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Tabulati telefonici: la sentenza della CGUE e le reazioni della giurisprudenza italiana

nota a Cass. Pen., Sez. II, sentenza n. 33116/2021
Tonnara di Vendicari, Noto
Ph. Simona Loprete / Tonnara di Vendicari, Noto

Abstract

La Corte di giustizia dell’UE ha chiarito che il diritto europeo permette l’accesso ai tabulati solo per perseguire gravi reati e prevenire gravi minacce e che il relativo potere autorizzatorio deve spettare non al PM ma al giudice.

La Corte di cassazione esclude l’efficacia diretta di questi principi nel nostro Paese.

 

Il ricorso per cassazione

Il difensore di una persona sottoposta a custodia in carcere per associazione a delinquere ed altre ipotesi di reato ha impugnato l’ordinanza del tribunale del riesame che ha confermato la misura cautelare.

Ha affermato che la motivazione dell’ordinanza del TDR è viziata per violazione di legge e manifesta illogicità avendo valorizzato ai fini della valutazione della gravità indiziaria dati tratti da tabulati telefonici acquisiti dal pubblico ministero (di seguito PM) procedente.

I predetti vizi, nell’interpretazione proposta dal ricorrente, sono collegati alla decisione assunta dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea (di seguito CGUE), con sentenza del 2 marzo 2021 nel procedimento H.K., C-746/18[1], particolarmente riguardo all’omessa indicazione, ad opera del PM, dei motivi che rendevano indispensabile ai fini della prosecuzione dell’indagine la violazione della riservatezza conseguente alla divulgazione dei dati contenuti nei tabulati.

Il difensore ha proposto ulteriori motivi che qui non rilevano.

 

La decisione della Corte di cassazione

Il ricorso è infondato.

È innegabile che la decisione della CGUE menzionata dalla difesa abbia ristretto alle sole procedure finalizzate alla lotta contro gravi forme di criminalità o alla prevenzione di gravi minacce contro l’incolumità pubblica la facoltà delle autorità pubbliche di accedere ai dati relativi alle comunicazioni telematiche degli individui o all’ubicazione dei dispositivi utilizzati per le comunicazioni medesime[2].

La decisione deve essere tuttavia confrontata con la pertinente legislazione italiana nell’interpretazione che ne dà la Suprema Corte[3].

Non può essere inoltre ignorato che, sempre secondo la giurisprudenza di legittimità, l’art. 132 del D. Lgs. n. 196/2003 (Codice della Privacy)[4] è compatibile con le direttive europee sulla riservatezza. Difatti la deroga ivi prevista alla privacy delle comunicazioni è temporalmente limitata, serve esclusivamente all’accertamento e alla repressione dei reati ed è subordinata all’emissione di un provvedimento del PM che è un’autorità giurisdizionale indipendente.

Ed ancora, occorre tener conto che, sebbene il citato art. 132 non richieda alcuna soglia minima di gravità dei reati per cui si procede, la coerenza col diritto eurounitario è comunque assicurata dalla necessità della proporzione tra la gravità dell’ingerenza nel diritto alla vita privata e la gravità del reato sul quale si indaga. La verifica di tale proporzione, non prestandosi a rigide codificazioni, deve essere affidata al giudice di merito (Cass. Pen., Sez. III, n. 48737/2019).

L’insieme di queste considerazioni fa sì che il principio espresso dalla CGUE sia inapplicabile nel caso in esame: la decisione del 2 marzo 2021 è infatti “del tutto generica”, peccando per omissione riguardo all’individuazione dei “casi nei quali i dati di traffico telematico e telefonico possono essere acquisiti ("lotta contro le forme gravi di criminalità" o "prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica"); è del resto evidente che si tratta di aspetti che “non possono essere disciplinati da singole (e potenzialmente contrastanti) decisioni giurisprudenziali, dovendosi demandare al legislatore nazionale il compito di trasfondere i principi interpretativi delineati dalla Corte in una legge dello Stato. Da qui l'impossibilità di ritenere che la sentenza della CGUE possa trovare diretta applicazione in Italia fino a quando non interverrà il legislatore italiano ed anche europeo in quanto allo stato può e deve ritenersi applicabile l'art. 132 D.Lgs. 196/2003”.

 

Il commento

È opportuno, in omaggio all’aureo principio che vuole i fatti separati dalle opinioni, riportare i due principi enunciati dalla Grande Sezione della CGUE nel dispositivo[5] della sentenza più volte citata la quale - è utile ricordarlo - è stata pronunciata a seguito di una questione pregiudiziale posta dalla Corte suprema dell’Estonia sul significato dell’articolo 15, paragrafo 1, della Direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 luglio 2002[6], avente ad oggetto il trattamento dei dati personali e la tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche.

In sintesi: l’accesso delle autorità pubbliche ai dati relativi alle comunicazioni telematiche degli individui o all’ubicazione dei dispositivi utilizzati per le stesse è consentito solo per il contrasto a forme gravi di criminalità o per la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica; il PM, in quanto parte del giudizio penale, non può disporre egli stesso l’acquisizione di quei dati[7].

Occorre comprendere se e quali effetti possa produrre il chiarimento della CGUE nel nostro ordinamento.

Non si può che partire dalla natura della decisione che, come già sottolineato, costituisce la risposta della Grande Sezione ad una domanda pregiudiziale formulata dalla Corte suprema dell’Estonia  nell’ambito di un giudizio penale svolto in quel Paese nei confronti di una cittadina accusata di vari reati[8] e condannata nei due gradi di merito sulla base di un complesso probatorio di cui fanno parte dati sulle sue comunicazioni elettroniche acquisiti dalla Procura del distretto di Viru.

È indiscutibile che la sentenza della CGUE sia vincolante per il giudice estone.

Si tratta di un principio che la Corte di giustizia europea ha affermato decenni addietro e consolidato nel corso del tempo[9].

Per altro verso, sebbene l’attività interpretativa della CGUE sia limitata al diritto europeo sicché l’interpretazione del diritto statuale spetta al giudice nazionale, è un dato di fatto che i chiarimenti della Corte alle domande pregiudiziali sono invariabilmente occasioni di verifica della compatibilità tra la norma interna e il diritto unionale. Un’evidenza, questa, accentuata dalla formulazione normalmente usata per il dispositivo che mette in primo piano la norma europea per poi subito dopo evidenziare che essa osta ad una norma interna che disponga in un certo modo[10].

Mentre dunque è certa la vincolatività delle decisioni della Corte europea per i giudici nazionali, resta da chiarire quale influenza esse siano capaci di spiegare negli ordinamenti giuridici degli Stati non direttamente interessati nel giudizio a quo.

È certamente d’aiuto il chiarimento offerto dalla Corte europea nel caso CILFIT[11] su una domanda pregiudiziale posta dalla nostra Suprema Corte[12].

Dalla decisione appena menzionata si ricava dunque un preciso principio: se il dubbio interpretativo su una norma europea è posto di fronte ad un giudice nazionale le cui decisioni non siano ulteriormente impugnabili, l’obbligo di rimessione alla corte europea viene meno se quel dubbio verta su una questione sulla quale quest’ultima si sia già pronunciata in via pregiudiziale o si possa contare su una giurisprudenza costante.

Sembrerebbe dunque, a seguire questo approccio, che la decisione di legittimità commentata in questo scritto avrebbe potuto o forse addirittura dovuto accogliere il motivo proposto dalla difesa dal momento che la questione sottostante era sostanzialmente identica a quella già risolta dalla sentenza H.K. del 2 marzo 2021.

D’altro canto, c’è pur sempre da considerare l’indubbia differenza tra diritto legislativo e diritto giurisprudenziale, il peso che essa ha allorché si tratti di importare l’uno o l’altro nell’ordinamento interno di uno Stato estraneo alla loro formazione e l’impegno aggiuntivo richiesto al giudice nazionale allorché sia chiamato a desumere una regola da una decisione giurisprudenziale emessa per la soluzione di un caso concreto[13].

È agevole a questo punto constatare che il collegio cui si deve la sentenza che ha dato spunto a questo scritto ha preferito una strada diversa e non particolarmente persuasiva.

I giudici di legittimità hanno riconosciuto che i principi espressi nelle sentenze CGUE hanno “valore fondante del diritto comunitario con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità” ma hanno subito dopo negato quell’efficacia poiché l’attuale regolamentazione interna dell’acquisizione dei tabulati presenta profili di discrezionalità che solo il legislatore statale può risolvere e problemi applicativi che solo il giudice statale può risolvere ricorrendo al suo prudente apprezzamento.

Ancora di seguito, hanno affermato che la via italiana alla “data retention” trasfusa nell’art. 132 Codice Privacy è compatibile con la Direttiva 2002/58/CE come interpretata da plurime decisioni della CGUE ma, in modo alquanto singolare, hanno tratto questa conclusione attingendo esclusivamente alla giurisprudenza nazionale.

Di più: il collegio della seconda sezione penale ha incentrato le sue considerazioni esclusivamente sul punto n. 1 del dispositivo della sentenza H.K., cioè quello che afferma la necessità di limitare alle gravi forme di criminalità e alla prevenzione delle gravi minacce la possibilità per le autorità pubbliche di accedere ai dati sulle comunicazioni e sull’ubicazione dei dispositivi, ma ha completamente tralasciato il punto n. 2 che esclude il PM dall’area dei soggetti legittimati all’accesso.

Omissione, quest’ultima, tanto più significativa se si considera che, mentre la determinazione di ciò che si intende per reati o minacce gravi richiede un apporto integrativo del legislatore o del giudice o di entrambi, non occorre invece alcun ulteriore approfondimento riguardo alla perdita di legittimazione all’accesso del PM, quale che sia la posizione riconosciuta agli organi dell’accusa pubblica in un determinato ordinamento statuale. Difatti, il punto n. 2 del dispositivo e le chiarissime argomentazioni contenute al riguardo nella motivazione valgono sia per pubblici ministeri autonomi e indipendenti, come è nel nostro Paese, sia per pubblici ministeri subordinati all’Esecutivo.

È quindi fin d’ora chiaro che la procedura delineata dall’art. 132 Codice Privacy, a dispetto della difesa d’ufficio della Cassazione, contrasta, per usare la formula della CGUE, con “l’art. 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, come modificata dalla direttiva 2009/136, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali”.

È altrettanto chiaro che i giudici di legittimità hanno sprecato la preziosa occasione di offrire una guida chiara ai giudici interni e permesso la proliferazione di indirizzi contrastanti.

Così, ad esempio, dopo l’emanazione della sentenza H.K. il Gip di Tivoli e la Corte di assise di Napoli hanno escluso la sua efficacia diretta per le medesime ragioni valorizzate dalla Corte di cassazione[14], il tribunale di Rieti ha inoltrato una domanda pregiudiziale alla stessa CGUE chiedendole di chiarire l’efficacia della sue decisione interpretativa e di valutare “la possibilità di ritenere che il P.M. per come disegnato dall’ordinamento italiano offra sufficienti garanzie di giurisdizionalità, per continuare ad essere titolare in proprio di tale potere di acquisizione[15], il Gip di Roma ha ritenuto di dover disapplicare l’art. 132 Codice Privacy e di fare riferimento alla disciplina prevista dagli artt. 266 e 266-bis c.p.p.[16]

Una piccola giungla interpretativa, come si può vedere, che impone un pesante pedaggio di incertezza a qualsiasi procedimento penale nel quale sia utile o indispensabile la conoscenza dei dati riversati nei tabulati.

Non rimane che confidare in un rapido intervento del legislatore.[17]

 

[1] La sentenza della CGUE è reperibile a questo link.

[2] Più precisamente, ai sensi dell’art. 121, comma 1-bis, lettere h) e i), Codice Privacy, per dati relativi al traffico si intendono quelli sottoposti a trattamento ai fini della trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica o della relativa fatturazione; per dati relativi all’ubicazione si intendono quelli trattati in una rete di comunicazione elettronica o da un servizio di comunicazione elettronica che indica la posizione geografica dell’apparecchiatura terminale dell’utente di un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico.

[3] Così in motivazione: “se, da un lato, è indubitabile che debba attribuirsi ai principi espressi nelle sentenze CGUE il valore fondante del diritto comunitario con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità, dall'altro, l'attività interpretativa del significato e dei limiti di applicazione delle norme comunitarie, operata nelle sentenze CGUE, può avere efficacia immediata e diretta nel nostro ordinamento limitatamente alle ipotesi in cui non residuino, negli istituti giuridici regolati concreti problemi applicativi e correlati profili di discrezionalità che richiedano l'intervento del legislatore nazionale, tanto più laddove si tratti di interpretazioni di norme contenute nelle direttive (cfr., Sez. 2, n. 28523 del 15/04/2021)”.

[4] È la norma che consente al PM di acquisire con decreto motivato i dati relativi al traffico telefonico e al traffico telematico. Ai sensi del suo primo comma, i fornitori del servizio sono tenuti a conservare i dati sul traffico telefonico per 24 mesi e quelli sul traffico telematico per 12 mesi. Tuttavia, il successivo comma 5-bis richiama la disciplina prevista dall’art. 24 L. 167/2017, emesso per attuare l’art. 20 della Direttiva (UE) 2017/541 del Parlamento europeo e del Consiglio sulla lotta contro il terrorismo. Il citato art. 24 prevede che “…al fine di garantire strumenti di indagine efficace in considerazione delle straordinarie esigenze di contrasto del terrorismo, anche internazionale, per le finalità  dell'accertamento e della repressione dei reati di cui agli articoli 51, comma 3-quater, e 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale il termine di conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico nonché dei dati relativi alle chiamate senza risposta, di cui all'articolo 4-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 2015, n. 43, è stabilito in settantadue mesi, in deroga a quanto previsto dall'articolo 132, commi 1 e 1-bis, del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.”.

[5] Ecco il contenuto testuale:

1)      L’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche), come modificata dalla direttiva 2009/136/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, la quale consenta l’accesso di autorità pubbliche ad un insieme di dati relativi al traffico o di dati relativi all’ubicazione, idonei a fornire informazioni sulle comunicazioni effettuate da un utente di un mezzo di comunicazione elettronica o sull’ubicazione delle apparecchiature terminali da costui utilizzate e a permettere di trarre precise conclusioni sulla sua vita privata, per finalità di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati, senza che tale accesso sia circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica, e ciò indipendentemente dalla durata del periodo per il quale l’accesso ai dati suddetti viene richiesto, nonché dalla quantità o dalla natura dei dati disponibili per tale periodo.

2)      L’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, come modificata dalla direttiva 2009/136, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, la quale renda il pubblico ministero, il cui compito è di dirigere il procedimento istruttorio penale e di esercitare, eventualmente, l’azione penale in un successivo procedimento, competente ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione ai fini di un’istruttoria penale.

[6] Il testo della Direttiva è disponibile a questo link.

[7]  Le ragioni che hanno indotto la CGUE a formulare questo secondo principio sono spiegate nei paragrafi 51/57 della sentenza il cui contenuto viene riportato testualmente:

51      Al fine di garantire, in pratica, il pieno rispetto di tali condizioni, è essenziale che l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati sia subordinato ad un controllo preventivo effettuato o da un giudice o da un’entità amministrativa indipendente, e che la decisione di tale giudice o di tale entità intervenga a seguito di una richiesta motivata delle autorità suddette presentata, in particolare, nell’ambito di procedure di prevenzione o di accertamento di reati ovvero nel contesto di azioni penali esercitate. In caso di urgenza debitamente giustificata, il controllo deve intervenire entro termini brevi (v., in tal senso, sentenza del 6 ottobre 2020, La Quadrature du Net e a., C‑511/18, C‑512/18 e C‑520/18, EU:C:2020:791, punto 189 e la giurisprudenza ivi citata).

52      Tale controllo preventivo richiede, tra l’altro, come rilevato, in sostanza, dall’avvocato generale al paragrafo 105 delle sue conclusioni, che il giudice o l’entità incaricata di effettuare il controllo medesimo disponga di tutte le attribuzioni e presenti tutte le garanzie necessarie per garantire una conciliazione dei diversi interessi e diritti in gioco. Per quanto riguarda, più in particolare, un’indagine penale, tale controllo preventivo richiede che detto giudice o detta entità sia in grado di garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, gli interessi connessi alle necessità dell’indagine nell’ambito della lotta contro la criminalità e, dall’altro, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali delle persone i cui dati sono interessati dall’accesso.

53      Qualora tale controllo venga effettuato non da un giudice bensì da un’entità amministrativa indipendente, quest’ultima deve godere di uno status che le permetta di agire nell’assolvimento dei propri compiti in modo obiettivo e imparziale, e deve a tale scopo essere al riparo da qualsiasi influenza esterna [v., in tal senso, sentenza del 9 marzo 2010, Commissione/Germania, C‑518/07, EU:C:2010:125, punto 25, nonché parere 1/15 (Accordo PNR UE‑Canada), del 26 luglio 2017, EU:C:2017:592, punti 229 e 230].

54      Dalle considerazioni che precedono risulta che il requisito di indipendenza che l’autorità incaricata di esercitare il controllo preventivo deve soddisfare, ricordato al punto 51 della presente sentenza, impone che tale autorità abbia la qualità di terzo rispetto a quella che chiede l’accesso ai dati, di modo che la prima sia in grado di esercitare tale controllo in modo obiettivo e imparziale al riparo da qualsiasi influenza esterna. In particolare, in ambito penale, il requisito di indipendenza implica, come rilevato in sostanza dall’avvocato generale al paragrafo 126 delle sue conclusioni, che l’autorità incaricata di tale controllo preventivo, da un lato, non sia coinvolta nella conduzione dell’indagine penale di cui trattasi e, dall’altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento penale.

55      Ciò non si verifica nel caso di un pubblico ministero che dirige il procedimento di indagine ed esercita, se del caso, l’azione penale. Infatti, il pubblico ministero non ha il compito di dirimere in piena indipendenza una controversia, bensì quello di sottoporla, se del caso, al giudice competente, in quanto parte nel processo che esercita l’azione penale.

56      La circostanza che il pubblico ministero sia tenuto, conformemente alle norme che disciplinano le sue competenze e il suo status, a verificare gli elementi a carico e quelli a discarico, a garantire la legittimità del procedimento istruttorio e ad agire unicamente in base alla legge ed al suo convincimento non può essere sufficiente per conferirgli lo status di terzo rispetto agli interessi in gioco nel senso descritto al punto 52 della presente sentenza.

57      Ne consegue che il pubblico ministero non è in grado di effettuare il controllo preventivo di cui al punto 51 della presente sentenza.

[8] Nella sentenza della Grande Sezione (punto 16) è specificato che l’imputata era accusata di vari episodi di furto, dell’uso indebito di una carta di credito altrui e di atti di violenza compiuti in danno di persone partecipanti ad un procedimento giudiziario a suo carico.

[9] Così, ad esempio, nella sentenza del 3 febbraio 1977 (causa 52/76)[9] emessa a seguito di domanda pregiudiziale di un pretore italiano il quale chiedeva tra l’altro di chiarire “Quale efficacia la interpretazione del diritto comunitario data dalla Corte di giustizia abbia per il giudice del merito; se, cioè, ciò che la Corte di giustizia «dice per diritto» vincoli il giudice del merito alla stessa stregua di come il giudice del merito è vincolato dal «punto di diritto» sancito dalla corte di cassazione”, la Corte rispose così: “Il trattato CEE offre elementi per rispondere al giudice nazionale ch'esso deve applicare il diritto comunitario così come la Corte lo ha interpretato. A tal fine, si  dovrà — se ciò è necessario — disapplicare ogni atto interno deviante. Dall'art. 177 del trattato e dalla sua collocazione nel sistema risulta anzitutto escluso che la Corte assolva una funzione consultiva. Quest'articolo attribuisce alla Corte la competenza a «pronunciarsi a titolo pregiudiziale». In difetto di esplicita contraria indicazione, l'attività della Corte deve intendersi unicamente come attività di giurisdizione. L'autorità propria della decisione della Corte trova conferma nell'art. 5 del trattato CEE. In presenza di una norma comunitaria che la Corte dichiari direttamente efficace, il giudice nazionale deve disapplicare la normativa interna deviante. Quest'obbligo è simile a quello che sorge, per il giudice italiano di rinvio, in seguito ad una pronuncia della cassazione che stabilisca il «punto di diritto». L'unica possibilità di discostarsi dalla sentenza della Corte di giustizia si riconduce al fatto che, dopo la pronuncia della Corte stessa, il giudice nazionale ritenga di poter decidere la controversia senza applicare il diritto comunitario. È comunque inammissibile che il giudice a quo possa subordinare il suo dovere di applicare il diritto comunitario (così come esso è stato interpretato dalla Corte di giustizia) ad una pronuncia della corte costituzionale, che gli imponga espressamente di disapplicare la legge interna deviante”.

[10] Si rinvia sul punto a R. Conti, Il giudice “tra” le Corti: diritto europeo, diritto nazionale e dialogo tra le giurisdizioni, bozza della relazione tenuta il 16 settembre 2016 presso la struttura didattica della Corte d’appello di Bari, consultabile a questo link. Secondo l’Autore, questa particolare caratteristica delle decisioni della CGUE sulle domande pregiudiziali fa sì che “in tali casi la pronunzia della Corte di giustizia, oltre ad avere efficacia interpretativa del diritto UE, produce un effetto particolare sulla disposizione interna condizionandone, in caso di giudizio di contrarietà con la disciplina eurounitaria, l’esistenza stessa non solo nel giudizio a quo, ma in tutti gli altri già pendenti o che si presenteranno in futuro”.

[11] Si tratta della sentenza Srl CILFIT e Lanificio di Gavardo SpA contro Ministero della sanità, causa 283/81 del 6 ottobre 1982. È disponibile a questo link.

[12] La Corte di cassazione chiese tra l’altro se “Se il terzo comma dell'art. 177 del Trattato, statuendo che quando una questione del genere di quelle elencate nel primo comma dello stesso articolo è sollevata in un giudizio pendente davanti ad una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di giustizia, sancisca un obbligo di rimessione che non consenta al giudice nazionale alcuna delibazione di fondatezza della questione sollevata ovvero subordini, ed in quali limiti, tale obbligo al preventivo riscontro di un ragionevole dubbio interpretativo”. La Corte europea rispose in questi termini: “Va richiamato al riguardo quanto la Corte ha affermato nella sentenza 27 marzo 1963 (cause 28-30/62, Da Costa, Race. pag. 73): «se l'art. 177, ultimo comma, impone, senza restrizioni, ai Fori nazionali le cui decisioni non sono impugnabili secondo l'ordinamento interno, di deferire alla Corte qualsiasi questione d'interpretazione davanti ad essi sollevata, l'autorità dell'interpretazione data dalla Corte ai sensi dell'art. 177 può tuttavia far cadere la causa di tale obbligo e così renderlo senza contenuto. Ciò si verifica in ispecie qualora la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale». Lo stesso effetto, per quanto riguarda i limiti dell'obbligo contemplato nell'art. 177, 3° comma, può risultare da una giurisprudenza costante della Corte che, indipendentemente dalla natura dei procedimenti da cui sia stata prodotta, risolva il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità fra le materie del contendere”.

[13] Si rinvia sul punto a L. Tria, L’interpretazione delle pronunce della Corte di Giustizia UE e della Corte EDU, in Questione Giustizia, 11 ottobre 2019, consultabile a questo link. Vi si legge che “la nostra Corte di cassazione a volte ha riconosciuto «valore normativo» alle sentenze della Corte di giustizia. Ebbene, questo tipo di terminologia, a ben vedere, è la stessa che la nostra giurisprudenza utilizza per riconoscere l’efficacia diretta e il primato alle fonti legislative dell’Unione (Trattati, regolamenti e direttive). E questo, se da un lato dimostra che i giudici italiani riconoscono ormai alla giurisprudenza della Corte di giustizia un valore particolarmente stringente e vincolante, dall’altro lato rivela anche che il diritto legislativo e quello (di fonte) giurisprudenziale vengono sostanzialmente equiparati, senza coglierne la diversa natura. In altri termini non si considera che una sentenza non può essere mai, come tale, direttamente e generalmente applicabile, in quanto costituisce una decisione resa rispetto ad un “caso concreto” e l’enucleazione di una regola o di un principio non possono mai prescindere dalla esatta individuazione del caso che ne è all’origine. Se è vero che le sentenze della Corte di giustizia “interpretano” il diritto dell’Unione, è altrettanto vero che l’interpretazione ha sempre alla sua base una fattispecie concreta, il cui esame è imprescindibile per coglierne l’esatta portata”.

[14] G. Stampanoni Bassi, Acquisizione dei tabulati telefonici: anche la Corte di assise di Napoli esclude una applicazione diretta della sentenza CGUE del 2 marzo 2021 (C 746/18), in Giurisprudenza Penale, 17 giugno 2021, consultabile a questo link.

[15] G. Stampanoni Bassi, Acquisizione dei tabulati telefonici e telematici: il Tribunale di Rieti propone questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Giurisprudenza Penale, 13 maggio 2021, consultabile a questo link.

[16] Si rinvia a J. Della Torre, L’acquisizione dei tabulati telefonici nel processo penale dopo la sentenza della Grande Camera della Corte di Giustizia UE: la svolta garantista in un primo provvedimento del g.i.p. di Roma, in Sistema Penale, 29 aprile 2021, consultabile, unitamente al decreto del giudice romano, a questo link.

[17] È questo l’auspicio di G. Spangher, Niente tabulati in Procura senza l’ok del giudice: ora l’Italia si adegui all’UE, in Il Dubbio, 10 marzo 2021, consultabile a questo link.