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Trust vs Associazione

Berlino, 1989
Ph. Massimo Golfieri / Berlino, 1989

Qualche tempo fa sono stato interessato da un amico, peraltro fine giurista, che mi ha proposto di partecipare a un’iniziativa filantropica pensata per agevolare l’inserimento, attraverso la messa a disposizione di un’abitazione, dei migranti viventi all’interno della città in cui entrambi abitiamo.

Al di là delle modalità, obiettivamente complesse pensate per agevolare questo inserimento, ma che comunque non rappresentano il punto centrale di queste considerazioni, ci siamo trovati a dissertare su quale fosse lo strumento giuridico più idoneo per attuare questo progetto.

L’idea originaria del mio amico (cui alla fine è rimasto fedele) è stata quella di dar vita a una associazione non riconosciuta di cui aveva predisposto l’atto costituivo e lo statuto.

Confesso di essere rimasto un po' deluso perché, essendone stato richiesto, avevo indicato nel trust la forma più idonea per portare avanti questo progetto e, personalmente, sono rimasto anch’io fedele al mio punto di vista.

Le ragioni della mia preferenza concernevano non solo gli aspetti giuridici, ma anche quelli funzionali e operativi, indispensabili per capire le motivazioni dell’indicazione fornita.

La forma dell’associazione non riconosciuta costituisce uno schema classico per il perseguimento di scopi non lucrativi. Inoltre la sua disciplina limita la responsabilità patrimoniale a chi abbia agito in nome e per conto dell’associazione, obiettivo che si consegue attraverso la costituzione di un fondo comune. D’altro canto la struttura associativa prevede la presenza di una serie di organi gli amministratori (o l’amministratore), l’assemblea, e un processo decisionale che postula una serie di passaggi formali, tanto più frequenti quanto più lo statuto riduce l’ambito decisionale degli organi apicali subordinandolo al parere dell’assemblea e tanto più complessi in relazione al numero degli associati. Inoltre, al termine dell’associazione, gli associati non hanno il potere di decidere sulla sorte del capitale eventualmente residuato che verrà devoluto a entità aventi affinità di oggetto sociale.

Altri tratti salienti, per quanto qui interessa, sono dati dall’essere tutti i componenti dell’associazione titolari degli stessi diritti e doveri, tenuti quindi al pagamento di una quota associativa uguale per tutti. Nell’associazione vige il principio del voto capitario per cui ogni associato esprime uno e un solo voto (fatta eccezione per le deleghe quando sono ammesse).

Ora è fuori di dubbio che la struttura associativa sia idonea a rispondere alle esigenze che nel caso concreto si volevano tutelare, e quindi non rappresentava una scelta tecnicamente sbagliata.  È anche vero che rispetto a un trust, e soprattutto riguardo al caso di cui ci si stava interessando, era sembrata molto meno duttile e agile.

A mio avviso, uno dei punti più deboli della struttura associativa ipotizzata riguardava la durata, prevista in due anni. Tale scelta, che denuncia, già in partenza, le perplessità che i fondatori stessi nutrono circa la possibilità che l’iniziativa possa avere un seguito, indebolisce oggettivamente il progetto, ma al tempo stesso non giustifica la struttura architettata perché non si comprende la necessità di far luogo alla redazione dell’atto costituivo, dello statuto, di costituire organi rappresentativi quando la loro vita è potenzialmente destinata a durare lo spazio di un mattino

La brevità del termine, invero insolito, veniva giustificato col fatto che i vari associati non volevano impegnarsi per un periodo troppo lungo. Lo statuto prevede inoltre il diritto di recesso per ciascun socio, esercitabile però solo per giusta causa, col rischio di metter la camicia di Nesso a coloro che avessero deciso di aderire a questa iniziativa – diritto che però sembra logicamente giustificarsi solo laddove la durata dell’associazione, come previsto dallo statuto, prorogata al di là della sua originaria scadenza.

L’altro aspetto riguarda la struttura – prevista dalla legge – ma indubbiamente pletorica: l’assemblea dei soci in sessione ordinaria e straordinaria, il consiglio direttivo, il presidente, oltre a una ripartizione di poteri e di competenze di per sé ineccepibile, ma poco conciliabile con una struttura che dovrebbe avere nella rapidità di intervento uno dei suoi tratti essenziali.

La struttura di trust, che alternativamente era stata ipotizzata, aveva preso in considerazione il rilevante interesse che si manifesta, a ogni livello e nei più svariati ambiti,  relativamente a iniziative di carattere generalmente definibili come charitable o altrimenti di carattere filantropico assistenziale.

Nell’ambito di tali iniziative assistiamo sempre più spesso al ricorso al trust non tanto per gusto dell’esotico, quanto perché effettivamente la versatilità dell’istituto riesce a soddisfare contemporaneamente più esigenze attraverso a una struttura molto snella e funzionale.

I tratti che caratterizzano un tale veicolo, possono essere così riepilogati:

  • agilità di gestione che consente tempestività di interventi. Questa si realizza attraverso un processo decisionale essenziale che si concentra nella figura del trustee, soggetto a un controllo, più o meno pervasivo, a seconda delle scelte operate, da parte del guardiano;
  • struttura decisionale ridotta all’essenziale, e quindi uno o più trustee, uno o più guardiani e, al massimo, un organismo collegiale, composto dai donatori con poteri da definire, ma non operativi. Si possono ipotizzare anche altri organismi a latere, quale il comitato dei beneficiari o, nel caso, dei sottoscrittori, cui viene riconosciuto un potere consultivo e di orientamento. È chiaro che alla base di questa struttura c’è l’accettazione del principio dell’affidamento fiduciario;
  • la partecipazione all’iniziativa portata avanti dal singolo trust deve essere quanto mai libera e svincolata da formalismi di qualsiasi tipo. Ciò comporta che i contributi possano essere effettuati (almeno teoricamente) da chiunque e uno dei compiti del guardiano sarà proprio quello di rifiutare quei contributi che provengano da soggetti che potrebbero inquinare per le più svariate ragioni, l’iniziativa; 
  • la misura del contributo è libera nell’ammontare e nella periodicità. È una modalità che in qualche modo si riallaccia al crowdfunding. Inoltre si può prevedere la restituzione ai sottoscrittori/donanti delle somme erogate se nel loro complesso queste non raggiungessero la soglia critica necessaria per far decollare l’iniziativa;
  • la durata del trust non rappresenta un problema, potendo teoricamente essere (a seconda della legislazione cui far riferimento) anche indefinita, ma dovranno essere previste delle circostanze al ricorrere delle quali il trustee possa dichiarare la cessazione del trust (raggiungimento dello scopo; verifica dell’impossibilità del suo raggiungimento ecc.);
  • in virtù della “fiducia” riposta nel trustee, con il controllo del guardiano, il primo sarà dotato di una larga autonomia decisionale circa le modalità di realizzazione dello scopo del trust;
  • il trustee (o i trustee) può essere nominato per un certo periodo oppure a tempo indeterminato, ma il guardiano ha il potere di  revocarlo in ogni momento;
  • al di là di questi due organi che sono espressione delle scelte operate da coloro che hanno assunto l’iniziativa di istituire il trust, si può immaginare, come accennavo, la presenza di organismi a latere del trustee e del guardiano, formati da coloro che hanno versato dei contributi ovvero – a seconda dei casi – da istituzioni operanti in loco (Comune, enti no-profit, associazioni di categoria ecc.). Tali organismi possono essere modellati a seconda delle esigenze che si vogliono soddisfare avendo presente che, di norma, chi finanzia iniziative di carattere filantropico in senso ampio non è particolarmente interessato alla gestione ordinaria delle somme, anche perché alla base c’è la consapevolezza di aver affidato del denaro a persone degne di fiducia che tali rimangono fino a prova contraria. C’è invece il desiderio di essere informati e c’è l’interesse a che il progetto o l’iniziativa siano correttamente realizzati. Ora l’informazione può essere attuata sia attraverso una comunicazione a livello personale sia attraverso la pubblicizzazione dei risultati conseguiti, ma comunque, anche solo per dare la concreta impressione di coinvolgimento  nell’iniziativa, è opportuno che i finanziatori siano coinvolti e facciano parte di un organismo attraverso il quale possono esprimere le loro valutazioni e fornire indicazioni e commenti sull’andamento della gestione e i risultati conseguiti;
  • tale organismo non dovrebbe comunque comprendere al suo interno tutti coloro che abbiano effettuato donazioni – cosa che sarebbe assi complicato in un’ipotesi di raccolta più capillare di denaro – ma essere rappresentativo, magari attraverso un meccanismo di rotazione temporale, anche solo di una parte significativa dei donanti.

Un’altra soluzione interessante per il conseguimento di finalità charitable è rappresentato dalla fondazione di Jersey, sulla quale ci intratterremo più diffusamente in altra occasione.