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La Cassazione e il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio

Porto turistico, Marina di Ragusa
Ph. Simona Loprete / Porto turistico, Marina di Ragusa

“Il dubbio è una passerella che trema tra l’errore e la verità”,

Gesualdo Bufalino, Il malpensante. Lunario dell’anno che fu.

 

L'assicurazione di un diritto esatto, omogeneo, certo, prevedibile, uguale, costituzionalizzato ed europeizzato: questo è l'obiettivo della Cassazione e insieme la sua ragion d'essere.

Riesce ad essere così la nostra Corte suprema, lo realizza il suo scopo?

Un'indagine del genere si può condurre in molti modi ma si crede che abbia un senso soprattutto nelle direzioni più esasperate, lì dove al desiderio e all'esigenza di compostezza, equilibrio e ragionevolezza si contrappongono fenomeni che sembrano negare in radice la possibilità di un diritto che ad essi si conformi, anche se custodito dal suo interprete massimo.

Si è scelto quindi come termine di confronto il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio o, se si preferisce, la formula BARD, acronimo dell'equivalente espressione anglosassone "beyond any reasonable doubt".

Ognuna delle parole che lo descrivono contiene un'irriducibile vaghezza e porta con sé la sfida dell'impossibile.

Oltre: cosa, verso dove, di quanto, perché.

Ragionevole: per chi, in base a cosa, in che misura.

Dubbio: di chi, su chi, su cosa.

Si manifesta così la tensione verso un diritto interamente classificato e schematizzato che esige di rimanere tale anche nell'incrocio con una sfida smisurata: il superamento di una soglia la cui essenza consiste in un ossimoro, tale senza dubbio la pretesa di attribuire ragionevolezza al dubbio, una delle più tipiche manifestazioni umane che trova in se stessa e nella sua coessenzialità all'umanità l'unica giustificazione di cui ha bisogno.

Scriveva Francesco Carnelutti: “La legge considera la condanna ingiusta come un danno sociale più grave dell’ingiusto proscioglimento e perciò esige dal giudice maggior cautela per condannare che non per prosciogliere”. Né può essere diversamente, continua il grande maestro, giacché “l’interesse della società è soltanto alla punizione se costui è colpevole, non già se è innocente; al contrario la punizione di un innocente sarebbe a sua volta un disordine, che lede gli interessi della società”.

Sono trascorsi circa sessant’anni dalla stesura di questo pensiero e non possiamo nascondere che, sempre più spesso, nella prassi sembra desueto.

 

La genesi

Dobbiamo il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio all'art. 5 della Legge 46/2006 (intitolata "Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento"), che modificò il testo dell'art. 533 c.p.p.

Il provvedimento ebbe un iter piuttosto travagliato. Dopo la sua prima approvazione, il Capo dello Stato, avvalendosi della prerogativa riservatagli dall'art. 74 comma 1 Cost., lo rinviò alle Camere per una nuova deliberazione con una motivazione che mise scrupolosamente in rilievo l'insostenibile peso che la riforma avrebbe addossato alla Corte di cassazione, costringendola a trasformarsi in giudice di merito (ed esploratrice dell'intero incarto processuale) riguardo al vizio di mancata assunzione di una prova decisiva e precludendole l'uso del meccanismo selettivo previsto dall'art. 610 comma 1 c.p.p. che invece aveva dato così buona prova da permettere l'inoltro alla settima sezione penale del 45% dei procedimenti pervenuti. Il Presidente della Repubblica rilevò inoltre l'impatto altrettanto negativo della modifica dell'art. 428 c.p.p. da cui derivava il trasferimento dalle Corti di appello alla Corte di cassazione dell'impugnazione delle sentenze di non luogo a procedere. Non mancarono altri rilievi e tra questi l'incongruenza della previsione che precludeva al PM la facoltà di appellare la decisione che comportava la sua totale soccombenza mentre gli consentiva l'impugnazione a fronte di una soccombenza parziale.

Nessun rilievo il Presidente ritenne invece di muovere sull'inserimento del canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio quale componente strutturale dell'art. 533 c.p.p.

Dopo il suo rinvio, il testo venne emendato, accogliendo solo in parte i rilievi del Capo dello Stato, e diede vita alla Legge 20 febbraio 2006 n. 46.

Nel dibattito alla Camera sull'art. 5 intervenne il deputato ulivista e magistrato Francesco Bonito. Si riportano testualmente e integralmente le sue dichiarazioni: "Signor Presidente, non condividiamo l'articolo 5, su cui ci accingiamo ad esprimere il nostro voto. Con esso si modifica l'articolo 533 del codice di procedura penale e viene inserito il principio in forza del quale il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio. 

Ebbene, siamo contrari a questa formula, in primo luogo, perché, già adesso, il giudice non può condannare se non ha la certezza della colpevolezza dell'imputato: se sussiste il dubbio, la formula dovrà essere di tipo diverso; ossia, vi dovrà essere, comunque, un'assoluzione con formula piena, ma pronunciata in presenza di un dubbio. Se le cose, sostanzialmente, non si modificano, siamo contrari a questo articolo per due ordini di ragioni. 

In primo luogo, la formula semantica usata è del tutto al di fuori della nostra tradizione giuridico-processuale. È una formula semantica chiaramente tratta da una cultura giuridica diversa dalla nostra, ossia dalla cultura anglosassone. 

In secondo luogo, ci sembra che tale formula, in qualche modo, replichi quei divieti che si leggono da qualche parte, dove il divieto non è semplicemente tale, ma è un «severo» divieto: è severamente proibito. Dire che «è severamente proibito» è come affermare che «è proibito». 

La terza ragione è ancora più delicata. Se, attraverso questa nuova formulazione, le cose sostanzialmente non si modificano, tuttavia può giungere all'interprete un messaggio assai pericoloso. Se il giudice che oggi assolve al di là di ogni ragionevole dubbio vede riproporre tale formula nel codice, come interprete, deve logicamente dedurre che il legislatore abbia inteso modificare qualcosa, esigendo qualcosa di più per il giudizio di colpevolezza. 

Ciò può indurre a spiacevoli equivoci interpretativi che certamente non si risolveranno in favore degli imputati e, comunque, degli operatori del diritto".

Si fa fatica a comprendere il senso delle argomentazioni su cui il deputato Bonito ha fondato la sua opposizione, a cominciare dall'estraneità del principio alla nostra cultura giuridica.

Anche a mettere in disparte l'ovvia constatazione che il vigente codice di procedura, attingendo ad altre culture e tradizioni, importò nel nostro ordinamento ben più che un singolo principio, ciò che non convince è l'idea di fondo che il confronto tra culture sia di per se stesso dannoso e non serva neanche spiegare quali torsioni e quali danni potrebbero in astratto derivare dalla loro contaminazione.

Segue un'irriducibile contraddizione che ad ogni passaggio ne produce di nuove: il principio è già parte del nostro diritto vivente tanto che nessun giudice condannerebbe se non fosse certo della colpevolezza dell'accusato (non era allora così estraneo alla nostra cultura); al tempo stesso, sottolinearlo esplicitamente equivale in qualche modo a intimidire il giudice, inducendolo a credere che il legislatore esigerà un più alto standard dimostrativo (dunque il principio esiste, è applicato convintamente ma affidarlo a parole scritte lo rende in qualche modo pericoloso e di più incerto significato); infine, la sottolineatura legislativa, la sua capacità intimidatoria e la confusione semantica che è capace di generare, non potranno che portare svantaggi agli imputati in primo luogo e a tutti gli altri operatori del diritto a seguire (il che è come dire che il giudice, prima convinto sostenitore del principio, dopo la riforma sarebbe propenso a sacrificare l'imputato pur di sottrarsi a spiacevoli equivoci; per dirla ancora meglio, il giudice, avvertendo una spinta di sistema tale da rendere più difficili le condanne, metterebbe in moto una reazione uguale e contraria e condannerebbe laddove in precedenza avrebbe assolto).

Si confessa un certo smarrimento.

Finanche inutile sottolineare che le preoccupazioni dell'On. Bonito non trovarono ascolto, posto che la XIV legislatura (30 maggio 2001/27 aprile 2006) fu per intero appannaggio della maggioranza di centrodestra e del suo allora indiscusso leader).

Ma le ragioni espresse da quel deputato hanno un loro interesse ed è bene metterle agli atti.

 

L'al di là del ragionevole dubbio nell'opinione della Corte di Cassazione

È adesso il momento di iniziare la verifica preannunciata.

Una pronuncia di qualche anno addietro (Sez. 5^, 53222/2018), che tuttavia si muove in un solco ben collaudato, indica le coordinate necessarie.

Al centro dello statuto probatorio del giudizio penale si colloca la previsione dell'art. 192, comma 1, c.p.p., che attribuisce al giudice di merito il potere di valutare la prova e il dovere, da adempiere attraverso la motivazione, di rendere palese nel modo più rigoroso e completo l'uso che ha fatto di quel potere.

Il libero convincimento viene dunque a configurarsi come il cardine del giudizio penale e il più essenziale elemento identificativo del giudice e della sua funzione.

L'introduzione del principio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio non contraddice affatto né sminuisce la centralità del libero convincimento, semmai lo valorizza.

L'integrazione dell'art. 533 c.p.p. ha «carattere meramente descrittivo e non già sostanziale»: serve infatti ad enfatizzare «la necessità che la pronuncia di condanna sia pronunciata solo quando il dato probatorio acquisito lascia fuori ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili "in rerum natura", ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva di adeguato riscontro» e «si traduce, a sua volta, in un ulteriore rafforzamento dell'obbligo di motivazione in riferimento alla prospettazione difensiva che, attraverso una diversa ricostruzione dei fatti, introduca l'esistenza di un ragionevole dubbio sulla colpevolezza, imponendo al giudice di sciogliere l'alternativa attraverso il riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali».

Il giudizio probatorio – continua la sentenza - «non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli elementi acquisiti al processo, né procedere ad una mera sommatoria quantitativa di questi ultimi, ma deve, preliminarmente, valutare i singoli dati dimostrativi per verificarne l'affidabilità e l'intrinseca valenza persuasiva e, successivamente, procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all'imputato "al di là di ogni ragionevole dubbio"».

Principio quest'ultimo che equivale a «un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano comunque rimaste prive di adeguato riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana».

E la Cassazione? Qual è il suo compito? «Salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, non è, sindacabile in sede di legittimità la valutazione del giudice di merito - cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova – circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti. La valutazione dei dati probatori e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni piuttosto che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento».

Un'espressione più risalente dello stesso indirizzo si rinviene in Sez. 1^, 53512/2014 secondo la quale «Il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, non può essere utilizzato, nel giudizio di legittimità, per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto emerse in sede di merito su segnalazione della difesa, se tale duplicità sia stata oggetto di puntuale e motivata disamina da parte del giudice di appello».

Considerazioni affini sul piano generale si rinvengono in Sez. 6^, 40810/2018 per la quale «I principi dell'al di là di ogni ragionevole dubbio e presunzione di innocenza concorrono alla definizione delle regole probatorie e di giudizio e dei metodi di accertamento del fatto, imponendo standard probatori (quello dell'art. 533 comma 1 corrisponde per la sentenza di condanna a quanto l'art. 530 comma 2 stabilisce per la sentenza di assoluzione) e protocolli logici di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive del fatto fondati sulla tendenziale recessività dell'ipotesi d'accusa (in dubio pro reo) e finalizzati alla necessaria giustificazione razionale delle decisioni giudiziarie. Con la formula introdotta dalla L. 46/2006 (art. 5) ad integrazione dell'art. 533 si è così proceduto a dare valore normativo alla consolidata affermazione giurisprudenziale secondo la quale la condanna è possibile solo in presenza di certezza processuale della penale responsabilità dell'imputato e si è con maggiore puntualità precisato che il dato probatorio acquisito deve essere tale da lasciar fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del ben che minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana [] Va infine ribadito, a scanso di ogni equivoco, che il criterio del dubbio ragionevole (il dovere del dubbio) reagisce in modo diverso sugli esiti di condanna e su quelli assolutori: la sentenza di condanna deve superare il ragionevole dubbio sull'attendibilità e concludenza della prova dell'ipotesi accusatoria, mentre quella di assoluzione può (deve) limitarsi al ragionevole dubbio».

Le coordinate definite dalla nostra Corte suprema sono a questo punto tracciate.

L'al di là del ragionevole dubbio ha un valore puramente descrittivo, nel senso che la sua funzione è limitata alla descrizione di una tecnica valutativa.

Il suo unico effetto è l'obbligo di una motivazione rafforzata ogni qualvolta l'accusato non si limiti ad una mera contrapposizione all'ipotesi d'accusa ma proponga una diversa ricostruzione dei fatti.

Il giudice deve seguire in questo caso un percorso preciso e ineludibile: gli spetta infatti scartare gli elementi ipotetici e congetturali, concentrarsi su quelli sostenibili (id est, acquisiti in giudizio), esaminarli dapprima individualmente e poi complessivamente e verificare se le ambiguità eventualmente residuate dall'esame individuale siano dissolte da quello complessivo.

Se ognuna di queste fasi consentirà il passaggio a quella successiva, se confusione, vaghezza e ambiguità saranno state interamente rimosse, allora il giudice avrà oltrepassato il ragionevole dubbio e nessun ostacolo si frapporrà più al giudizio di colpevolezza.

Le caratteristiche di questo percorso conferiscono una precisa identità al principio in esame, facendolo consistere in un alto grado di credibilità razionale: in altri termini, la tesi d'accusa supera ed esclude il ragionevole dubbio quando è credibile in modo elevato e lo è se è allineata alla razionalità.

Data questa definizione, la Corte di cassazione delinea con facilità il dubbio non ragionevole: è tale ogni dubbio che rimanga estraneo all'ordine naturale delle cose; è tale ogni dubbio che rinneghi la normale razionalità umana.

Infine: tutti gli step necessari a trasformare una tesi di parte in un giudizio di colpevolezza spettano al giudice di merito; il giudice di legittimità è un player eventuale e residuale che non ha alcuna ragione di entrare in gioco quando la motivazione di merito sia congrua e logica ed espressiva di una disamina puntuale e motivata.

 

La chiarezza

Il giudice nomofilattico ha impartito il suo "insegnamento".

Ma è davvero così chiaro come ci si aspettava e come sarebbe necessario che fosse?

I consociati destinatari dei precetti della legge penale, ove indossino la veste di accusati, sono messi in condizione di sapere a quali condizioni saranno giudicati colpevoli? Gli si è davvero spiegato cosa ci si attende che dimostrino per ottenere un verdetto liberatorio?

Certo, gli si è detto che non si darà ascolto a ipotesi estranee all'ordine naturale delle cose e non si concederà alcuno spazio a prospettive incoerenti con la normale razionalità umana.

Ma a chi chieda il significato di quell'ordine e di quella razionalità, a chi voglia sapere cosa corrispondano le aggettivazioni "naturale" e "normale" che dovrebbero ulteriormente caratterizzare quei concetti, la Cassazione non dà nessuna risposta.

Si è perfettamente consapevoli che non esistono risposte interamente soddisfacenti e unanimemente condivisibili e condivise a quelle domande.

Si sa bene che ognuno dei concetti cardine su cui si fonda in ultima analisi l'indirizzo manifestato dai giudici di legittimità è polisemantico ed è un bene che sia così, giacché sarebbe addirittura spaventosa una società in cui sia ammesso un solo ordine, una sola razionalità e, ciò che più conta per chi scrive, una sola normalità.

E tuttavia, quest'ovvia constatazione non deve impedire di scorgere la fallacia concettuale dell'insegnamento che si pretende di impartire.

Una fallacia per omissione: si omette di ricordare che il dubbio ragionevole e quello irragionevole sono costruzioni edificate sulle sabbie mobili di un dubbio ben più consistente e problematico, perché nessuno, neanche se seduto in cattedra, neanche se propenso all'insegnamento, è in grado di spiegare cosa sia normale, razionale, naturale e forse neanche cosa sia umano.

Tutti possono proporre una definizione di questi concetti e proprio questa possibilità corale rende legittima ogni tesi senza il timore che possa essere confutata. Ma, come avvertiva Popper, «L'inconfutabilità di una teoria non è (come spesso si crede) un pregio, bensì un difetto. Ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla, o di confutarla. La controllabilità coincide con la falsificabilità; alcune teorie sono controllabili, o esposte alla confutazione, più di altre; esse per così dire, corrono rischi maggiori».

Una fallacia concettuale che non si esaurisce in se stessa. Perché il suo effetto immediato e diretto è la non dichiarata, ma non per questo meno effettiva, negazione di un tratto identitario che la Cassazione presenta in termini di imprescindibilità: l'assenza di arbitrio nell'uso del potere discrezionale del giudice.

Il giudice – si afferma – è servo della razionalità, soggiace ad essa in ognuna delle operazioni tipiche della funzione giurisdizionale.

Ciò che si tace è che, in realtà, il giudice, muovendosi all'interno di un perimetro così mobile e flessibile, è il padrone e non il servo della razionalità. La crea egli stesso perché presiede alla creazione degli elementi sui quali si fonderà, seleziona quelli utili e scarta quelli insignificanti, attribuisce agli uni e agli altri il valore che ritiene il più appropriato.

Non che siano possibili sistemi alternativi: l'umanità del giudice sarà sempre di impedimento ad automatismi di qualsivoglia tipo in base ai quali si pretenda di dare al giudizio un'oggettività che non ha e non potrà mai avere.

Non che questa constatazione debba costringere a delegittimare il giudizio e chi ne ha la responsabilità.

Ma, se proprio un insegnamento deve essere impartito, che sia più sobrio e più realistico, che spieghi ad ognuno come il giudizio e i suoi artefici non possano che muoversi all'insegna del soggettivismo e del relativismo, perché altro non è dato.

E magari chiarisca, una volta per tutte, che il libero convincimento non trova alcun argine effettivo nell'al di là del ragionevole dubbio.

Il dubbio assume un ruolo centrale nel processo penale.

Riguarda il magistrato, l’imputato, le norme, la giustizia, la società. Riguarda la paura di sbagliare e la meravigliosa imperfezione dell’uomo” Francesco Caringella.