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Vaccino contro il Covid 19: il datore di lavoro può imporlo? E se il lavoratore rifiuta, può licenziarlo?

Vaccini
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Attualmente, la questione è molto discussa in dottrina. Alla giurisprudenza, per ovvi motivi, la questione non è ancora arrivata, dacché, al momento, giudizi di licenziamento causa non effettuazione del vaccino anti-Covid non sono ancora arrivate al vaglio dei giudici.

Si registrano orientamenti positivi alla tesi secondo cui il datore di lavoro possa imporre il vaccino.

Alcuni commentari fondano tale obbligo sull’articolo 2087 Codice Civile, che, come è noto, impone al datore di lavoro di “adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”.

Questa norma cioè impegna il datore di lavoro a proteggere il lavoratore con tutte le misure di sicurezza che la tecnologia gli mette a disposizione. Si è detto che tale norma sia una norma “aperta” o “di chiusura” della legislazione in materia di sicurezza sul lavoro, avendo la funzione di supplire le possibili lacune della legislazione prevenzionistica che non può prevedere ogni fattore di rischio: ai sensi dell’articolo 2087, il datore di lavoro deve provvedere a garantire la sicurezza dei lavoratori attuando gli interventi più adeguati al progresso scientifico e tecnologico e anche all’esperienza ed ai criteri generali di prudenza e diligenza.

Essendo il vaccino anti-Covid 19 una misura posta a disposizione del datore di lavoro per tutelare la salute dei lavoratori, il datore di lavoro avrebbe l’obbligo di usarla, proprio in forza dell’articolo 2087 Codice Civile.

Altri commentatori pongono il fondamento dell’obbligo del datore di lavoro di imporre il vaccino contro il Coronavirus sull’articolo 279 del Testo unico della sicurezza sul lavoro (Decreto Legislativo 81/2008).

Invero, secondo questi giuristi, la SARSCoV-2 sarebbe un agente patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3. In base all’articolo 279, comma 2, il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettiva particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezioni fra le quali: “a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”.

Ne deriva che il datore di lavoro avrebbe l’obbligo di vaccinare i propri dipendenti e richiedere quindi la vaccinazione degli stessi in conformità con il programma di vaccinazione nazionale.

Altri giuristi hanno limitato l’efficacia dell’obbligo del datore di lavoro di richiedere i vaccini ai soli operatori sanitari.

Non mancano però giuristi che ritengono che allo stato non vi sarebbero gli estremi per l’applicazione dell’articolo 2087 Codice Civile, perché mancherebbero quei dati di acquisita esperienza e tecnica che potrebbero imporre al datore di lavoro l’adozione di tale misura. E che pertanto sostengono che il datore di lavoro non possa imporre l’obbligo di vaccinarsi al lavoratore.

Ci si chiede poi se il lavoratore che si rifiuti di vaccinarsi possa essere licenziato.

Si consideri anche il fatto che il lavoratore potrebbe anche trovarsi in una situazione personale e sanitaria in cui il vaccino possa essere controindicato (ad esempio, uno stato di gravidanza). Come vi può essere invece il lavoratore renitente per convinzione e che non si trovi in situazione di con indicazione personale.

Ora, chi aderisce alla tesi secondo cui il datore di lavoro può imporre il vaccino, sostiene che il rifiuto del lavoratore possa condurlo al licenziamento disciplinare o per giusta causa, o, secondo altri, per giustificato motivo oggettivo (per fatto attinente alla sfera del lavoratore e che potrebbe essere attuato una volta che sia terminato il blocco dei licenziamenti per g.m.o.).

A parere di altri commentatori, secondo l’articolo 279, comma 2, lett. b) del d.lgs 81/2008, il datore di lavoro potrebbe disporre “l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42 dello stesso testo unico, il quale, all’articolo 42 appunto, prevede che il lavoratore, qualora sia inidoneo alla mansione specifica, possa essere adibito, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute e, se viene adibito a mansioni inferiori, conservi la retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originaria. Quindi, in presenza di lavoratori non vaccinati, il datore di lavoro dovrebbe preventivamente verificare la possibilità di adibire tale lavoratore a mansioni diverse anche inferiori. Tale verifica, peraltro, andrebbe sempre fatta quando si intende procedere a licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Altri giuristi sostengono, più prudenzialmente, che sarebbe più opportuno adibire il lavoratore non vaccinato in oggetto allo smart working se possibile o comunque non licenziare il lavoratore non vaccinato ma sospenderlo dal lavoro in attesa della fine della pandemia (per alcuni senza retribuzione, per altri con retribuzione).

Per chi invece aderisce alla tesi secondo cui il datore di lavoro non può imporre il vaccino, è evidente che il rifiuto della vaccinazione non possa costituire valido motivo di licenziamento.

Si attende di vedere quali posizioni assumerà in proposito la giurisprudenza.