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Tempi di crisi post pandemia: inesigibilità, forza maggiore e confisca con riserva come strumenti giuridici penal-tributari

Rifilessi di passato
Ph. Luca Martini / Rifilessi di passato

Abstract

La crisi pandemica globale oramai nota a tutti entra ora nella sua seconda e, malauguratamente, non ultima fase, sottoponendo le economie mondiali, nonché i sistemi sanitari, a nuovi stress ed emergenze. I dati economici, ripresi dalla circolare 4/2020 dell’UNGDCEC, pongono ancora oggi in rilievo la sostanziale impossibilità dei mercati globali di porre un freno allo scenario di crisi repentinamente e violentemente imposto dalla pandemia Covid-19, crisi che, tra i numerosi ed impietosi effetti, ha causato, e continua a causare, un depauperamento della liquidità anche in capo ai singoli risparmiatori ed imprese.

Fine del presente lavoro sarà dunque quello di rinvenire all’interno del nostro Sistema degli strumenti efficaci da mettere a disposizione, per affrontare la crisi pandemica nel miglior modo possibile, non solo dal punto di vista sanitario, ma anche, per quel che qui interessa, dal punto di vista giuridico.

 

Indice:

1. I dati sull’attuale crisi

2. Il 10-bis e 10-ter decreto legislativo 74/2000

3. La Forza maggiore in ambito penal-tributario

4. L’inesigibilità della condotta

5. Articolo 12-bis co. 2, la c.d. “Confisca con riserva”

 

 

1. I dati sull’attuale crisi

Le misure di distanziamento sociale imposte a cominciare dal 5 marzo u.s. per scuole ed eventi pubblici, culminate poi con il blocco totale di molti settori produttivi il 28 marzo, e il secondo lockdown ora, comportano inevitabilmente severi effetti per numerosi settori del mercato.

Secondo uno studio Consob, il nostro Paese mostrerebbe dei profili di crisi molto più marcati rispetto alla media europea e ciò è spiegabile, innanzitutto, dal fatto di essere stato raggiunto dall’epidemia tra le prime nazioni e, in quanto tale, il primo in area euro a adottare misure drastiche di contenimento del virus.

Quanto detto ha inevitabilmente comportato, secondo un’analisi Istat, un grave calo dei consumi, con un calo del Pil pari al 5,3% rispetto al primo trimestre 2020 e al 5,4% nei confronti del primo trimestre del 2019, per un Pil complessivamente in calo del 9,5% nel 2020 secondo dati della Commissione Europea. La chiusura delle attività e i rilevati cali del Pil hanno inoltre generato nel settore imprenditoriale una diffusa sfiducia nel futuro e oltre la metà delle imprese (38,8% degli occupati, secondo la rilevazione condotta dall’Istat tra l’8 e il 29 maggio 2020) prevede una mancanza di liquidità per far fronte alle spese che si presenteranno a fine del 2020.

In secondo luogo, va sottolineato, come spiega il World Travel and Tourism Council (WTTC), che tra i settori più duramente colpiti dalla crisi vi è l’industria turistica, la quale in Italia contribuisce al 5,5% del Pil, se si considerano anche gli effetti indiretti quali i consumi dei lavoratori nel settore.

Infine, l’economia italiana ha conosciuto negli anni passati una forte espansione del settore export, che, secondo stime della Banca d’Italia relative al primo trimestre del 2020, registrava un calo dell’8,0% sul periodo precedente e dunque difficilmente si poteva prospetticamente sperare in un quadro di fine 2020 prospero, che infatti registra, secondo il 14° rapporto SACE, un complessivo calo annuale che si attesterà sul 13,3%. Va comunque detto che, sempre il suddetto rapporto, si mostra ottimista per il prossimo biennio, affermando che già dal 2021 si registrerà una ripresa piuttosto rapida per le esportazioni italiane (+ 9,3%).

Nonostante l’ultima nota positiva, il quadro ivi delineato appare inevitabilmente critico se si considera che la crisi attuale risulta di gran lunga peggiore della passata depressione economica globale iniziata nel 2008, allorquando la contrazione del Pil, nel suo momento più drammatico, si attestò sul valore di 4,20 punti percentuali, mentre stime della Banca Mondiale evidenziano come nel 2020 il Pil mondiale potrebbe diminuire del 5,2%.

Quanto sin qui riportato rende quindi evidenti tutte quelle che sono le preoccupazioni delle realtà economiche nel nostro Paese e richiede una riflessione anche dal punto di vista giuridico, sull’inevitabile carenza di liquidità che si prospetta.

 

2. Il 10-bis e 10-ter decreto legislativo 74/2000

Alla luce di quanto sin qui esposto, tutt’altro che irrilevante appare il ruolo degli operatori giuridici, non solo per l’instancabile lavoro di reinterpretazione e adattamento del sistema giuridico in generale a tutti i recenti provvedimenti figli della decretazione d’urgenza, non solo in relazione a tutta quella che è la neo disciplina fallimentare, la quale ha introdotto la rilevanza giuridica dello stato di crisi e la cui entrata in vigore è stata ultimamente posticipata al primo settembre 2021 proprio per la difficoltà nel prevedere gli effetti della crisi pandemica in ambito concorsuale, ma anche per il gravoso compito di dover assistere gli operatori economici che, sempre più probabilmente, si ritroveranno nella condizione di non poter onorare i propri pagamenti, tra cui quelli tributari.

Rileva inevitabilmente in questo contesto di contrazione economica anche la disciplina penal-tributaria, laddove gli articoli 10-bis e 10-ter costituiscono una particolare eccezione che merita un approfondimento in ordine al loro inquadramento sistematico e compatibilità costituzionale.

Il decreto legislativo 74/2000 nasce ad opera del Legislatore con l’intento di dare una risposta di carattere repressivo ad un problema tipicamente italiano, quello dell’evasione fiscale, tramite la sanzione penale. In questo contesto i reati tributari sorgono con l’idea che gli effetti penali, rispetto al precedente impianto normativo ex l. 516/1982, debbano essere spostati ad un momento anteriore all’evasione, ossia relativamente ai fatti dichiarativi, i quali sono fatti concretizzanti l’evasione vera e propria.

Se quindi le varie fattispecie introdotte, quali sono, a titolo compendioso, la dichiarazione fraudolenta (articoli 2 e 3 decreto legislativo 74/2000), la dichiarazione infedele (articolo 4) o l’omessa dichiarazione (articolo 5), sottopongono il perfezionarsi della fattispecie illecita alla sussistenza del c.d. “dolo specifico”, ossia quella forma di dolo che richiede che l’agente agisca per un fine particolare che nei casi ivi elencati risulterebbe nella volontà di evadere le imposte (o di consentirne a terzi l’evasione), l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate (articolo 10-bis)  e l’omesso versamento d’Iva (10-ter) invece richiedono il solo perfezionarsi di una condotta oggettivamente individuata, che non contempla la presenza dell’elemento psicologico specifico.

Nei due articoli oggetto di discussione, dunque, il Legislatore ha inteso sanzionare una condotta che si perfeziona con il solo verificarsi del fatto oggettivo, ossia l’omesso versamento, senza che possa in alcun modo rilevare che il soggetto attui una condotta del tutto priva di malizia criminosa, priva di intenti fraudolenti o evasori.

L’assenza del requisito psicologico specifico, ma meramente generico, nelle fattispecie illecite in esame, d’altra parte, ha fatto sorgere non pochi dubbi sulla loro tenuta costituzionale, dal momento che si pongono sullo stesso piano sia gli evasori “dolosi” e consapevoli, che quelli “virtuosi”, i quali, non potendo onorare i propri debiti con l’erario, rendono palese la loro condizione tramite la presentazione puntuale della stessa dichiarazione certificante l’omissione dei pagamenti.

I dubbi ivi esposti si rendono ancora più pressanti alla luce della odierna crisi pandemica e conseguente crisi di liquidità, in un contesto in cui le imprese saranno sempre meno in grado di assolvere i loro obblighi erariali, dirottando le poche risorse rimaste a sostegno dei mezzi produttivi vitali per la sopravvivenza dell’attività nel breve periodo.

Risulta quindi necessario valutare se vi sono elementi all’interno del nostro ordinamento, che siano in grado di piegare norme talvolta rigide, al fine di renderle più accomodanti.

 

3. La Forza maggiore in ambito penal-tributario

L’eccessiva severità delle due fattispecie delittuose ha sin dall’inizio visto impegnata la giurisprudenza nel dipanare i dubbi circa la loro configurabilità e ciò ha dato vita ad un vivace confronto giurisprudenziale e dottrinale con lo scopo di definire, pragmaticamente, quando e come l’elemento psicologico possa essere escluso da cause esterne alla condotta dell’imprenditore.

Principale istituto a cui si suole ricorre in tema di esclusione della colpevolezza è quello della forza maggiore che, in ambito penal-tributario, è mutuato dalla nota definizione ex articolo 45 codice penale Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore. Il codice dunque non fornisce una vera e propria definizione, ma questa è ricavabile dall’esperienza dottrinale e giurisprudenziale maturata nel corso del tempo e dunque la Cassazione descrive il caso fortuito come quell’avvenimento imprevisto e imprevedibile che si inserisce d’improvviso nell’azione del soggetto e non può in alcun modo, nemmeno a titolo di colpa, farsi risalire all’attività psichica dell’agente (Cass. 7285/1990), mentre la forza maggiore si può intendere come la vis maior cui resisti non potest, cioè quella forza esterna che determina la persona a compiere un’azione cui questa non può opporsi.

Tornando all’ambito tributario due sono le disposizioni normative che contemplano la forza maggiore:

  • l’articolo 9 comma 2 l. n. 212/2000 (Statuto del contribuente) secondo cui: “Con proprio decreto il Ministro delle finanze, sentito il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, può sospendere o differire il termine per l’adempimento degli obblighi tributari a favore dei contribuenti interessati da eventi eccezionali ed imprevedibili”;
  • l’articolo 6, comma 5, del decreto legislativo n. 472/1997 secondo cui: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore”.

Relativamente all’articolo 6 comma 5 appena citato, la circolare 180/E del 10 luglio 1998, Dip. acc. e progr. ha precisato che per forza maggiore si deve intendere ogni forza del mondo esterno che determina in modo necessario e inevitabile il comportamento del soggetto.

Molto utile all’argomento torna senz’altro quanto affermato dalla Corte di Giustizia Europea nel case number 314/06, laddove specifica che la nozione di forza maggiore, in materia tributaria e fiscale, comporta la sussistenza di un elemento oggettivo, relativo alle circostanze anormali ed estranee all’operatore, e di un elemento soggettivo, costituito dall’obbligo dell’interessato di premunirsi contro le conseguenze dell’evento anormale, adottando misure appropriate senza incorrere in sacrifici eccessivi.

Alla luce di quanto affermato dalla Corte di Giustizia Europea, appare dunque pacifico ritenere che la violenta crisi pandemica integri tutti i presupposti sopraesposti, ossia:

  • Il virus sars-Cov-2 e le conseguenti imposte misure di distanziamento sociale sono indubbiamente elementi oggettivi esterni agli operatori economici e integrano le caratteristiche dell’anormalità, esogeneità ed imprevedibilità;
  • Gli operatori economici, nella grande maggioranza dei casi, non hanno avuto, e non hanno tutt’ora, la possibilità di adottare misure appropriate per affrontare con efficacia la crisi, salvo impiegarne di eccessivamente onerose, che inevitabilmente andrebbero ad incidere sugli assetti vitali dell’attività economica.

Va oltretutto rilevato che quanto previsto dalla Corte di Giustizia Europea appare una previsione di buon senso, anche in relazione al nostro sistema fallimentare. Costringere infatti, in alternativa, gli imprenditori a rispettare con eccessiva onerosità i pagamenti, sotto la minaccia di incorrere in sanzioni penali, innescherebbe una serie di fallimenti a catena, rectius liquidazioni giudiziali, il che risulta non auspicabile alla luce dell’attuale situazione economica.

Ciò detto, la Corte di Cassazione non è pienamente concorde nel conferire alla mera assenza di liquidità lo status di forza maggiore, e a ragione.

Non è infatti accettabile l’impostazione secondo cui una qualunque assenza di liquidità, anche prolungata, integri gli estremi del caso fortuito, imprevedibile ed irresistibile, dovendosi considerare che talune situazioni, per quanto difficili da gestire, rientrino nella normale gestione e attività di impresa e, in quanto tali, è onere dell’imprenditore arginarle, predisponendo di tutte le misure necessarie affinché un qualunque evento imprevisto e imprevedibile non rappresenti un impedimento insormontabile. Tuttavia la S.C. spesso si è spinta oltre, sostenendo che la punibilità del contribuente in materia di omesso versamento Iva si escluda, qualora vi sia assenza di liquidità, ove si dimostri che la stessa non dipenda da lui. A tal fine ricadono sul contribuente gravosi oneri di puntuale allegazione probatoria, a dimostrazione che neanche adottando misure sfavorevoli per il suo patrimonio questo sarebbe stato in grado di evitare l’omissione del versamento (Cass. pen. Sez. III, 09/03/2017).

L’eccessiva severità della Corte, nonché l’oggettiva difficoltà di individuare in concreto la sussistenza della forza maggiore, a parere di chi scrive, potrebbe trovare agile soluzione nel decreto legislativo 231/01. Quest’ultimo ha introdotto una nuova forma “normativa, di colpevolezza per omissione organizzativa e gestionale, avendo il Legislatore ragionevolmente tratto dalle concrete vicende occorse in questi decenni, in ambito economico e imprenditoriale, la legittima e fondata convinzione della necessità che qualsiasi ente adotti modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire la commissione di determinati reati” (così riportato in AA.VV., Corruzione, Riciclaggio e Mafia, a cura di R. Razzante, Aracne Ed., pag. 141., nota n. 37, Cass., sez. VI, 9 luglio 2009, n. 36083, Mussoni ed altri, Rv. 244256).

La mancata adozione dei modelli organizzativi, in presenza di un reato commesso nell’interesse o vantaggio della società da parte di un soggetto che abbia un rapporto qualificato con l’ente, è sufficiente a costituire quella “rimproverabilità” delineata dalla Relazione ministeriale al decreto legislativo e ad integrare la fattispecie sanzionatoria, costituita dall’omissione delle previste doverose cautele organizzative e gestionali idonee a prevenire talune tipologie criminose.

Se è vero che il Legislatore ha inteso delineare un sistema di corporate compliance sul dovere di autocontrollo dell’ente, dall’altra parte ha voluto creare un sistema di incentivi per aver adeguatamente adempiuto.

Se così è, attesa la correttezza degli adeguati assetti organizzativi, non rimproverare l’Ente per aver subìto passivamente quella vis maior cui resisti non potest pare essere conforme a diritto. Questo porterebbe con sé maggior applicazione della normativa, sentita ancora distante, oltre che un criterio oggettivo di più facile individuazione su cui fondare la sussistenza della forza maggiore o meno.

L’istituto della forza maggiore, insomma, può costituire uno strumento valido in mano alla giurisprudenza di merito e difensori di fiducia per andare in contro ai molti e futuri imprenditori e risparmiatori, con molta più efficacia oggi che in passato.

Se infatti, alla luce delle pronunce giurisprudenziali di legittimità, una semplice mancanza di liquidità non può integrare gli estremi tipici di una forza improvvisa ed irresistibile (vd. Cass., sez. III, sent. 5 dicembre 2013, dep. 4 febbraio 2014, n. 5467), questo non è altrettanto vero se la crisi di liquidità è invece causata da una crisi pandemica qual è quella odierna.

 

4. L’inesigibilità della condotta

Come noto, per inesigibilità della condotta s’intende l’impossibilità di esigere dal soggetto agente una condotta lecita, escludendo dunque la punibilità. Secondo questa teoria l’elemento psicologico si esclude ogniqualvolta l’agente si sia trovato in condizioni tali da non potersi “umanamente” da lui pretendere una condotta diversa da quella che ha mantenuto. A titolo d’esempio si pensi al caso dell’imprenditore che, versante in una grave situazione di crisi, sia costretto a scegliere se soddisfare i propri creditori, i propri dipendenti o l’Erario, con il rischio di incorrere nelle violazioni ex articoli 10-bis e 10-ter.

Sul tema si sono avvicendati nel corso del tempo due filoni di pensiero: uno più rigoroso sostenente l’impossibilità di integrare simile istituto nel nostro Sistema, non per incompatibilità a lui intrinseche, ma per mancanza di una sua esplicita positivizzazione ad opera del Legislatore e dalla cui integrazione ne deriverebbe una violazione del principio di legalità (Cfr. Cass. pen. Sez. III Sent., 23/01/2018, n. 38593; Cass. pen. Sez. III, 02/10/2019, n. 41097). Il secondo invece più aperto ad abbracciare teorie giuridiche esogene, ritiene che l’istituto dell’inesigibilità possa trovare elementi interni al Sistema a cui possa ancorarsi, così da entrarvi a pieno titolo.

Non essendo questa la sede per trattare un simile e complesso scontro dottrinal-giurisprudenziale ci si limiterà a far presente che la stessa giurisprudenza di Legittimità, seppur rarissime volte, ha fatto ricorso all’istituto. La Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 27676/2014, ha affermato che non si possono considerare integrati gli estremi del dolo generico nel caso di un imprenditore che, versando in stato di crisi economica, decida di utilizzare la poca liquidità rimasta per mantenere viva l’impresa, se contestualmente decide di presentare un piano di recupero volto a rientrare delle somme “momentaneamente” sottratte all’erario.

Il sopracitato arresto giurisprudenziale, pur essendo una mosca bianca, è quanto di più auspicabile ci si possa aspettare dalla nostra giurisprudenza di Legittimità in questa fase di forte crisi economica. La corte in quell’occasione mostrò grande maturità riconoscendo di non poter “umanamente” pretendere l’adempimento degli obblighi Erariali da parte dell’imprenditore.

La sentenza appare ragionevole, oggi più che mai, da molteplici punti di vista. Non solo ci si rese allora conto che il dolo generico, qual è previsto per le fattispecie di cui all’articolo 10-bis e 10-ter, non può sussistere qualora vi sia una totale assenza di volontà insidiose, offensive, maliziose e criminose per il solo e semplice fatto che l’imputato abbia coscientemente voluto omettere dei versamenti d’Iva o di trattenute dovute o certificate, soprattutto quando tali omissioni siano accompagnate dall’umana e comprensibile volontà di salvare un’attività produttiva e i connessi posti di lavoro, nonché quando lo stesso imprenditore inadempiente ponga sul tavolo un piano di recupero volto a rientrare delle cifre sottratte.

Ecco dunque che alla luce delle ragioni ivi esposte, è fortemente auspicabile per ogni cittadino, impresa, lavoratore e mercato nazionale nella sua interezza, che un principio come quello dell’inesigibilità entri con forza nel sistema, magari dalla porta di alcuni principi costituzionali, come arma giuridica di tutela alla crisi da Covid-19.

 

5. Articolo 12-bis co. 2, la c.d. “Confisca con riserva”

Infine, non meno impattante, interessando un minor numero di soggetti, risulta interessante analizzare come le recenti pronunce giurisprudenziali di legittimità hanno finalmente scolpito l’articolo 12, co.2, rendendolo, tra l’altro, più compatibile anche in relazione ai tempi che si stanno attualmente vivendo.

Il decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 ha apportato numerose modifiche al decreto legislativo 74/2000, introducendo, tra le altre, anche l’articolo 12-bis rubricato “confisca”.

L’articolo così introdotto nel sistema non si discosta dall’impostazione propria del precedente impianto normativo, per quanto concerne il primo comma, sostanzialmente riproducendo quanto si affermava già in passato nella legge finanziaria del 2008 (articolo 1, comma 143, l. 24 dicembre 2007, n. 244).

Novità più consistenti si sono ravvisate sin da subito invece nel successivo comma 2, con cui il Legislatore è intervenuto per la prima volta per coordinare il rapporto tra confisca ed imposta evasa.

Tale necessità nasce dalla constatazione che il fatto illecito tributario – a titolo d’esempio ex articolo 2, una dichiarazione fraudolenta – si muove su un doppio binario, acquisendo la fattispecie storica rilevanza, da un lato penalmente in forza del decreto legislativo 74/2000 e dall’altra amministrativamente nei confronti dell’Erario, parte offesa dalla condotta illecita vedendosi sottratte delle somme a lei spettanti.

Onde evitare, dunque, una duplice ablazione, in forza della sentenza penale e dell’atto amministrativo, il che è auspicabile certo per l’Erario, ma difficilmente giustificabile da un punto di vista sistematico, il Legislatore ha introdotto il comma 2 dell’articolo in analisi, secondo cui “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’Erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento, la confisca è sempre ordinata”. La ratio del comma 2, come si legge, è proprio quella di paralizzare gli effetti penali della confisca nel momento in cui dovesse avvenire il pagamento della somma dovuta all’Erario, o anche solo un accordo.

La norma appare tuttavia incerta e lascia spazi a dubbi interpretativi che dottrina e giurisprudenza sono stati chiamati a colmare. Tali incertezze attengono in prima istanza alla locuzione “impegno del contribuente a versare all’Erario”. La Cassazione sul tema è intervenuta stabilendo con chiarezza che, affinché si ritenga valida una presa di posizione da parte dell’imputato-debitore come impegno, è necessaria la presenza di un obbligo assunto in maniera formale, il che può concretizzarsi, ad esempio, in un concordato preventivo. (Cass. Pen, Sez. III, n. 42087/2016).

Il secondo profilo di criticità attiene invece alla locuzione “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare”. Il Legislatore pare far riferimento al caso in cui tra imputato-debitore ed Erario intercorra solo un semplice accordo e che ancora non si sia realizzato un pagamento.

I dubbi sorgono in particolare in relazione a quella parte che afferma “la confisca non opera” non risultando chiaro se questa quindi, in presenza di accordi, non debba essere disposta dal giudice o se in alternativa debba essere sì disposta, ma con delle riserve.

In quest’ultimo senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità con una serie di pronunce che finalmente dipanano i dubbi, stabilendo che il contribuente che si impegni a versare all’erario delle somme, anche in presenza di sequestro, non può vedersi confiscate quelle stesse somme che si è impegnato a versare tramite un accordo scritto, il quale può ben concretizzarsi, ad esempio, come sopra ricordato, in un concordato preventivo (Cass. penale sez. III - 05/02/2019 – n. 18034)

Ancora si ricorda la sentenza della Cassazione penale sez. III – 15/07/2020 – n. 24614, nella quale esplicitamente si stabilisce che, in presenza di accordi assunti con l’Erario, la confisca può essere sì adottata, ma produrrà i suoi effetti solamente qualora si verifichi l’evento futuro ed incerto che è costituito dal mancato rispetto degli accordi assunti dal debitore.

Appare quindi interessante rilevare che, alla luce delle sopracitate sentenze, ma se ne potrebbero citare di ulteriori (Cfr. Cass. pen. sez. III – 23/10/2019, n. 47837; Cass. pen. sez. III – 12/12/2019, n. 14738), nei casi pratici ivi ipotizzati e sussumibili nel 12-bis, sia più opportuno parlare di “Confisca con riserva”, quale istituto implicitamente creato dallo stesso Legislatore e portato alla luce dalle più recenti pronunce giurisprudenziali, in tutti quei casi in cui stipulato un accordo scritto tra debitore ed Erario, parte offesa del procedimento, la confisca risulta paralizzata e produrrà i suoi effetti solo al verificarsi di una condizione, consistente nel mancato versamento delle somme oggetto di accordo.

Le pronunce così individuate, oltre tutto, appaiono assai auspicabili nel contesto storico di crisi che si sta vivendo, in quanto conferiscono la possibilità al soggetto passivo di paralizzare gli effetti travolgenti di una confisca, in favore di accordi che possono risultare molto più accomodanti per entrambe le parti.

Il debitore quindi potrà ben sperare di trovare un’intesa più agevole con l’Erario, che gli consenta di salvare l’azienda, di versare le somme in modo dilazionato o ancora di procedere ad una liquidazione più pacifica e meno drastica come richiederebbe una confisca. Insomma, in un momento storico come quello odierno, appare certamente più opportuno che le vite delle aziende vengano il più possibile agevolate e favorite, anche, laddove possibile, nell’ambito penal-tributario.