che abbiano posto il fatto in un momento anteriore.

Il legislatore ha contestualizzato il reato di bancarotta nelle diverse procedure concorsuali, diversificando le modalità d’offesa dello stesso bene e attribuendo alle varie ipotesi contemplate valenza autonoma.

I presupposti oggettivi e le condizioni operative delle diverse procedure caratterizzano, di volta in volta, lo schema della bancarotta, rendendolo unico nel contesto in cui è chiamato ad operare e delineando il relativo profilo di tipicità.

In particolare, la bancarotta fraudolenta commessa da amministratore di società in amministrazione controllata[14], è un reato di pericolo e non di danno. Tutela, in via anticipata, l’interesse dei creditori all’integrità della garanzia offerta dal patrimonio dell’impresa commerciale esercitata in forma societaria, e non richiede che alla procedura alternativa minore faccia seguito la dichiarazione di fallimento, perché si è inteso sottolineare la diversa intensità dell’offesa all’interesse protetto, secondo il contesto concorsuale in cui la stessa si realizza[15].

La citata norma incriminatrice prevede fattispecie plurime ed autonome fra loro, che fanno specifico richiamo a due procedure distinte e che non possono essere virtualmente equiparate a quella generica di «procedure concorsuali prefallimentari».

Consolidata giurisprudenza è schierata nel senso che il decreto di ammissione all’amministrazione controllata ripete, nell’ambito della corrispondente fattispecie di bancarotta, natura ed effetti della sentenza dichiarativa di fallimento, ed integra un elemento costitutivo del reato, non una mera condizione di punibilità; presupponendo questa un reato già strutturalmente perfetto, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo. Solo per effetto dell’ammissione all’amministrazione controllata, determinate condotte del ceto gestorio della società si connotano come bancarotta, ed è al momento di tale configurazione che va relazionata l’applicazione di determinati istituti, sostanziali e processuali, quali: prescrizione, indulto, competenza per territorio[16].

La concezione del fatto tipico come insieme/somma degli elementi incarnanti il volto di una specifica figura di reato[17], impera[18].

L’articolo 147 del decreto legislativo numero 5 del 2006 non si è limitato ad intervenire sulla normativa «esterna» relativa all’istituto, ed ha eliminato ogni riferimento a questo nella disposizione incriminatrice; che risulta amputata di un suo elemento strutturale. E non è stata emanata contestualmente una disposizione transitoria che disciplini gli effetti dell’abrogazione di questo elemento.

Se il provvedimento giurisdizionale di ammissione all’amministrazione controllata è elemento costitutivo del reato, la soppressione di ogni riferimento ad esso coinvolge necessariamente la cancellazione dell’articolo 236 legge fallimentare, nella parte in cui richiama il detto istituto e fa dipendere dall’operatività del medesimo la punibilità della condotta.

L’intervento demolitorio ha prodotto l’effetto dell’abolitio criminis tipica e retroattiva.

Il secondo comma dell’articolo 2, al pari del primo, postula un rapporto diretto tra norma e “fatto” (da intendersi, quest’ultimo, «in senso stretto»): l’insieme degli elementi oggettivi, descritti nella fattispecie incriminatrice, che individuano e caratterizzano ogni singolo reato, quale forma di offesa ad uno o più beni giuridici[19].

Il testo vigente dell’articolo 236 comma 2 numero 1 del regio decreto 267 del 1942, descrive un «fatto» diverso da quello indicato nel precedente testo. Circoscrive l’area di punibilità alle sole ipotesi di bancarotta concordataria, e toglie rilevanza penale a quelle connesse all’amministrazione controllata.

Data la ritenuta autonomia di queste ultime rispetto alle prime, l’effetto abrogativo, limitatamente ai fatti espunti dal perimetro del novum, si pone come conclusione ineludibile ed opera retroattivamente[20].

Il presupposto oggettivo dell’amministrazione controllata era la «temporanea difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni», mentre quello del concordato preventivo è lo «stato di crisi», da intendersi anche come «stato di insolvenza»[21].

L’amministrazione controllata aveva come finalità primaria il risanamento dell’impresa e il ripristino della sua solvibilità[22]. Non aveva natura liquidatoria, né effetto immediatamente satisfattivo delle pretese creditorie, ma dilatorio, nel senso che il debitore era obbligato a soddisfare integralmente tali pretese dopo la chiusura della procedura, se il risanamento finanziario era stato conseguito.

La struttura normativa del contatto preventivo prescinde da qualsiasi idea di necessaria protrazione dell’attività imprenditoriale, ed è orientata ad assicurare effetti meramente liquidativi dei crediti[23].

La formale abrogazione di una norma incriminatrice non sempre rende penalmente indifferente la condotta in essa descritta, e non sempre determina una totale abolitio criminis. La perdita di rilevo di una certa classe di fatti si realizza soltanto quando, a seguito della soppressione, integrale o parziale, della fattispecie, detti fatti non risultano più conformi a nessun’altra fattispecie legale.

Può accadere che il sistema giuridico risultante dopo la modificazione legislativa, continui ad allegare rilevanza a classi di fatti descritti dalla norma incriminatrice considerata, perché inquadrabili o in una fattispecie già prevista dall’ordinamento giuridico, ovvero in altra fattispecie introdotta contestualmente alla soppressione di quella previgente. In questa ipotesi si parla di «abrogatio sine abolitione»[24].

L’abolizione del reato può essere anche parziale, e si realizza quando l’intervento del legislatore elimina una parte soltanto della fattispecie o, contestualmente alla soppressione di una norma incriminatrice di più ampio respiro, introduce in sostituzione altra norma speciale, che finisce per ricoprire un’area di punibilità meno ampia.

Nel caso d’esempio da noi analizzato, la riforma, intervenendo direttamente sulla fattispecie incriminatrice della bancarotta impropria connessa all’amministrazione controllata, l’ha abrogata senza il contestuale «innesto» nel sistema di una nuova disposizione collegata alla soppressa, e contenente una diversa regolamentazione della fattispecie; sicché non v’è spazio per un confronto tra fattispecie legali in successione temporale, difettando il necessario termine di paragone[25].

2. Contraffazione, truffa, millanteria

Il millantato credito si realizza quando l’agente si fa dare o promettere denaro col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o di doverlo remunerare[26]. La condotta realizza un mendacio in danno del «compratore di fumo»[27].

Il reato si consuma nel momento in cui l’agente si fa promettere l’utilità. Non è previsto come elemento costitutivo del reato che l’agente effettivamente condizioni l’attività del pubblico ufficiale[28].

Con la fattispecie si realizza una tutela anticipata. Pertanto ad essere integrato, basta la dazione/promessa di un’utilità, anche non patrimoniale. E, ai fini della configurabilità dell’illecito, non assume rilievo il fatto che il pubblico ufficiale abbia o meno emesso il provvedimento favorevole. Tenuto conto del momento consumativo, il reato si realizza anche nel caso in cui il provvedimento favorevole già esista, ma sia ignoto al compratore, che concluda l’accordo con l’agente[29].

Aperta è, in dottrina e giurisprudenza, la questione circa la possibilità che millantato credito e truffa possano concorrere. E riguarda elusivamente la fattispecie contenuta nel primo comma del 346, relativa al fatto di chi, millantando credito presso un pubblico ufficiale, riceve denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione.

L’orientamento dottrinario prevalente, seguito da una parte minoritaria della giurisprudenza, ritiene che, in base al principio di consunzione, il millantato credito assorbe la truffa[30].

Un diverso orientamento, minoritario in dottrina, prevalente in giurisprudenza, ritiene che tra i due reati sia configurabile il concorso formale, perché tutelano interessi distinti ed è diverso il mezzo utilizzato per la loro commissione[31].

Un problema di concorso in relazione all’ipotesi di cui al comma secondo, non sembra destinato a porsi. Il soggetto attivo non si propone attraverso un’attività d’intermediazione, come nell’ipotesi base, ma si presenta quale strumento di corruzione di un funzionario pubblico. Con la conseguenza che, se realizza effettivamente l’attività di corruzione, concorre nel delitto di cui agli articoli 318-319. Mentre, se si appropria della retribuzione, risponderà del reato di cui al capoverso dell’articolo.

Ciò che differenzia le due ipotesi di millantato credito è l’elemento del «pretesto»; che richiama il mendacio e l’inganno in quanto corrisponde alla falsa causa addotta dall’agente per indurre ad una prestazione patrimoniale, diversamente non ottenibile[32].

Si tratta di fattispecie che ricalca pienamente la struttura della truffa, e che consiste, secondo la definizione di un’autorevole dottrina, in una frode volgare tesa al privato, col pretesto di una corruzione che non si ha nessuna intenzione d’intraprendere[33].

Non ha mai trovato accoglimento la teoria, sostenuta da alcuni autori, che ricostruisce la figura criminosa del millantato credito in termini di «traffico d’influenze illecite»[34]. Appare decisiva la considerazione che il rapporto implica l’affermazione, da parte dell’agente, di una capacità di influire «presso un pubblico ufficiale o un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio». Relativamente al vanto presso esponenti politici, non è stata accertata l’intestazione di una simile qualità. Con la conseguenza che viene a mancare un elemento essenziale del reato, non rilevando che gli esponenti politici presso i quali si vanti credito abbiano (essi solo) la capacità d’influire presso pubblici ufficiali o pubblici impiegati prestanti un pubblico servizio. In tal caso, si può configurare truffa. Anche aggravata, ex 61, numero 7.

3. Il concorso

Norma cardine del sistema relativo al concorso di persone nel reato è l’articolo 110.

La funzione di tale disposizione[35] è quella di rendere tipici atti e condotte che di per sé sarebbero atipici e penalmente irrilevanti. L’esempio tradizionale è la rapina perpetrata da più soggetti tra loro in concorso. In assenza della clausola, il comportamento del “palo”[36] sarebbe lecito e penalmente irrilevante, pur essendo di solare evidenza l’importanza della sua opera di sorveglianza sul corretto andamento dell’azione delittuosa.

Le forme di manifestazione di concorso di persone nel reato sono: materiale e morale. Il primo consiste nel porre in essere uno o più atti materiali che contribuiscono casualmente alla realizzazione dell’evento[37]. Il secondo si verifica allorché si fa sorgere, o si rafforza, l’altrui proposito criminoso[38].

Delicati sono i problemi che si pongono in relazione all’individuazione dell’elemento psicologico e del nesso di causalità nel concorso di persone nel reato, e segnatamente nel concorso morale. Escluso pacificamente il concorso colposo nel delitto doloso – argomentato dal combinato disposto degli articoli 42, comma 2, e 113 – con riferimento al concorso doloso nel delitto doloso, è d’uopo rilevare che il dolo di concorso si atteggia come previsione e volontà di collaborare all’altrui azione criminosa.

Il nesso di causalità si configura in modo diverso rispetto alla fattispecie monosoggettiva, dovendo l’azione recare un contributo causale, anche minimo, all’evento. Incertezze interpretative sorgono allorquando si cerchi di tracciare i confini tra concorso di persone nel reato – con particolare riguardo al concorso morale – e connivenza[39]. Il problema, di non poco rilievo pratico, è stato risolto in giurisprudenza seguendo due strade:

a)     quella del concorso nel reato mediante omissione;

b)    quella del concorso morale.

L’orientamento che ha ricondotto la connivenza al concorso omissivo ha anticipato la categoria del reato omissivo improprio. Esso nasce dalla combinazione dell’articolo 40 comma 2 (clausola di equivalenza) con le diverse norme di parte speciale che contemplano le singole fattispecie criminose convertibili[40].

A prescindere dalla tesi che si accolga in ordine alla natura giuridica dei reati passibili di conversione nella forma omissiva, ex articolo 40 cpv, è sempre necessaria la sussistenza, in capo al soggetto attivo del reato, di un obbligo giuridico d’impedire l’evento (obbligo di garanzia). La dottrina prevalente ritaglia, all’interno della categoria generale dell’obbligo di garanzia, le figure dell’obbligo di protezione[41] e dell’obbligo di controllo[42].

Nella selezione degli obblighi di garanzia[43], risulta pacificamente accolta la «teoria mista», in base alla quale può dirsi che su un soggetto gravi un obbligo di garanzia solo ove questo derivi da una fonte formale (legge o contratto) e vi sia l’effettiva presa in carico del bene[44].

Parte della giurisprudenza, minoritaria e risalente, ha ritenuto applicabile il concorso omissivo nel caso della connivenza, tentando di reperire un obbligo di garanzia in capo al soggetto che passivamente assiste alla perpetrazione di un reato[45]. La giurisprudenza prevalente critica l’orientamento testé enunciato, sostenendo l’estrema genericità del riferimento all’obbligo di garanzia ex articolo 2 Costituzione. Tale orientamento ritiene possibile l’accesso alla tesi del concorso omissivo proprio perché, per i cittadini, manca un obbligo di garanzia generalizzato di impedire gli altrui reati. E perché, in virtù del comportamento passivo, l’agente non arreca alcun contributo alla realizzazione del fatto attraverso il sostegno all’altrui condotta criminosa[46].

Si argomenta dal disposto degli articoli 52 e 54, e in particolare dalla figura del «soccorso difensivo». Esso è facoltativo, valendo soltanto a scriminare il fatto delittuoso commesso per la necessità di difendere un diritto altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, o per salvare altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona.

A contrario, si argomenta della presenza di norme che sanciscono specifici obblighi impeditivi a carico di soggetti ben determinati[47], talora anche autonomamente sanzionati[48], nonché dal fatto che il privato, esclusi taluni casi particolari e di stretta interpretazione[49], ha soltanto la facoltà di cooperare ai fini di polizia[50].

Gli orientamenti giurisprudenziali che hanno affrontato il problema della connivenza in termini di concorso morale sono essenzialmente tre:

1)     una parte della giurisprudenza ritiene che il semplice assistere alla perpetrazione di un reato, pur senza contribuirvi materialmente o moralmente, è idoneo a rafforzare il proposito criminoso del soggetto agente; il quale trae maggior sicurezza e determinazione dalla presenza di un altro soggetto che non interviene, o comunque non manifesta la propria disapprovazione[51];

2)     altra parte della giurisprudenza sostiene l’impossibilità di configurare un concorso morale nel caso di connivenza. Sottolinea che l’atteggiamento del connivente è di per sé neutro e che, per aversi responsabilità a titolo di concorso morale, è pur sempre necessario un contributo causale alla realizzazione dell’evento nella forma dell’effettivo rafforzamento dell’altrui proposito[52].

3)     II terzo orientamento – prevalente e condivisibile – sostiene che il problema[53] non possa essere risolto in astratto, ma occorre compiere ogni volta una valutazione del caso concreto[54].

Di fronte ad un comportamento meramente omissivo, o alla presenza dell’imputato all’ideazione/preparazione/esecuzione del delitto, il giudice deve valutarne, con rigore logico, il comportamento[55].

Non può, però, non ritenersi partecipe colui che manifesta – anche tacitamente – la sua volontaria adesione all’altrui piano criminoso, anche quando la realizzazione di questo abbia inizio prima che ne venisse a conoscenza, ma sia ancora in corso. È l’ipotesi di reato permanente, che postula il protrarsi nel tempo della condotta criminosa. Esplicata è una «qualsiasi attività», nell’ambito della realizzazione collettiva, che si esaurisca in un rafforzamento della volontà dei compartecipi di commettere il delitto o in un contributo – qualunque ne sia natura e incidenza – nell’eziologia e dinamica, nella consumazione collettiva[56]. La semplice presenza inattiva, la sola connivenza, il non aver impedito la consumazione del reato, non costituiscono concorso morale. L’articolo 110 richiede almeno il volontario rafforzamento, il contributo ideologico, o quantomeno un’incidenza nel determinismo psicologico, dell’autore[57].

Pare doversi riconoscere la responsabilità penale per concorso morale nella forma della connivenza, del soggetto che assiste passivamente alla perpetrazione del reato da parte di un altro soggetto, sul quale il primo potrebbe ben esercitare la sua influenza. Sarà necessario che il connivente sia consapevole del potere d’influenza sull’agente, e ciononostante non si attivi per impedire l’evento[58].

In molti casi, dalla prassi giudiziaria affrontati – pur nella ritenuta inconfigurabilità di un concorso morale a carico del soggetto mero connivente – si è concluso per la responsabilità penale dello stesso, a titolo di omissione di soccorso[59].

La condotta omissiva del soggetto che assista passivamente alla commissione di un delitto in totale indifferenza, non ponendo in essere alcun contributo materiale o morale alla realizzazione dell’evento[60], integra tanto l’elemento oggettivo[61] quanto il dolo[62] del reato di cui al 593 comma 2[63]. Il soggetto potrà sottrarsi alla responsabilità solo quando ricorrano gli estremi dello stato di necessità[64].

Il problema della connivenza degli appartenenti alle forze dell’ordine ha suscitato un’attenzione particolare. Con riferimento alla riconducibilità della stessa nell’alveo del concorso omissivo, giurisprudenza e dottrina prevalenti hanno reperito, in capo ai soggetti alle stesse appartenenti, un generale obbligo di garanzia d’impedire reati altrui; muovendo dall’interpretazione dell’ordinamento complessivamente inteso, e

1. Bancarotta: esempio d’abolitio e successione

Il fenomeno di diritto intertemporale nel settore penale può avere ad oggetto:

a)     la fattispecie legale astratta[1];

b)    la disciplina della fattispecie legale astratta[2];

c)     la fattispecie legale astratta e, contemporaneamente, la sua disciplina.

Nel primo caso, viene ridefinito il perimetro del penalmente rilevante[3]. In caso di successione di norme meramente modificative della fattispecie, non viene in discussione la rilevanza del fatto che l’ordinamento continua a configurare come reato, ma la sua regolamentazione[4].

Se il fenomeno della successione di leggi penali ha per oggetto non solo la fattispecie legale e astratta, ma anche la sua disciplina, è meno agevole stabilire il confine tra abolitio criminis e successione di norme modificative della disciplina[5]. L’abolitio consegue alla corrispondente modifica normativa della fattispecie legale astratta.

Soltanto nell’ipotesi della trasformazione dell’illecito in amministrativo (depenalizzazione), l’abolizione del reato si realizza, per lo più sostituendosi la nuova sanzione alla precedente, e incidendo sulla norma incriminatrice, ma non sulla struttura della fattispecie[6].

Domandiamoci se, a seguito dell’intervento normativo sulla disposizione incriminatrice dettata dall’articolo 263 comma 2, numero 1, legge fallimentare, ad opera dell’articolo 147 decreto legislativo numero 5 del 2006, con riferimento all’ipotesi di bancarotta patrimoniale o societaria nell’amministrazione controllata, si sia verificata abolitio criminis, ai fini della revoca della sentenza di condanna ex 673 procedura penale, ovvero successione di fattispecie incriminatici.

La novella[7] ha introdotto una riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, in particolare abrogando il titolo IV del regio decreto 16 marzo 1942, numero 267, relativo all’amministrazione controllata. Compreso quello presente nella norma incriminatrice di cui al 236 comma 2 numero 1, il cui campo operativo sembra essere circoscritto ai soli fatti di bancarotta – fraudolenta o semplice – commessi dal ceto gestorio di società ammesse alla procedura di concordato preventivo.

La modifica legislativa pone il problema della corretta lettura dei canoni successori in materia di norme penali, regolati, secondo disposto dell’articolo 2, dai principi fondamentali della irretroattività della norma incriminatrice più sfavorevole, e della retroattività di quella più favorevole – lex mitior – abbia, quest’ultima, contenuto abrogativo o meramente modificativo della disciplina precedente. La riflessione deve mirare a stabilire se si sia di fronte ad un’ipotesi di continuità punitiva (quarto comma articolo 2) con applicazione della disciplina più favorevole (salvo eventuale limite di pronunciata sentenza irrevocabile), ovvero ad un caso di vera abolito criminis (secondo comma articolo 2); la quale ha forza di travolgere il giudicato di condanna[8].

L’avvicendarsi delle norme dà origine a conflitti tra esse, col carico, per l’ordinamento, d’individuare i limiti di efficacia delle stesse. Per accertare l’abolitio criminis, l’interprete deve procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, al fine di verificare la sussistenza di uno spazio comune[9].

Se l’intervento legislativo posteriore altera la fisionomia della fattispecie, sopprimendo un elemento strutturale della stessa e la figura di reato in essa descritta, ci si trova di fronte a un’ipotesi di abolitio criminis[10].

Il principio di retroattività della legge abolitrice[11] finisce per acquisire rilievo sotto il profilo dell’articolo 3 della Carta (principio d’eguaglianza), e s’impone in forza del modello di diritto penale del fatto accolto dal nostro ordinamento.

Il Giudice delle Leggi[12] ha sottolineato che il principio è legato ad una concezione oggettiva del diritto penale, che emerge dal complessivo tessuto dei precetti costituzionali[13]. Se la valutazione del legislatore in ordine al disvalore del fatto muta, nel senso di ritenere che quel presidio non sia più necessario od opportuno, tale cambiamento deve riverberarsi a vantaggio anche di coloro che abbiano posto il fatto in un momento anteriore.

Il legislatore ha contestualizzato il reato di bancarotta nelle diverse procedure concorsuali, diversificando le modalità d’offesa dello stesso bene e attribuendo alle varie ipotesi contemplate valenza autonoma.

I presupposti oggettivi e le condizioni operative delle diverse procedure caratterizzano, di volta in volta, lo schema della bancarotta, rendendolo unico nel contesto in cui è chiamato ad operare e delineando il relativo profilo di tipicità.

In particolare, la bancarotta fraudolenta commessa da amministratore di società in amministrazione controllata[14], è un reato di pericolo e non di danno. Tutela, in via anticipata, l’interesse dei creditori all’integrità della garanzia offerta dal patrimonio dell’impresa commerciale esercitata in forma societaria, e non richiede che alla procedura alternativa minore faccia seguito la dichiarazione di fallimento, perché si è inteso sottolineare la diversa intensità dell’offesa all’interesse protetto, secondo il contesto concorsuale in cui la stessa si realizza[15].

La citata norma incriminatrice prevede fattispecie plurime ed autonome fra loro, che fanno specifico richiamo a due procedure distinte e che non possono essere virtualmente equiparate a quella generica di «procedure concorsuali prefallimentari».

Consolidata giurisprudenza è schierata nel senso che il decreto di ammissione all’amministrazione controllata ripete, nell’ambito della corrispondente fattispecie di bancarotta, natura ed effetti della sentenza dichiarativa di fallimento, ed integra un elemento costitutivo del reato, non una mera condizione di punibilità; presupponendo questa un reato già strutturalmente perfetto, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo. Solo per effetto dell’ammissione all’amministrazione controllata, determinate condotte del ceto gestorio della società si connotano come bancarotta, ed è al momento di tale configurazione che va relazionata l’applicazione di determinati istituti, sostanziali e processuali, quali: prescrizione, indulto, competenza per territorio[16].

La concezione del fatto tipico come insieme/somma degli elementi incarnanti il volto di una specifica figura di reato[17], impera[18].

L’articolo 147 del decreto legislativo numero 5 del 2006 non si è limitato ad intervenire sulla normativa «esterna» relativa all’istituto, ed ha eliminato ogni riferimento a questo nella disposizione incriminatrice; che risulta amputata di un suo elemento strutturale. E non è stata emanata contestualmente una disposizione transitoria che disciplini gli effetti dell’abrogazione di questo elemento.

Se il provvedimento giurisdizionale di ammissione all’amministrazione controllata è elemento costitutivo del reato, la soppressione di ogni riferimento ad esso coinvolge necessariamente la cancellazione dell’articolo 236 legge fallimentare, nella parte in cui richiama il detto istituto e fa dipendere dall’operatività del medesimo la punibilità della condotta.

L’intervento demolitorio ha prodotto l’effetto dell’abolitio criminis tipica e retroattiva.

Il secondo comma dell’articolo 2, al pari del primo, postula un rapporto diretto tra norma e “fatto” (da intendersi, quest’ultimo, «in senso stretto»): l’insieme degli elementi oggettivi, descritti nella fattispecie incriminatrice, che individuano e caratterizzano ogni singolo reato, quale forma di offesa ad uno o più beni giuridici[19].

Il testo vigente dell’articolo 236 comma 2 numero 1 del regio decreto 267 del 1942, descrive un «fatto» diverso da quello indicato nel precedente testo. Circoscrive l’area di punibilità alle sole ipotesi di bancarotta concordataria, e toglie rilevanza penale a quelle connesse all’amministrazione controllata.

Data la ritenuta autonomia di queste ultime rispetto alle prime, l’effetto abrogativo, limitatamente ai fatti espunti dal perimetro del novum, si pone come conclusione ineludibile ed opera retroattivamente[20].

Il presupposto oggettivo dell’amministrazione controllata era la «temporanea difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni», mentre quello del concordato preventivo è lo «stato di crisi», da intendersi anche come «stato di insolvenza»[21].

L’amministrazione controllata aveva come finalità primaria il risanamento dell’impresa e il ripristino della sua solvibilità[22]. Non aveva natura liquidatoria, né effetto immediatamente satisfattivo delle pretese creditorie, ma dilatorio, nel senso che il debitore era obbligato a soddisfare integralmente tali pretese dopo la chiusura della procedura, se il risanamento finanziario era stato conseguito.

La struttura normativa del contatto preventivo prescinde da qualsiasi idea di necessaria protrazione dell’attività imprenditoriale, ed è orientata ad assicurare effetti meramente liquidativi dei crediti[23].

La formale abrogazione di una norma incriminatrice non sempre rende penalmente indifferente la condotta in essa descritta, e non sempre determina una totale abolitio criminis. La perdita di rilevo di una certa classe di fatti si realizza soltanto quando, a seguito della soppressione, integrale o parziale, della fattispecie, detti fatti non risultano più conformi a nessun’altra fattispecie legale.

Può accadere che il sistema giuridico risultante dopo la modificazione legislativa, continui ad allegare rilevanza a classi di fatti descritti dalla norma incriminatrice considerata, perché inquadrabili o in una fattispecie già prevista dall’ordinamento giuridico, ovvero in altra fattispecie introdotta contestualmente alla soppressione di quella previgente. In questa ipotesi si parla di «abrogatio sine abolitione»[24].

L’abolizione del reato può essere anche parziale, e si realizza quando l’intervento del legislatore elimina una parte soltanto della fattispecie o, contestualmente alla soppressione di una norma incriminatrice di più ampio respiro, introduce in sostituzione altra norma speciale, che finisce per ricoprire un’area di punibilità meno ampia.

Nel caso d’esempio da noi analizzato, la riforma, intervenendo direttamente sulla fattispecie incriminatrice della bancarotta impropria connessa all’amministrazione controllata, l’ha abrogata senza il contestuale «innesto» nel sistema di una nuova disposizione collegata alla soppressa, e contenente una diversa regolamentazione della fattispecie; sicché non v’è spazio per un confronto tra fattispecie legali in successione temporale, difettando il necessario termine di paragone[25].

2. Contraffazione, truffa, millanteria

Il millantato credito si realizza quando l’agente si fa dare o promettere denaro col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o di doverlo remunerare[26]. La condotta realizza un mendacio in danno del «compratore di fumo»[27].

Il reato si consuma nel momento in cui l’agente si fa promettere l’utilità. Non è previsto come elemento costitutivo del reato che l’agente effettivamente condizioni l’attività del pubblico ufficiale[28].

Con la fattispecie si realizza una tutela anticipata. Pertanto ad essere integrato, basta la dazione/promessa di un’utilità, anche non patrimoniale. E, ai fini della configurabilità dell’illecito, non assume rilievo il fatto che il pubblico ufficiale abbia o meno emesso il provvedimento favorevole. Tenuto conto del momento consumativo, il reato si realizza anche nel caso in cui il provvedimento favorevole già esista, ma sia ignoto al compratore, che concluda l’accordo con l’agente[29].

Aperta è, in dottrina e giurisprudenza, la questione circa la possibilità che millantato credito e truffa possano concorrere. E riguarda elusivamente la fattispecie contenuta nel primo comma del 346, relativa al fatto di chi, millantando credito presso un pubblico ufficiale, riceve denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione.

L’orientamento dottrinario prevalente, seguito da una parte minoritaria della giurisprudenza, ritiene che, in base al principio di consunzione, il millantato credito assorbe la truffa[30].

Un diverso orientamento, minoritario in dottrina, prevalente in giurisprudenza, ritiene che tra i due reati sia configurabile il concorso formale, perché tutelano interessi distinti ed è diverso il mezzo utilizzato per la loro commissione[31].

Un problema di concorso in relazione all’ipotesi di cui al comma secondo, non sembra destinato a porsi. Il soggetto attivo non si propone attraverso un’attività d’intermediazione, come nell’ipotesi base, ma si presenta quale strumento di corruzione di un funzionario pubblico. Con la conseguenza che, se realizza effettivamente l’attività di corruzione, concorre nel delitto di cui agli articoli 318-319. Mentre, se si appropria della retribuzione, risponderà del reato di cui al capoverso dell’articolo.

Ciò che differenzia le due ipotesi di millantato credito è l’elemento del «pretesto»; che richiama il mendacio e l’inganno in quanto corrisponde alla falsa causa addotta dall’agente per indurre ad una prestazione patrimoniale, diversamente non ottenibile[32].

Si tratta di fattispecie che ricalca pienamente la struttura della truffa, e che consiste, secondo la definizione di un’autorevole dottrina, in una frode volgare tesa al privato, col pretesto di una corruzione che non si ha nessuna intenzione d’intraprendere[33].

Non ha mai trovato accoglimento la teoria, sostenuta da alcuni autori, che ricostruisce la figura criminosa del millantato credito in termini di «traffico d’influenze illecite»[34]. Appare decisiva la considerazione che il rapporto implica l’affermazione, da parte dell’agente, di una capacità di influire «presso un pubblico ufficiale o un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio». Relativamente al vanto presso esponenti politici, non è stata accertata l’intestazione di una simile qualità. Con la conseguenza che viene a mancare un elemento essenziale del reato, non rilevando che gli esponenti politici presso i quali si vanti credito abbiano (essi solo) la capacità d’influire presso pubblici ufficiali o pubblici impiegati prestanti un pubblico servizio. In tal caso, si può configurare truffa. Anche aggravata, ex 61, numero 7.

3. Il concorso

Norma cardine del sistema relativo al concorso di persone nel reato è l’articolo 110.

La funzione di tale disposizione[35] è quella di rendere tipici atti e condotte che di per sé sarebbero atipici e penalmente irrilevanti. L’esempio tradizionale è la rapina perpetrata da più soggetti tra loro in concorso. In assenza della clausola, il comportamento del “palo”[36] sarebbe lecito e penalmente irrilevante, pur essendo di solare evidenza l’importanza della sua opera di sorveglianza sul corretto andamento dell’azione delittuosa.

Le forme di manifestazione di concorso di persone nel reato sono: materiale e morale. Il primo consiste nel porre in essere uno o più atti materiali che contribuiscono casualmente alla realizzazione dell’evento[37]. Il secondo si verifica allorché si fa sorgere, o si rafforza, l’altrui proposito criminoso[38].

Delicati sono i problemi che si pongono in relazione all’individuazione dell’elemento psicologico e del nesso di causalità nel concorso di persone nel reato, e segnatamente nel concorso morale. Escluso pacificamente il concorso colposo nel delitto doloso – argomentato dal combinato disposto degli articoli 42, comma 2, e 113 – con riferimento al concorso doloso nel delitto doloso, è d’uopo rilevare che il dolo di concorso si atteggia come previsione e volontà di collaborare all’altrui azione criminosa.

Il nesso di causalità si configura in modo diverso rispetto alla fattispecie monosoggettiva, dovendo l’azione recare un contributo causale, anche minimo, all’evento. Incertezze interpretative sorgono allorquando si cerchi di tracciare i confini tra concorso di persone nel reato – con particolare riguardo al concorso morale – e connivenza[39]. Il problema, di non poco rilievo pratico, è stato risolto in giurisprudenza seguendo due strade:

a)     quella del concorso nel reato mediante omissione;

b)    quella del concorso morale.

L’orientamento che ha ricondotto la connivenza al concorso omissivo ha anticipato la categoria del reato omissivo improprio. Esso nasce dalla combinazione dell’articolo 40 comma 2 (clausola di equivalenza) con le diverse norme di parte speciale che contemplano le singole fattispecie criminose convertibili[40].

A prescindere dalla tesi che si accolga in ordine alla natura giuridica dei reati passibili di conversione nella forma omissiva, ex articolo 40 cpv, è sempre necessaria la sussistenza, in capo al soggetto attivo del reato, di un obbligo giuridico d’impedire l’evento (obbligo di garanzia). La dottrina prevalente ritaglia, all’interno della categoria generale dell’obbligo di garanzia, le figure dell’obbligo di protezione[41] e dell’obbligo di controllo[42].

Nella selezione degli obblighi di garanzia[43], risulta pacificamente accolta la «teoria mista», in base alla quale può dirsi che su un soggetto gravi un obbligo di garanzia solo ove questo derivi da una fonte formale (legge o contratto) e vi sia l’effettiva presa in carico del bene[44].

Parte della giurisprudenza, minoritaria e risalente, ha ritenuto applicabile il concorso omissivo nel caso della connivenza, tentando di reperire un obbligo di garanzia in capo al soggetto che passivamente assiste alla perpetrazione di un reato[45]. La giurisprudenza prevalente critica l’orientamento testé enunciato, sostenendo l’estrema genericità del riferimento all’obbligo di garanzia ex articolo 2 Costituzione. Tale orientamento ritiene possibile l’accesso alla tesi del concorso omissivo proprio perché, per i cittadini, manca un obbligo di garanzia generalizzato di impedire gli altrui reati. E perché, in virtù del comportamento passivo, l’agente non arreca alcun contributo alla realizzazione del fatto attraverso il sostegno all’altrui condotta criminosa[46].

Si argomenta dal disposto degli articoli 52 e 54, e in particolare dalla figura del «soccorso difensivo». Esso è facoltativo, valendo soltanto a scriminare il fatto delittuoso commesso per la necessità di difendere un diritto altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, o per salvare altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona.

A contrario, si argomenta della presenza di norme che sanciscono specifici obblighi impeditivi a carico di soggetti ben determinati[47], talora anche autonomamente sanzionati[48], nonché dal fatto che il privato, esclusi taluni casi particolari e di stretta interpretazione[49], ha soltanto la facoltà di cooperare ai fini di polizia[50].

Gli orientamenti giurisprudenziali che hanno affrontato il problema della connivenza in termini di concorso morale sono essenzialmente tre:

1)     una parte della giurisprudenza ritiene che il semplice assistere alla perpetrazione di un reato, pur senza contribuirvi materialmente o moralmente, è idoneo a rafforzare il proposito criminoso del soggetto agente; il quale trae maggior sicurezza e determinazione dalla presenza di un altro soggetto che non interviene, o comunque non manifesta la propria disapprovazione[51];

2)     altra parte della giurisprudenza sostiene l’impossibilità di configurare un concorso morale nel caso di connivenza. Sottolinea che l’atteggiamento del connivente è di per sé neutro e che, per aversi responsabilità a titolo di concorso morale, è pur sempre necessario un contributo causale alla realizzazione dell’evento nella forma dell’effettivo rafforzamento dell’altrui proposito[52].

3)     II terzo orientamento – prevalente e condivisibile – sostiene che il problema[53] non possa essere risolto in astratto, ma occorre compiere ogni volta una valutazione del caso concreto[54].

Di fronte ad un comportamento meramente omissivo, o alla presenza dell’imputato all’ideazione/preparazione/esecuzione del delitto, il giudice deve valutarne, con rigore logico, il comportamento[55].

Non può, però, non ritenersi partecipe colui che manifesta – anche tacitamente – la sua volontaria adesione all’altrui piano criminoso, anche quando la realizzazione di questo abbia inizio prima che ne venisse a conoscenza, ma sia ancora in corso. È l’ipotesi di reato permanente, che postula il protrarsi nel tempo della condotta criminosa. Esplicata è una «qualsiasi attività», nell’ambito della realizzazione collettiva, che si esaurisca in un rafforzamento della volontà dei compartecipi di commettere il delitto o in un contributo – qualunque ne sia natura e incidenza – nell’eziologia e dinamica, nella consumazione collettiva[56]. La semplice presenza inattiva, la sola connivenza, il non aver impedito la consumazione del reato, non costituiscono concorso morale. L’articolo 110 richiede almeno il volontario rafforzamento, il contributo ideologico, o quantomeno un’incidenza nel determinismo psicologico, dell’autore[57].

Pare doversi riconoscere la responsabilità penale per concorso morale nella forma della connivenza, del soggetto che assiste passivamente alla perpetrazione del reato da parte di un altro soggetto, sul quale il primo potrebbe ben esercitare la sua influenza. Sarà necessario che il connivente sia consapevole del potere d’influenza sull’agente, e ciononostante non si attivi per impedire l’evento[58].

In molti casi, dalla prassi giudiziaria affrontati – pur nella ritenuta inconfigurabilità di un concorso morale a carico del soggetto mero connivente – si è concluso per la responsabilità penale dello stesso, a titolo di omissione di soccorso[59].

La condotta omissiva del soggetto che assista passivamente alla commissione di un delitto in totale indifferenza, non ponendo in essere alcun contributo materiale o morale alla realizzazione dell’evento[60], integra tanto l’elemento oggettivo[61] quanto il dolo[62] del reato di cui al 593 comma 2[63]. Il soggetto potrà sottrarsi alla responsabilità solo quando ricorrano gli estremi dello stato di necessità[64].

Il problema della connivenza degli appartenenti alle forze dell’ordine ha suscitato un’attenzione particolare. Con riferimento alla riconducibilità della stessa nell’alveo del concorso omissivo, giurisprudenza e dottrina prevalenti hanno reperito, in capo ai soggetti alle stesse appartenenti, un generale obbligo di garanzia d’impedire reati altrui; muovendo dall’interpretazione dell’ordinamento complessivamente inteso, e