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Studiare per il concorso in magistratura (parte V)

1. Danno e svalutazione

Gli effetti della svalutazione monetaria[1] sono addebitati all’obbligato, non quale effetto della sua responsabilità[2], ma semplicemente perché, nel lasso di tempo intercorrente tra sorgere del credito – quale effetto del fatto dannoso – e la sua liquidazione, l’espressione monetaria del bene deteriorato o distrutto è mutata.

La rivalutazione non corrisponde alla funzione esplicata, nel quadro dei debiti di valuta, in rapporto al «maggior danno» di cui al 1224 secondo comma[3].

Il 1224 non è richiamato dal 2056. La mora, che pure è regolata anche nelle obbligazioni da fatto illecito come mora automatica[4], non ha nulla a che vedere, in dette obbligazioni, con la rivalutazione monetaria; effetto della natura del credito di valore (di per sé sottratto al rischio della svalutazione, poiché il suo importo in moneta deve essere determinato al momento della liquidazione, in corrispondenza ad un valore economico reale). Di tale caratteristica è consapevole la giurisprudenza, che ha elaborato una serie di regole processuali peculiari, estranee al danno da mora nelle obbligazioni pecuniarie[5].

Il mancato godimento di un bene, protrattosi per una pluralità di anni, è un credito risarcitorio per lucro cessante, che matura anno per anno ed è suscettibile di rivalutazione monetaria, con attribuzione degli interessi sulla somma rivalutata solo a partire da ciascuna annualità. Tale modalità di attribuzione si giustifica quando il bene è stato sottratto illecitamente al godimento del titolare, pur esistendo in rerum natura. Se il bene è distrutto e non può essere restituito, il risarcimento è necessariamente tradotto in una somma di denaro (danno emergente), mentre il lucro cessante può aversi solo per il ritardo nella corresponsione della somma.

I «frutti»[6] del bene rimpiazzato dalla somma di denaro non possono cumularsi con gli interessi legali dalla data del fatto.

I fitti perduti sono un modo di valutazione del danno (lucro cessante) prodotto dalla perdita del bene e non possono cumularsi, per lo stesso periodo di tempo, con gli interessi legali sulla somma liquidata come equivalente del bene perduto.

Esiste un orientamento secondo cui, in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, la rivalutazione della somma liquidata e gli interessi sulla somma rivalutata assolvono due diverse funzioni:

1)     la prima mira alla reintegrazione del danneggiato nella situazione patrimoniale anteriore all’illecito;

2)     i secondi hanno natura compensativa, con la conseguenza che sono compatibili con la rivalutazione e vanno corrisposti nella somma rivalutata, con decorrenza dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso.

Con la suddetta forma di liquidazione, però, il creditore riceve di più del danno effettivamente subito, perché anche gl’interessi vengono rivalutati in ragione del deprezzamento del valore intrinseco della moneta, di guisa che – senza alcuna base legale – vengono anch’essi a ricadere nella categoria dei debiti di valore.

Il debito d’interessi è, per sua natura, pecuniario[7]. E, fuori dai casi previsti dal 1283, si avrebbe una sorta d’anatocismo[8].

La giurisprudenza ha adottato la categoria degli interessi compensativi[9], che prescindono dalla mora e dai presupposti di liquidità ed esigibilità (ex 1282).

Nell’ambito del 1499[10], si valuta la cosa oggetto di vendita.

Si ha riguardo all’appropriazione di frutti e proventi da parte del compratore che non ha ancora pagato il prezzo ed al corrispondente depauperamento a carico di chi non ha ricevuto ancora il controvalore, pur avendo consegnato la cosa[11].

L’articolo 1219 comma 2, numero 1, che regola la mora ex re nelle obbligazioni da fatto illecito, rende avvertiti che il ritardo va «compensato», così come viene risarcito il danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie[12].

L’equivalente pecuniario, nei debiti di valore, soddisfa il creditore per il bene perduto, ma non anche il mancato godimento delle utilità che avrebbe potuto dare il bene se fosse stato rimpiazzato immediatamente con la somma di danaro equivalente. Detto mancato godimento, nel tempo, concreta un danno da ritardo[13], e[14] non consiste nei frutti del bene[15], ma soltanto nei frutti della somma equivalente al valore del bene al momento del fatto, di cui il debitore ha ritardato il pagamento[16].

Con ricorso ai criteri dettati dal 2056, il debitore in mora deve risarcire il danno subito dal creditore per il ritardo col quale ottiene la disponibilità dell’equivalente pecuniario del debito di valore. Non si tratta di danno presunto ex lege[17], ma di danno che dev’essere allegato e provato, con tutti i mezzi, anche presuntivi, e mediante l’utilizzo dei criteri equitativi[18].

Non può condividersi la tesi che, essendo il danno un tutto unitario, la sua liquidazione tramite la tecnica propria dei debiti di valore esaurirebbe ogni sua componente[19].

Il diritto positivo[20] stabilisce che non è integrale risarcimento l’attribuzione della somma corrispondente al danno emergente, dovendo essere risarcito il lucro cessante, rappresentato dal mancato godimento della cosa perduta/danneggiata e del suo equivalente in denaro.

D’altra parte[21], l’attribuzione degli interessi quale lucro cessante, costituisce solo una modalità di liquidazione equitativa, salvo prova diversa, e non un’obbligazione accessoria di un’obbligazione di valore. Se quest’ultima potesse essere attribuita in forma specifica (articolo 2058), il lucro cessante si potrebbe individuare nella mancata percezione dei vantaggi derivanti dal possesso del bene[22].

Nel caso di risarcimento per equivalente, e cioè nel caso in cui una somma di denaro sostituisce il b

1. Danno e svalutazione

Gli effetti della svalutazione monetaria[1] sono addebitati all’obbligato, non quale effetto della sua responsabilità[2], ma semplicemente perché, nel lasso di tempo intercorrente tra sorgere del credito – quale effetto del fatto dannoso – e la sua liquidazione, l’espressione monetaria del bene deteriorato o distrutto è mutata.

La rivalutazione non corrisponde alla funzione esplicata, nel quadro dei debiti di valuta, in rapporto al «maggior danno» di cui al 1224 secondo comma[3].

Il 1224 non è richiamato dal 2056. La mora, che pure è regolata anche nelle obbligazioni da fatto illecito come mora automatica[4], non ha nulla a che vedere, in dette obbligazioni, con la rivalutazione monetaria; effetto della natura del credito di valore (di per sé sottratto al rischio della svalutazione, poiché il suo importo in moneta deve essere determinato al momento della liquidazione, in corrispondenza ad un valore economico reale). Di tale caratteristica è consapevole la giurisprudenza, che ha elaborato una serie di regole processuali peculiari, estranee al danno da mora nelle obbligazioni pecuniarie[5].

Il mancato godimento di un bene, protrattosi per una pluralità di anni, è un credito risarcitorio per lucro cessante, che matura anno per anno ed è suscettibile di rivalutazione monetaria, con attribuzione degli interessi sulla somma rivalutata solo a partire da ciascuna annualità. Tale modalità di attribuzione si giustifica quando il bene è stato sottratto illecitamente al godimento del titolare, pur esistendo in rerum natura. Se il bene è distrutto e non può essere restituito, il risarcimento è necessariamente tradotto in una somma di denaro (danno emergente), mentre il lucro cessante può aversi solo per il ritardo nella corresponsione della somma.

I «frutti»[6] del bene rimpiazzato dalla somma di denaro non possono cumularsi con gli interessi legali dalla data del fatto.

I fitti perduti sono un modo di valutazione del danno (lucro cessante) prodotto dalla perdita del bene e non possono cumularsi, per lo stesso periodo di tempo, con gli interessi legali sulla somma liquidata come equivalente del bene perduto.

Esiste un orientamento secondo cui, in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, la rivalutazione della somma liquidata e gli interessi sulla somma rivalutata assolvono due diverse funzioni:

1)     la prima mira alla reintegrazione del danneggiato nella situazione patrimoniale anteriore all’illecito;

2)     i secondi hanno natura compensativa, con la conseguenza che sono compatibili con la rivalutazione e vanno corrisposti nella somma rivalutata, con decorrenza dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso.

Con la suddetta forma di liquidazione, però, il creditore riceve di più del danno effettivamente subito, perché anche gl’interessi vengono rivalutati in ragione del deprezzamento del valore intrinseco della moneta, di guisa che – senza alcuna base legale – vengono anch’essi a ricadere nella categoria dei debiti di valore.

Il debito d’interessi è, per sua natura, pecuniario[7]. E, fuori dai casi previsti dal 1283, si avrebbe una sorta d’anatocismo[8].

La giurisprudenza ha adottato la categoria degli interessi compensativi[9], che prescindono dalla mora e dai presupposti di liquidità ed esigibilità (ex 1282).

Nell’ambito del 1499[10], si valuta la cosa oggetto di vendita.

Si ha riguardo all’appropriazione di frutti e proventi da parte del compratore che non ha ancora pagato il prezzo ed al corrispondente depauperamento a carico di chi non ha ricevuto ancora il controvalore, pur avendo consegnato la cosa[11].

L’articolo 1219 comma 2, numero 1, che regola la mora ex re nelle obbligazioni da fatto illecito, rende avvertiti che il ritardo va «compensato», così come viene risarcito il danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie[12].

L’equivalente pecuniario, nei debiti di valore, soddisfa il creditore per il bene perduto, ma non anche il mancato godimento delle utilità che avrebbe potuto dare il bene se fosse stato rimpiazzato immediatamente con la somma di danaro equivalente. Detto mancato godimento, nel tempo, concreta un danno da ritardo[13], e[14] non consiste nei frutti del bene[15], ma soltanto nei frutti della somma equivalente al valore del bene al momento del fatto, di cui il debitore ha ritardato il pagamento[16].

Con ricorso ai criteri dettati dal 2056, il debitore in mora deve risarcire il danno subito dal creditore per il ritardo col quale ottiene la disponibilità dell’equivalente pecuniario del debito di valore. Non si tratta di danno presunto ex lege[17], ma di danno che dev’essere allegato e provato, con tutti i mezzi, anche presuntivi, e mediante l’utilizzo dei criteri equitativi[18].

Non può condividersi la tesi che, essendo il danno un tutto unitario, la sua liquidazione tramite la tecnica propria dei debiti di valore esaurirebbe ogni sua componente[19].

Il diritto positivo[20] stabilisce che non è integrale risarcimento l’attribuzione della somma corrispondente al danno emergente, dovendo essere risarcito il lucro cessante, rappresentato dal mancato godimento della cosa perduta/danneggiata e del suo equivalente in denaro.

D’altra parte[21], l’attribuzione degli interessi quale lucro cessante, costituisce solo una modalità di liquidazione equitativa, salvo prova diversa, e non un’obbligazione accessoria di un’obbligazione di valore. Se quest’ultima potesse essere attribuita in forma specifica (articolo 2058), il lucro cessante si potrebbe individuare nella mancata percezione dei vantaggi derivanti dal possesso del bene[22].

Nel caso di risarcimento per equivalente, e cioè nel caso in cui una somma di denaro sostituisce il b