Un giudicato “anticomunitario”
Indice:
Premessa
- La vicenda
- I fondamenti di diritto comunitario e le disposizioni interne
- Le pregiudiziali
Premessa
La giurisprudenza parla sempre la stessa “lingua”? Cosa accade quando il contrasto è tra giurisprudenza interna e giurisprudenza europea?
Può accadere che, a causa di un contrasto tra norme nazionali ed europee, si rischi di non vedersi tutelati i propri diritti in sede giurisdizionale. Non di rado vengono a crearsi contrasti tra norme di fonti diverse, ma quando il conflitto riguarda una norma in materia processuale possono esserci conseguenze non di poco conto che possono portare alla lesione dello stesso diritto alla tutela giurisdizionale.
Un tema molto dibattuto e controverso, e non ancora risolto, è, a tale riguardo, quello dell’impugnabilità delle sentenze della Consiglio di Stato.
La Costituzione all’articolo 111 comma 8 dispone che “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”, e ciò difformemente dalle sentenze di tutti gli altri organi che possono essere impugnate dinanzi alla Suprema Corte anche per violazione di legge. Un limite, questo, che incide sulla tutela degli interessi e diritti soggettivi dei singoli, soprattutto in materie complesse come quella degli appalti pubblici.
Sul punto è ritornata, con una pronuncia molto recente (n. 19598/20), la Corte di Cassazione S.U. che ha chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi in via pregiudiziale con riferimento a tale questione ai sensi e per gli effetti dell’articolo 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.
Mettendo in risalto il ruolo che ha avuto sul tema la sentenza Corte Costituzionale n. 6 del 2018, che ha costituito uno spartiacque tra il precedente orientamento costituzionale e quello successivo, la Corte sottolinea come l’impossibilità di promuovere il giudizio di cassazione per le sentenze del Consiglio di Stato determini, nelle materie disciplinate dal diritto dell’Unione e nei casi in cui il giudice amministrativo non applichi tale diritto e non ne applichi l’interpretazione fattane dalla Corte di Giustizia, “… il consolidamento della violazione di tale diritto ed espone lo Stato (e gli organi giurisdizionali) a responsabilità”.
Per comprendere bene la questione occorre partire dagli arbori.
1. La vicenda
Non è un caso che la vicenda della sentenza n. 19598/20 riguardi la materia degli appalti pubblici, considerato che in tale settore (più che in altri) vi è terreno fertile per contrasti tra norme interne e norme di diritto europeo.
Nel caso di specie la concorrente in una gara d’appalto (con oggetto l’individuazione di una Agenzia per il lavoro cui affidare per tre anni la somministrazione temporanea di personale a tempo determinato), esclusa per non avere ottenuto il punteggio minimo “di sbarramento” dell’offerta tecnica stabilito dalla stazione appaltante, ricorreva dapprima dinanzi al Tar Valle d’Aosta e poi, in appello, dinanzi al Consiglio di Stato impugnando e contestando l’esclusione dalla gara e quindi la decisione amministrativa di attribuzione, all’offerta tecnica, di un punteggio insufficiente per superare la soglia di sbarramento; oltre a tale motivo principale, si denunciava con ulteriori motivi i criteri generali di valutazione delle offerte, la nomina e la composizione della commissione di gara oltre alla mancata suddivisione della gara in lotti.
Il giudice di primo grado, pur rigettando le eccezioni avversarie di carenza di legittimazione ad agire in capo alla ricorrente, non accoglieva alcuno dei motivi proposti. Parimenti il Consiglio di Stato rigettava il motivo principale d’appello (ossia la contestazione dell’attribuzione all’offerta tecnica di un punteggio insufficiente) e non esaminava nel merito gli altri motivi del ricorso.
La sentenza del giudice d’appello si basava sulla carenza di legittimazione ad agire – erroneamente ritenuta sussistente dal giudice prime cure – in capo alla ricorrente che non poteva dirsi titolare di un interesse (qualificato) ad agire, essendo stata esclusa dalla gara e non avendo pertanto titolo per impugnare la prosecuzione della gara stessa e gli atti definitivi di aggiudicazione; in concreto, i giudici di Palazzo Spada, aderendo alla giurisprudenza di cui all’A.P. (sentenza n. 4/2011 e n. 9/2014), assumevano come prioritario il giudizio sul primo motivo del ricorso, tale per cui solo nell’ipotesi di accoglimento del motivo di censura principale – ovvero la contestazione del punteggio relativo all’offerta tecnica – la società avrebbe potuto “sperare” nella disamina ed eventuale accoglimento dei motivi seguenti diretti a caducare la gara e a permetterne la riedizione, non postulandosi diversamente un interesse idoneo ad impugnare (che pure, sempre secondo detto orientamento, verrebbe a mancare nell’ipotesi di difetto delle condizioni soggettive di partecipazione alla gara, come pure per altre cause derivanti da carenze oggettive delle offerte o inidoneità delle stesse).
Il ricorso per Cassazione che si eleva, a questo punto, sul giudicato amministrativo, è basato, nella prospettazione della tesi della società, sulla lesione del diritto alla tutela giurisdizionale effettiva (secondo la Direttiva CEE n. 665 del 1989) nel senso che basterebbe a fondare l’interesse ad agire la mera probabilità di conseguire un vantaggio (mediante la proposizione del ricorso) consistente in un qualsiasi risultato quale potrebbe essere anche quello di riedizione della procedura di gara. Mediante il richiamo di precedenti autorevoli giurisprudenziali, la società sostiene perpetrarsi una evidente lesione al proprio diritto alla tutela giurisdizionale nel momento in cui il giudice, con il proprio operato, viola gli articoli 362 comma 1 codice procedura civile e 110 codice processo amministrativo negando all’operatore economico di agire per travolgere la gara; dette disposizioni, difatti, prevedendo il ricorso in cassazione per le decisioni del Consiglio di Stato per motivi di giurisdizione, sugellano la possibilità di ricorrere laddove vi sia stato un diniego di accesso alla tutela stessa stigmatizzato (già) da precedenti giurisprudenziali della stessa Corte (S.U. 6 febbraio 2015 n. 2242 e 29 dicembre 2017 n. 31226).
Le parti resistenti, all’opposto, sostengono che il motivo di censura avanzato attenga, piuttosto, ad una eventuale violazione di legge che, in quanto tale, non trova sede nel giudizio in cassazione (limitato ai soli motivi di giurisdizione) e che quindi la decisione del Consiglio di Stato non soffrirebbe più – nel nostro ordinamento – alcuna critica definitivamente consolidandosi.
In concreto dinanzi alla Corte si prospetta quindi il caso, intensamente inciso dal diritto europeo, in cui il giudicato amministrativo presenta profili di contrasto con lo stesso diritto sovranazionale a cui poter, nel caso, porre “rimedio” mediante il ricorso in cassazione laddove ai motivi di giurisdizione sia attribuita una connotazione “ampia” comprendente anche il vaglio della corretta applicazione interna del diritto UE.
2. I fondamenti di diritto comunitario e le disposizioni interne
La Corte richiama disposizioni e principi sia comunitari che interni pertinenti al caso.
Fa in particolare riferimento alla Direttiva 89/665/CE – modificata dalla Direttiva 2007/66/CE – ricordando che “Gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari per garantire che, per quanto riguarda gli appalti disciplinati dalla Direttiva […] le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e in particolare quanto più rapido possibile secondo le condizioni previste negli articoli da 2 a 2 septies della presente direttiva, sulla base del fatto che hanno violato il diritto comunitario in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici o le norme nazionali che lo recepiscono”; ed ancora “Gli stati membri provvedono affinché i provvedimenti presi in merito alle procedure di ricorso di cui all’articolo 1 prevedano i poteri che consentono di : (…) b) annullare o far annullare le decisioni illegittime (…)” e poi, al considerando diciassettesimo, dove è scritto “Una procedura di ricorso dovrebbe essere accessibile almeno a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”.
Del diritto nazionale, invece, rammenta l’articolo 111 ottavo comma della Costituzione, in tema di esclusività dei motivi di giurisdizione per il ricorso in Cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato, come pure l’articolo 360 codice procedura civile ed il 110 codice processo amministrativo sui motivi del ricorso. Non trascura l’articolo 1 del codice del processo amministrativo sull’effettività della tutela giurisdizionale, articolo di esordio del codice che esprime il principio di tutela “piena” non solo in base alla Costituzione ma anche secondo i principi di diritto europeo. Ed ancora l’articolo 2 codice processo amministrativo e l’articolo 102 codice processo amministrativo, come pure gli articoli 112 codice procedura civile e 2697 e 2909 del codice civile, volti, nell’insieme a dare cittadinanza ad una tutela giurisdizionale comunitaria non più isolata entro in confini nazionali.
3. Le pregiudiziali
Alla domanda, quindi, se l’eventuale violazione del diritto dell’Unione imputabile al Consiglio di Stato sia o meno censurabile con ricorso per Cassazione, la Corte risponde ripercorrendo la propria giurisprudenza ante e post sentenza n. 6 del 2018.
Sino a tale pronuncia, infatti, la Corte ha ritenuto sussistente (in ambito Sezioni Unite) la possibilità di sindacare le sentenze del giudice amministrativo – come pure quelle degli altri giudici – per la nozione evolutiva del concetto di giurisdizione che, passando da una interpretazione basata sui presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, è approdata al contenuto di quel potere e alle forme attraverso cui lo stesso potere si estrinseca.
In buona sostanza alla Corte è data la possibilità di verificare se il giudice amministrativo eroghi correttamente il potere che la legge gli attribuisce.
Nel percorso “ante” sentenza del 2018 la Corte aveva, nelle controversie inerenti al diritto dell’Unione europea, cassato la sentenza del Consiglio di Stato con cui, ad esempio, era stato esaminato prioritariamente il ricorso incidentale dell’aggiudicataria che aveva rappresentato cause ostative alla partecipazione alla gara del concorrente escluso e con cui era stato omesso di esaminare le censure di quest’ultimo dirette a contestare la propria esclusione e l’aggiudicazione in favore dell’impresa concorrente, il tutto in contrasto con i principi sanciti nella sentenza CGUE 4 luglio 2013 – C-100/12. Le Sezioni Unite si erano espresse nel senso di ritenere sufficiente a radicare l’interesse a ricorrere la mera eventualità del rinnovo della gara.
In tali casi la Corte aveva apprezzato come “abnorme” il potere esercitato dal giudice, responsabile dell’adozione di una decisione da “caso estremo” per “errores in iudicando” o “in procedendo” tale da dar luogo al superamento del limite esterno.
Lo spartiacque rappresentato dalla sentenza n. 6 del 2018 è, senza dubbio, un freno all’evoluzione della nozione di giurisdizione, particolarmente forte poiché la violazione attiene alle norme dell’Unione.
I giudici con la predetta sentenza “bloccano” il controllo sull’effettivo potere esercitato dai giudici amministrativi e prendono posizione – stillando un orientamento che sarà seguito nelle successive pronunce – escludendo espressamente dalle c.d. “ipotesi estreme” quelle di contrasto delle sentenze del Consiglio di Stato alle sentenze della Corte di Giustizia, cancellando ogni ipotesi di ricorso per cassazione per travalicamento dei limiti esterni della giurisdizione.
La violazione del diritto europeo da parte dei giudici amministrativi ammetterebbe, secondo tale nuova impostazione, la sola via indiretta della risarcibilità del danno per responsabilità dello Stato, nessun rimedio potendosi ipotizzare per evitare il cristallizzarsi della decisione.
Sulla scorta di un tale quadro, variegato e complesso, la Corte solleva dubbi di compatibilità con il diritto UE.
Muove da un punto cardine, fulcro del rapporto tra Unione e Stati membri: la cessione di sovranità.
Nelle materie, infatti, disciplinate dal diritto dell’Unione lo Stato ha abdicato la propria sovranità, o meglio ne ha fatta rinuncia, consentendo all’Unione di esercitarla tramite i giudici nazionali che sono, in forza di tale cessione, i giudici dell’Unione il cui potere esiste esclusivamente in funzione dell’applicazione del diritto dell’Unione.
Il Trattato, come ben spiegato in sentenza, “benché sia stato concluso in forma d’accordo internazionale, costituisce la carta costituzionale di una comunità di diritto. Come risulta dalla giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia, i Trattati comunitari hanno instaurato un ordinamento giuridico di nuovo genere, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, in settori sempre più ampi, ai loro poteri sovrani e che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini”; in altri termini la Corte fa scudo del Trattato FUE perché lo stesso ha tenuto a battesimo una nuova comunità, ed ha creato un nuovo ordinamento giuridico nel quale gli stessi cittadini sono titolari di posizioni e diritti direttamente assicurati e tutelati dall’Unione.
Ecco, allora, che risuona come un “campanello d’allarme” l’obbligo degli Stati di dare “leale attuazione al principio secondo cui il giudice nazionale è vincolato ai fini della soluzione della controversia dall’interpretazione fornita dalla Corte e deve eventualmente discostarsi dalle valutazioni dell’organo giudiziario di grado superiore qualora esso ritenga che queste ultime non siano conformi al diritto dell’Unione”.
La stessa eventuale responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario da parte del giudice interno è un forte deterrente che persuade la Corte nella prospettazione della pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia.
Le stesse sentenze, molteplici (cit. Corte di Giustizia Grande Sezione 8 settembre 2015 C-105/14 come pure sent. 4 maggio 2006 C-23/03, C-52/03, C-133/03), che confermano l’obbligo del giudice nazionale di garantire la piena efficacia del diritto europeo disapplicando all’occorrenza le disposizioni e le prassi interpretative nazionali contrastanti senza attendere la previa rimozione in via legislativa corroborano la prospettazione della pregiudiziale.
La Corte di Cassazione, quindi, rivolge alla Corte più quesiti.
Il primo attiene alla compatibilità con il diritto UE della prassi interpretativa del ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato per “motivi di giurisdizione” che non possa utilizzarsi per censurare decisioni confliggenti con le sentenze CGUE, nei casi in cui gli Stati abbiano rinunciato ad esercitare i loro poteri sovrani (segnatamente nella materia degli appalti pubblici); il secondo, al primo collegato, riguarda anche qui la compatibilità questa volta della prassi relativa al ricorso per cassazione nei casi in cui il Consiglio di Stato, decidendo controversie su questioni incise dal diritto UE, ometta immotivatamente di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte; il terzo, infine, attiene alla applicazione dei principi dichiarati dalla Corte di Giustizia alla fattispecie oggetto di esame in cui l’impresa abbia contestato l’esclusione dalla gara e l’aggiudicazione ad altra impresa, ed il Consiglio di Stato si sia limitato ad esaminare nel merito il solo primo motivo di censura legato alla soglia di sbarramento (esaminando prioritariamente i ricorsi incidentali delle ditte concorrenti) omettendo, pertanto, di esaminare nel merito gli altri motivi del ricorso principale.
Un altro tassello nella ricerca di un diritto uniforme, “certo”.
Un diritto che sostanzi quella comunità che il Trattato ha messo “nero su bianco”, elevando le tutele dei cittadini d’Europa.