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Tintoretto un contemporaneo

Tintoretto, dettagli di Visitazione, 1588, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Tintoretto, dettagli di Visitazione, 1588, Scuola Grande di San Rocco, Venezia

Quando Tintoretto nasce, nel 1519, Tiziano ha da poco finito di sistemare ai Frari la grande tavola dell’Assunta. 

Ne avrà da fare di strada, il giovane Jacopo Robusti, per arrivare a misurarsi con il già celebrato maestro, ma il figlio del tintore dimostra di saper procedere con passo spedito arrivando anche troppo presto a dare ombra al maestro il quale, stando alle cronache del tempo, finirà per allontanarlo dal proprio studio, non sappiamo bene se perché infastidito dall’emergente personalità dell’allievo o dalla sua irrefrenabile invadenza.

In futuro, alcuni dipinti faranno discutere gli studiosi, incerti nell’assegnarli all’uno o all’altro.

Tiziano è la compostezza, Tintoretto l’irruenza; sia che lavori a una composizione o esegua un ritratto, Tintoretto è preso dal movimento, dall’ansia, da un momento in divenire che chiede il cambio con insistenza.

I dignitari che pone attorno alla Sacra Famiglia sono di passaggio; venuti a rendere il doveroso omaggio sembra non vedano l’ora di tornare alle loro incombenze, nella pittura di Tintoretto è il tempo a imporsi, con al seguito la fretta e l’insofferenza.

Non sbaglia il Vasari quando definisce il veneziano: « …stravagante, capriccioso, presto e risoluto, e il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura», anche se lo dice con intenti riduttivi e senza rendersi conto che se la pittura continuerà ad avere un senso fino ai nostri giorni sarà dovuto in particolare proprio agli artisti come Tintoretto che sanno fare di necessità virtù.

È stato per primo Michelangiolo a sconvolgere la compostezza classica nella composizione pittorica, le sue figure dimostrano l’insofferenza per la posa naturale e si torcono muovendosi liberamente nello spazio quasi si avvertisse il desiderio di vincere la forza di gravità in attesa della giustificazione barocca.

Tintoretto fa propria la lezione michelangiolesca, anche le sue figure posano o si librano per  tutta l’ampiezza della tela, a volte ruotando, come nell’Arianna, Venere e Bacco, oppure giungendo da chissà dove, magari a capofitto, nel momento e nel punto stabilito per la loro comparsa.

L’armonia della composizione viene ritrovata nel movimento che arriva qualche volta all’ossessione in dipinti che brulicano di figure per una rappresentazione-mercato dove già si perde l’idea del centro.

Disegno di Michelangiolo – scriverà Tintoretto a insegna della propria bottega – e colorito di Tiziano”; del grande toscano lo entusiasmano la vitalità prorompente del disegno e l’audacia del ‘non finito’, ma per il colore resta veneto e continua a guardare al suo maestro per naturale disposizione, rendendogli da collega quell’omaggio che forse gli ha negato da allievo.

Se i personaggi di Tiziano, i suoi possenti ritratti, sono intrisi della regalità, della sicurezza e dignità del potere che incarnano, quelli di Tintoretto, una loro dignità l’assumono sul momento, nobili e popolani della città-Stato sono chiamati a rappresentare il personaggio mantenendo una loro individualità realistica, come gli apostoli di Masaccio che son pescatori elevati alla dignità senatoriale.

Lo stesso ‘far presto”, rilevato dal Vasari nel nostro, quel dipingere nervosamente affidando spesso alla vitalità di un abbozzo la qualità del risultato, è il segno di un’ansia entrata di prepotenza nella quotidianità e recepita dall’arte che continuerà a mostrarcela, dal Guardi e fino ai nostri poveri giorni divenuta frenesia e insofferenza.

Anche per questo Tintoretto resta il maestro per i tempi che seguiranno, certi scorci di paesaggio, il modo di risolvere una macchia d’alberi, come quello che fa da sfondo alla Madonna adorata dal Mocenigo, sarà ripreso da Claudio Lorenese eppoi dagli impressionisti, così come le sue figure di donne curvate per la Raccolta della manna che ritroveremo contadine in Courbet.

Lo stesso discorso vale per i ritratti che hanno informato tutta la ritrattistica moderna, da Renoir al Piccio, da Ranzoni a Spadini. Ritratti impostati con scioltezza e scontata bravura per un realismo sempre nobilitato e fascinoso, anche quando, del personaggio ad essere messi a nudo son più i vizi delle virtù.

I ritratti del Tintoretto sono nostri contemporanei in vesti antiche, tre veneziani di diversa età che si aggiravano nella mostra dell’Accademia sembravano appena usciti da una delle composizioni e in procinto di rientrarvi, costringendo noi a volgere lo sguardo da loro ai dipinti piacevolmente stupiti della scoperta. Il colore di Tintoretto è sensuale e nei ritratti si fa carne rendendo il tipo di pelle, il colore rubizzo, l’accensione di piccole venuzze che fanno arrossare i pomelli, la carne rorida o flaccida.

La furbizia, l’orgoglio, il cinismo e magari il disprezzo sono rivelati dagli occhi che l’artista traccia con tocchi veloci, decisi, penetranti.

La pennellata grassa, decisa, lasciata come risulta senza riprese, è già stata ampiamente sfruttata da Tiziano vecchio, Tintoretto ne è il continuatore e ne fa l’uso che vuole nei tessuti pesanti, in certi guizzi chiari di pelliccia che fuoriesce dai mantelli, nei colpi di chiaro che distribuisce arditamente qua e là come se tra le setole del pennello riuscisse a imprigionare grumi di luce.

Tra gli autoritratti, colpisce quello del Louvre, il Tintoretto vecchio, con le occhiaie cadenti, la barba mossa e lo sguardo appannato eppur penetrante, quasi teso nello sforzo di raccogliere le ultime immagini da affidarsi all’instancabile pennello, docile ancora nelle mani prodigiose del vecchio dipintore.