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Uno sguardo sui bambini

Enfant terrible
Ph. Simona Balestra / Enfant terrible

Abstract

Il contributo propone una sintetica carrellata di quanto gli adulti spesso non vedono ma che, invece, è necessario alla crescita dei bambini, persone in via di formazione.

 

“Interesse superiore del fanciullo”, recita l’articolo 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e si ripete in alcune sedi: “interesse”, anagrammato, diventa “intessere” “in tessere” di vita, soprattutto a livello comunitario (quella comunità richiamata nell’articolo 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). “Fare rete”, espressione spesso ripetuta, in particolare in quelle vicende che segnano indelebilmente e irreversibilmente la vita dei bambini: dalla violenza assistita a eventi straordinari come una pandemia.

In ogni situazione si deve riflettere sulla differenza tra il superiore interesse dei bambini e gli svariati (o sottesi o egoistici) interessi degli adulti che dicono di agire nell’interesse dei bambini, a cominciare dai genitori nelle varie circostanze della vita quotidiana (allattamento, svezzamento, abbigliamento, iscrizione scolastica), ma soprattutto nelle vicende di separazione/divorzio, quando due coniugi (o conviventi) si lasciano con superficialità e leggerezza o continuano imperterriti a stare insieme “per il bene dei figli”. E le fiabe classiche contengono numerosi esempi in tal senso, basti pensare ad Hänsel e Gretel, lasciati soli in mezzo al bosco perché i genitori non avevano di che sfamarli (senza formarli né informarli del distacco, come accade oggi).

Ci si preoccupa di dare cose materiali ai bambini, di dare loro tutto il possibile, della loro salute fisica ma non ci si preoccupa adeguatamente del loro benessere psicofisico, di dare loro stabilità degli affetti, fermezza di valori, saldezza di punti di riferimento “riconosciuto che il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

La psichiatra e psicoanalista argentina Janine Puget scriveva nel 2002: “Ogni soggetto ha bisogno di pensarsi su basi coerenti, prevedibili, stabili, affinché possa proteggersi dall’intrusione dell’“estraneo” con il suo correlato di imprevedibilità, e questo diventa una difesa contro l’incertezza. Nella sua solitudine e con i suoi legami il soggetto sostiene illusoriamente un’esigenza di certezza, di verità e di conoscenza che rende possibile sopportare le alternative della vita quotidiana. […] In diverse circostanze perdere l’illusione di prevedibilità non causa ripercussioni significative: cade qualche certezza e ne subentrano di nuove. Ma in altre circostanze perdere le illusioni produce sofferenza, che viene vissuta come uno stato mentale caratterizzato da smarrimento, esitazioni, disorientamento e angoscia e assume sia la forma del panico sia quella della paura, con varie ripercussioni”. Tutto ciò è ancor più vero per i bambini che, privati di serenità e sicurezza, possono manifestare vari disturbi, da quelli del comportamento alimentare a forme depressive.

Una ricerca pubblicata nel 2013 dall’Università Bicocca di Milano, condotta in collaborazione con un ateneo canadese e concentrata su cinque emozioni (felicità, rabbia, paura, tristezza, senso di colpa), ha dimostrato che se i bambini parlano delle loro emozioni, in piccoli gruppi e sotto la guida di un adulto, riescono a essere più empatici e migliorano le loro capacità cognitive. Diventeranno adulti più consapevoli e intuitivi. Nella Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance (Parigi, giugno 2007) si legge: “Lo sviluppo integrale del bambino e la sua felicità richiedono ancora, qualunque sia la sua situazione, che egli possa riflettere”.

Riflettere (da “volgere, attorcere di nuovo”) indica un processo in cui ci si ripiega su se stessi per far emergere quanto c’è sotto, processo che è bene che i bambini acquisiscano sin da piccoli per il pieno e armonico sviluppo della loro personalità, come evidenzia lo scrittore Simone Perotti: “È sconvolgente notare come i ragazzi vivano fuori da questa consapevolezza e vadano dritti verso un potenziale burrone senza averne il minimo sentore. Nessuno gli parla della vita, di com’è, di che attrezzatura serve per affrontarla, di cosa si troveranno davanti, cosa verrà loro richiesto. Domande semplici come «Tu sai chi sei?» sembrano vietate. Del resto chi mai dovrebbe porle, qualcuno che non sa chi è lui stesso? Eppure un quesito così semplice offre molte occasioni di riflessione, ad esempio che si possa essere qualcuno diverso dagli altri, che questo qualcuno sia com’è in base a caratteristiche proprie, e soprattutto che queste attitudini sono sia innate sia acquisibili, cioè che si possa (e si debba, talvolta) cambiare. Già ragionare sulla differenza tra le persone, sul fatto che non si deve cercare l’omologazione né temere di essere o di sentirsi «differenti», sarebbe moltissimo. «Uguale è banale, Diverso è meglio!». Qualcuno lo insegna?”. Ormai non si pongono più domande né si abitua a porsi domande ma si danno solo risposte senza che siano chieste o cose imposte.

Bisogna ricordare, invece, che: “I figli hanno il diritto di essere ascoltati prima di tutto dai genitori, insieme, in fa­miglia. I figli hanno il diritto di poter parlare sentendosi accolti e rispettati, senza essere giudicati. I figli hanno il diritto di essere arrabbiati, tristi, di stare male, di avere paura e di avere incertezze, senza sentirsi dire che “va tutto bene”. Anche nelle separazioni più serene i figli possono provare questi sentimenti e hanno il diritto di esprimerli” (punto n. 4 della Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, redatta nel settembre 2018).

Il giornalista Federico Rampini ha scritto:Se rinascessi vorrei insegnare economia ai bambini, affinché si sappiano guardare dagli avvoltoi e sappiano diventare cittadini consapevoli”. L’aggettivo “economico/a” è uno dei più ripetuti nella nostra Costituzione dall’articolo 2 “solidarietà economica” alla rubrica “Rapporti economici” del Titolo III della Parte I. È necessario trasmettere ai bambini il vero senso dell’economia, etimologicamente “regole della casa, amministrazione delle cose domestiche” (e non solo questioni di soldi, com’è comunemente intesa), ovvero un circolo che può diventare vizioso o virtuoso. Così i bambini daranno valore alla vita domestica e a quella di qualsiasi comunità: in tal modo si costruisce la solidarietà economica (articolo 2) o l’elevazione economica del lavoro (articolo 46).

Il sociologo statunitense Richard Sennett spiega: “Il desiderio di fare bene una cosa è un test decisivo per la nostra identità; perseguire attivamente un lavoro ben fatto e scoprire che non possiamo compierlo corrode il nostro senso di sé. […] La mia proposta di una nuova cultura materiale non ha niente a che vedere con una cultura consumista, perché riguarda il fare, nel senso di “poesis”, non il comprare. Osservo invece che ovunque materialismo e consumismo sono associati. Abbiamo bisogno di un materialismo culturale per capire meglio come le nostre cose sono fatte, da dove vengono: questo, nella mia visione, renderebbe il mondo migliore”. “Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe” (dalla poesia “Considero valore” di Erri De Luca): i bambini hanno bisogno di recuperare il senso del tatto e il contatto con la realtà.

Prendere parte e sentirsi parte, è questo il senso del diritto dei bambini “a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica”, di cui all’articolo 31 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. “Parte” che evoca tanto il “parto” per venire al mondo quanto la “partenza” per andare nel mondo: è necessario e doveroso che i bambini prendano parte, diano la loro parte, imparino la loro parte nella vita. Come pure è urgente che facciano propri i valori, “quello che vale”, di quello che comporta costi e sacrifici e non un prezzo come le cose sostituibili e deteriorabili. Così diventano abili e responsabili, come richiesto altresì nel Preambolo e nell’articolo 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

“Niente braccia incrociate ma nemmeno espressioni esagitate connotano la vera attesa, che è tenace e dignitosa, tiene alta la testa, e spesso ci fa crescere come non avremmo mai sospettato. Perché la risposta che viene può anche non esaudire le nostre domande” (cit.). Aspettare e non aspettarsi; l’altro, a cominciare da un figlio, è un’attesa, non un’aspettativa. I bambini vanno ascoltati (in silenzio e anche nel loro silenzio, come un libro) e accompagnati alla vita e non solo sentiti (acusticamente) e materialmente gestiti. I bambini hanno diritto al tempo, alla lentezza, alle fasi della vita. Quelle fasi che si ricavano già dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’infanzia. Aspettare un figlio non è farsi trovare a braccia incrociate o con le braccia protese ma fargli avvertire la propria presenza ed essenza come un faro per le navi, come un albero su cui fare il nido o sotto cui trovare riparo dal sole o dalla pioggia. Aspettare è anche rispettare. Quel verbo “rispettare” che, etimologicamente, riguarda lo sguardo, come pure i verbi “osservare” e “considerare”, tutto ciò che bisogna fare nei confronti dei bambini, come esperito e consigliato principalmente da Maria Montessori.   

Vedere bambini recarsi nella casa circondariale per la visita settimanale ai padri detenuti è sempre impressionante. Si può prepararli o spiegare loro, ma ci si chiede quale sia la loro impressione in un mondo con cancelli, controlli, uniformi, tempi misurati e spazi limitati? Nella vita di tutti i giorni quante relazioni genitori-figli sono fatte di cancelli, controlli, uniformi, tempi misurati e spazi limitati. Eppure l’infanzia dovrebbe essere il mondo della genuinità e dell’ingenuità. Nelle situazioni delle “famiglie lacerate”, tra genitori e figli, non si dovrebbe parlare di “visite” e si dovrebbe ricorrere alle cosiddette “visite protette” solo in casi limitati. La persona è relazione e ancor di più il bambino, persona in via di formazione. Si ha bisogno di una nuova cultura che può cominciare da una nuova terminologia e una neo-umanizzazione che non sia, però, solo un’operazione di lifting o di mera ipocrisia, come si è soliti fare.

“[…] una volta usciti dall’infanzia, occorre soffrire molto a lungo per rientrarvi, è anche vero che proprio in fondo alla notte, si ritrova comunque un’altra aurora” (lo scrittore francese Georges Bernanos). Crescere è coltivare il seme dell’infanzia e della speranza insita nella vita: ogni adulto lo ricordi e lo realizzi con ogni bambino affidatogli dalla vita o incontrato nella vita.