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Una nuova classe burocratica ha preso il potere nei paesi comunisti

La nuova classe
La nuova classe

Milovan Gilas

La nuova classe.

1957

La nuova classe

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La nuova classe è stato giudicato dal New York Times uno dei cento libri più influenti del ventesimo secolo. L’opera di Milovan Gilas, alto dirigente comunista iugoslavo diventato dissidente, rappresenta infatti una delle prime critiche al socialismo realizzato che individua nello statalismo comunista una forma di dominio parassitario della classe politico-burocratica sulle classi produttive. L’analisi contenuta nel libro La nuova classe contiene una penetrante critica al concetto di proprietà collettiva e la dimostrazione della tendenza burocratica e totalitaria del comunismo.

 

RIASSUNTO

Dal potere alla dissidenza

La nuova classe è un’opera strettamente legata alla vicenda personale del suo autore e alla storia del comunismo dell’Europa orientale. Per molti anni, infatti, Milovan Gilas ha rappresentato l’incarnazione del comunista ortodosso e intransigente. Dirigente del partito comunista iugoslavo fin dal 1930, viene arrestato dalla polizia reale e tenuto in prigione per tre anni. Durante la seconda guerra mondiale diventa il braccio destro di Tito nella resistenza contro i tedeschi, che sfocia nella presa del potere alla fine della guerra.

Nel 1948 Gilas assume un ruolo politico di primissimo piano, spingendo Tito a rompere con l’Unione Sovietica di Stalin e a proclamare la via nazionale al comunismo. Nel 1953 diventa presidente del Parlamento iugoslavo. A questo punto tutto lasciava pensare che Gilas sarebbe diventato il successore naturale di Tito, ma improvvisamente, tra lo stupore generale, comincia a criticare il regime: Gilas è dunque un idealista! Invoca una maggiore libertà d’opinione, denuncia la deriva burocratica e condanna il sistema a partito unico, a suo avviso non più necessario una volta compiuta la rivoluzione.

Gilas cade ben presto in disgrazia. Non solo perde ogni carica politica, ma viene arrestato e condannato per deviazionismo. Nel 1957 pubblica all’estero il suo capolavoro, La nuova classe, che gli costa altri due anni di carcere. Nel 1966 viene scarcerato definitivamente e può condurre una tranquilla vita di scrittore a Belgrado, ma non può pubblicare in patria le sue opere. Gilas è stato dunque l’unico alto dirigente nella storia del comunismo che abbia conquistato ed esercitato il potere, e l’abbia poi volontariamente rifiutato. Sono casi più unici che rari anche nelle nostre democrazie. Egli, tuttavia, non rinnegherà mai il nucleo delle sue idee giovanili, e anche dopo l’abiura del comunismo si dichiarerà sempre socialista o socialdemocratico.

 

La proprietà pubblica non esiste

Tutte le rivoluzioni comuniste, appena giungono al potere, operano una profonda modificazione dei rapporti di proprietà, sopprimendo la proprietà privata a vantaggio di quella collettiva. La nazionalizzazione dell’industria e delle grandi aziende agricole è la prima concentrazione di proprietà nelle mani del nuovo regime. Successivamente vengono espropriati anche i piccoli proprietari, gli artigiani, i commercianti, i contadini, i piccoli imprenditori: tutti quei ceti che inizialmente non si sono opposti alla rivoluzione, o che magari l’hanno sostenuta. Lo stato finisce quindi per amministrare e controllare ogni proprietà. La proprietà privata cessa di esistere o scade a un ruolo di secondaria importanza.

I benefici della generale collettivizzazione però non si materializzano. Lo spontaneo e disorganizzato scontento della massa popolare non cessa né diminuisce. Nonostante l’oppressione, il dispotismo, le confische e i privilegi delle alte sfere, i comunisti continuano a credere nelle parole d’ordine che vengono proclamate. Ogni rivoluzione comunista, scrive Gilas, «semina e propaga le più grandi e le più durature delle illusioni», tuttavia non può raggiungere nessuno dei suoi ideali. Il mezzo impiegato per la realizzazione del programma, la statalizzazione della proprietà privata, contiene infatti un equivoco di fondo, che Gilas vuole a mettere in luce.

Il problema fondamentale è che il concetto di “proprietà pubblica” o “collettiva” nasconde un imbroglio semantico, dato che “pubblico” e “collettivo” sono solo dei concetti astratti, o metafore. Soltanto gli individui vivono, pensano, agiscono, possiedono e hanno bisogni. Dato che in ultima analisi sono sempre gli individui singoli ad appropriarsi di qualcosa, nella realtà la proprietà pubblica non esiste: tutta la proprietà è sempre e solo privata. Aldilà delle denominazioni formali, proprietario di un bene è colui che decide sui modi di utilizzazione di un bene e che gode dei suoi frutti. I beni in “proprietà pubblica” sono allora, di fatto, in proprietà privata della classe politico-burocratica, che decide come usarli e che si appropria dei benefici della loro amministrazione sotto forma di stipendi, poltrone, prebende.

Nei regimi socialisti il popolo non era “proprietario di tutto” come diceva la propaganda, ma proprietario di niente: i veri proprietari delle ricchezze del paese erano i membri della nomenklatura. Secondo la definizione giuridica romana, ricorda Gilas, la proprietà costituisce l’uso, il godimento e la disponibilità dei beni materiali. Ebbene, la burocrazia politica comunista usa, gode e dispone della proprietà nazionalizzata, e quindi ne è la reale proprietaria: «questo è quanto appare all’uomo comune, il quale considera il funzionario comunista molto ricco e come individuo che non ha bisogno di lavorare» (p. 53).

 

Burocrati contro produttori

La proprietà collettiva serve dunque a fornire un’indispensabile base materiale alla nuova classe burocratica salita al potere. Si spiegano così le guerre sanguinose che i regimi comunisti hanno sempre scatenato contro i contadini, i quali nei paesi non industrializzati costituiscono la stragrande maggioranza dei ceti produttivi. L’obiettivo della “collettivizzazione” era quello di sottrarre la proprietà delle ricchezze ai produttori e ai legittimi proprietari, per trasferirla alla “nuova classe” parassitaria dei rivoluzionari di professione. «L’apparizione improvvisa di una nuova classe – spiega Gilas – è stata celata sotto la fraseologia socialista, e, ciò che è più importante, sotto le nuove forme collettive di possesso di proprietà. La cosiddetta proprietà socialista è un travestimento della proprietà reale da parte della burocrazia politica» (p. 56).

Tutto questo è tanto più vero in un sistema, come quello comunista, che non conosce alcuna separazione tra politica ed economia, perché il potere politico e la proprietà dei beni materiali sono inestricabilmente fusi. La burocrazia statale dei paesi occidentali, osserva Gilas, non arriva ad esercitare un’autorità così totalitaria come la burocrazia comunista, perché trova dei limiti nella presenza di una classe politica eletta e in un vasto ceto di proprietari. I funzionari comunisti si rendono conto ben presto che il potere politico, portando con sé il controllo della proprietà “pubblica”, garantisce i massimi privilegi. «Chi si impadronisce con violenza del potere ­– scrive Gilas – fa altrettanto con i privilegi e, indirettamente, con la proprietà. Di conseguenza, nel comunismo la presa del potere o la politica come professione è l’ideale di coloro che hanno il desiderio o la prospettiva di vivere da parassiti a spese degli altri» (p. 55).

Per questa ragione nel comunismo c’è una corsa inarrestabile alla carriera politica e burocratica, che genera inevitabilmente l’ambizione senza scrupoli, la doppiezza, il servilismo e la gelosia. Nel comunismo la conquista del potere politico è letteralmente una questione di vita o di morte, sia per ragioni ideologiche, dato che per il materialismo storico marxista il successo politico indica che si sta procedendo “nel senso della storia”, sia per ragioni materiali, perché solo il potere garantisce il controllo della proprietà. L’arrivismo e una burocrazia sempre in espansione sono dunque le malattie incurabili del comunismo: «L’autorità è lo scopo e il mezzo fondamentale del comunismo e di ogni vero comunista. La sete del potere è insaziabile e irresistibile fra i comunisti. La vittoria nella lotta per il potere equivale alla divinizzazione: l’insuccesso significa la mortificazione più profonda e la caduta in disgrazia» (p. 93).

L’esercizio del potere, spiega Gilas, provoca sempre un eccitamento delle passioni, ma nessuna forma di potere è in grado di suscitare un’estasi paragonabile a quella del comunismo. In un regime comunista i dirigenti possiedono infatti contemporaneamente l’autorità e la certezza ideologica: ogni volta che consolidano i privilegi personali e rafforzano la repressione, sono convinti di servire interessi superiori. Ogni loro azione si identifica, necessariamente con la Storia. Gli unici marxisti autentici sono i dittatori.

 

Il comunismo non è riformabile

L’economia gestita collettivamente dalla burocrazia conduce però inevitabilmente a uno «spreco di fantastiche proporzioni», anche perché la proprietà “di tutti” sembra non appartenere a nessuno. «I capi comunisti trattano la proprietà nazionale come propria, ma nello stesso tempo la sperperano come se fosse di altri». Lo spreco maggiore, però, è quello del potenziale umano: «L’opera lenta, improduttiva di milioni di persone prive di interesse, insieme con la prevenzione e l’impedimento di ogni lavoro non considerato “socialista”, rappresenta lo sperpero incalcolabile, invisibile e gigantesco che nessun regime comunista ha mai potuto impedire» (p. 134). Nonostante l’economia pianificata sia forse «l’economia più rovinosa nella storia della società umana», la nuova classe non può rinunciarvi senza minare se stessa, perché «spogliare i comunisti dei loro diritti di proprietà equivarrebbe ad abolirli come classe» (p. 54).

La burocrazia comunista, infatti, tra vantaggio dalla statalizzazione dell’economia anche quando provoca il crollo della produzione e il caos economico generale. Un tipico caso fu la collettivizzazione dell’agricoltura in Unione Sovietica, totalmente ingiustificata da un punto di vista economico ma politicamente indispensabile perché la nuova classe doveva insediarsi con tutta sicurezza nel suo potere e nei suoi possessi. «Si possono calcolare le perdite delle produzioni agricole e dell’allevamento, ma le perdite di manodopera, dei milioni di contadini gettati nei campi di lavoro forzato, sono incalcolabili. La collettivizzazione – osserva Gilas – fu una guerra spaventosa e devastatrice che somigliò a una folle impresa, se si esclude il profitto che ne trasse la nuova classe assicurandosi l’autorità» (p. 66-67).

Né può esservi, nel collettivismo, alcun progresso intellettuale. La nuova classe teme più di ogni altra cosa la critica del sistema, perché avverte istintivamente che i beni nazionali sono di fatto sua proprietà e che i termini “socialista”, “sociale” e “statale”, a proposito della proprietà, denotano una finzione giuridica. Essa si oppone a ogni libertà d’opinione, d’espressione o di stampa che possa mettere in pericolo la proprietà socialista, cioè la sua proprietà. Nel sistema comunista il cittadino vive quindi oppresso dal tormento continuo della paura di trasgredire, e ha sempre timore di dover dimostrare di non essere un nemico del socialismo. L’innovazione è sempre il risultato di una mutata visione del mondo nella mente dello scopritore, ma l’inventore rischia di passare per un “eretico”, se le sue teorie non coincidono con il dogma stabilito. Questo spiega perché «nonostante il progresso tecnico nessuna grande scoperta scientifica moderna è stata realizzata sotto il governo sovietico» (p. 150).

Gilas vedeva già la tendenza del mondo all’unificazione economica, e si rendeva conto che il collettivismo ostacolava questo naturale processo. Questa tendenza autarchica dei sistemi comunisti, con il loro isolamento dall’economia mondiale, contribuiva ulteriormente alla loro stagnazione: «La cosiddetta proprietà socialista del comunismo – osserva Gilas – è l’ostacolo maggiore alla unificazione del mondo. Il dominio collettivo e totale della nuova classe crea un sistema politico economico isolato che impedisce l’unificazione … Portando a un tipo unico di proprietà, di governo e di idee, questo sistema inevitabilmente si isola. E inevitabilmente muove verso l’intransigenza» (p. 217).

Per questa ragione Gilas non credeva, a differenza della maggior parte degli analisti del suo tempo, che il sistema comunista avrebbe potuto alla lunga sopravvivere: «Una nazione che non si renda consapevole dei processi e delle tendenze del mondo attuale dovrà pagare a caro prezzo le conseguenze. Resterà inevitabilmente indietro e alla fine, quale che sia la sua forza numerica e militare, dovrà adeguarsi all’unificazione del mondo» (p. 219). In ogni caso, concludeva Gilas profetizzando con più di trent’anni di anticipo il crollo del comunismo e la conseguente spinta alla globalizzazione dell’economia, il mondo si trasformerà e andrà verso una maggiore unità, verso il progresso e verso la libertà, perché «la forza della realtà e la forza della vita sono sempre state più vigorose di ogni sorta di forza brutale e più reali di ogni teoria» (p. 231).

           

 

CITAZIONI RILEVANTI

La proprietà privata ostacola il potere burocratico

«La proprietà privata, per molte ragioni, si è dimostrata poco propizia all’instaurazione dell’autorità della nuova classe, [che] ottiene il suo potere, i suoi privilegi, la sua forza ideologica e le sue abitudini da una forma particolare di proprietà – quella collettiva – che la classe amministra e distribuisce in nome della nazione e della società» (p. 53).

Peggio del dispotismo orientale

«In base alle definizioni scientifiche di una classe … concludiamo che, nell’Unione Sovietica e negli altri paesi comunisti, esiste una nuova classe di padroni e di sfruttatori. La caratteristica che definisce questa nuova classe è la proprietà collettiva … Quest’ultima è sempre esistita, sotto varie forme, in tutte le precedenti società. Tutte le antiche tirannidi orientali si fondarono sulla preminenza della proprietà dello stato o del re … I comunisti non hanno inventato, dunque, la proprietà collettiva in quanto tale, ma il suo carattere totale, rendendola più ampiamente estesa che nelle epoche precedenti, e più vasta che nell’Egitto dei Faraoni» (p. 63-64).

La vergogna del comunismo

«La storia perdonerà molte cose ai comunisti stabilendo che essi furon costretti ad agir brutalmente a causa delle circostanze e del bisogno di difendere la propria esistenza. Ma l’oppressione di ogni opinione divergente, il monopolio esclusivo sul modo di pensare allo scopo di difendere i propri interessi personali, inchioderanno i comunisti, nella storia, a una croce di vergogna» (p. 162).

 

Punti da ricordare

  • In tutti i regimi comunisti è sorta una Nuova Classe onnipotente, la burocrazia statale
  • La proprietà collettiva è una finzione giuridica che nasconde la proprietà di fatto della nomenklatura comunista
  • La nazionalizzazione degli strumenti di produzione serve a garantire una base materiale al potere della Nuova Classe burocratica
  • La burocrazia comunista reprime ogni forma di libertà per timore di perdere i privilegi legati alla gestione della proprietà socialista
  • Sprechi e stagnazione sono inevitabili nell’economia pianificata
  • Isolandosi dall’economia globale, i paesi comunisti si condannano all’arretratezza

 

L’autore

Milovan Gilas (1911-1995) nasce il 4 giugno 1911 a Podbisce, nel Montenegro. Studia lettere e diritto, e a vent’anni si iscrive al partito comunista. Nel 1933 viene arrestato per attività illegali e condannato a tre anni di lavori forzati. Torna in libertà nel 1935, e due anni dopo conosce Tito, del quale diventerà amico intimo e principale collaboratore. Nel 1940 entra nel comitato centrale del partito, e nel 1941 dirige la resistenza antinazista. Con la liberazione viene nominato ministro del Montenegro nel primo governo del maresciallo Tito, e nel 1948 lo sostiene nella rottura con Stalin. Incaricato della propaganda, Gilas organizza una ferrea dittatura culturale che gli vale il soprannome di “zar della stampa”. Nel 1953 diventa vice primo ministro e poi presidente del parlamento iugoslavo. Nello stesso anno, tra la sorpresa generale, passa però alla dissidenza scrivendo degli articoli critici del sistema sulle riviste “Borba” e “Nova Misao”. Nel 1957 viene condannato da un tribunale jugoslavo a sette anni di carcere duro per aver scritto “La nuova classe”, e recluso nella stessa cella in cui aveva scontato la condanna ai tempi della monarchia. Liberato in anticipo nel 1961, fa pervenire a New York il manoscritto di “Conversazioni con Stalin”, e per questo viene condannato di nuovo a nove anni di carcere. Nel 1966, graziato da Tito, si stabilisce a Belgrado dove può continuare l’attività di scrittore, ma i suoi scritti non possono essere pubblicati nel suo paese. Negli anni Novanta si oppone al montante nazionalismo e alle forze centrifughe che stanno disgregando la Iugoslavia. Muore il 20 aprile 1995 e viene sepolto, secondo le sue disposizioni, con il rito serbo-ortodosso.

 

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Milovan Gilas, La nuova classe. Una analisi del sistema comunista, Il Mulino, Bologna, 1957, traduzione di Luciano Serra, p. 233.

Titolo originale: The New Class

 

INDICE DEL LIBRO

Spectator, Introduzione VII

Prefazione 3

1. Le origini 7

2. Il carattere della rivoluzione 22

3. La nuova classe 45

4. Lo stato-partito 81

5. Il dogmatismo nell’economia 116

6. La tirannide sul pensiero 139

7. Il fine e i mezzi 163

8. L’essenza del comunismo 181

9. Il comunismo nazionale 190

10. Il mondo d’oggi 208