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William Trevor: il viaggiatore sul treno tra le vite degli altri

William Trevor nel 2005
William Trevor nel 2005

“È un grande cronista contemporaneo della comédie humaine. Il tono sommesso della sua opera, così mirabilmente giudicata, non può mascherare il fatto che qui c’è una delle voci più forti presenti oggi nella narrativa. Egli osserva il mondo e le sue creature con un occhio calmo e penetrante, anche se indulgente, e la sua umanità, incisività e acuto umorismo lo contraddistinguono come vero artista”.

Parlare di William Trevor è impresa al contempo immensa e stimolante, tanto che, quando mi è stato chiesto di farlo, mi sono a lungo interrogato sul come partire, senza sembrare scontato o banale. E allora mi è tornato alla mente il Premio Nonino, da Trevor vinto nel 2008, e le sue motivazioni, che, mai come in questo caso, mi sono venute in aiuto, sembrandomi perfette e davvero pertinenti per spiegare la grandezza e la profondità di questo scrittore irlandese.

Lo scrittore dei perdenti, dei derelitti, la voce di chi non aveva più voce.

Nato a Mitchelstown, nella contea di Cork, il 24 maggio del 1928, Trevor ha trascorso la sua infanzia nella provincia irlandese. Ha frequentato varie scuole fino ad arrivare a Dubitlo, al Trinity College. Dal 1950 ha lasciato la sua terra, scegliendo di vivere nel Devon, nel sud-ovest dell'Inghilterra, senza, però, abbandonarla mai davvero, vivendo da esule e finendo per morire a Dublino il 21 novembre del 2016 a ottantotto anni.

Era membro dell'Accademia Irlandese delle Lettere e nel corso della sua lunghissima vita ha scritto diversi romanzi e una moltitudine di racconti, ed è considerato uno dei maggiori scrittori contemporanei di storie brevi in lingua inglese.

Ha vinto per tre volte il Whitbread Prize ed è stato cinque volte finalista del Booker Prize. Il suo nome è stato ripetutamente fatto riguardo all'assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura, che però non è mai arrivata.

Esaurite queste brevi ed inevitabili note biografiche, non resta che cercare di far capire, a chi sta leggendo e non lo conosce, la grandezza di questo maestro.

Personalmente l'ho incontrato nel 2005, nel momento in cui mi capitò tra le mani un suo libro uscito in Italia per Guanda, “Le regole dell'amore”, una raccolta di racconti più o meno sentimentali di livello assoluto. Era un periodo in cui probabilmente cercavo dritte o qualcosa di schematico che potesse spiegarmi i dolori del cuore. Mi incuriosirono le parole altisonanti delle recensioni in quarta, tra cui quella di John Banville che lo indicava come “Il miglior autore contemporaneo di racconti”, oppure quella della Literary Rewiew che così diceva: “La genialità di William Trevor sta nel fatto di attirare il lettore nel suo universo narrativo in una manciata di pagine”.

Una volta letto, fu estasi pura, scatenando in me la folle corsa a fagocitare qualsiasi parola avesse scritto quell'uomo sublime.

Corsi in libreria, comprai subito “Giochi da ragazzi”, uscito per lo stesso editore due anni prima, un romanzo sospeso ambientato in una normalissima e immaginaria contea irlandese, Dynmouth.

Meraviglioso e crudele.

Passò qualche anno e fu dunque la volta di “Uomini d’Irlanda”, una raccolta di dodici racconti sulla sua terra, fatta di gente normale, forte e temprata, di vite normali, di dolori usuali, uscita per Guanda nel 2009. Irlanda che Trevor ha lasciato giovanissimo, nel 1950, per trasferirsi in Inghilterra.Poi, in rapida successione, “Peccati di famiglia”, “Il viaggio di Felicia”, “Marionette del destino” e “Morte d'estate”. E il gioco era fatto.

Mi trovavo davanti a uno dei più grandi narratori che avessi mai incontrato sul mio cammino di lettore. Ma cosa mi attirava nella sua scrittura? Le iperboli? Le trame originali e sconvolgenti? La sfacciataggine? L'ironia crudele e meschina?
Niente di tutto questo.

Era la sua abilità certosina nello scavare l'anima umana, nel frugare nelle bruttezze che ciascuno di noi nasconde agli occhi degli altri, per apparire pulito, perfetto, come tutti.

Mi piaceva di lui la sua capacità di rendere eccezionali situazioni normali e persone banali.

Quando William Trevor è morto Luigi Brioschi, direttore editoriale di Guanda, storico editore italiano del grande scrittore irlandese, ha detto in una intervista a Repubblica esattamente come stavano le cose: “Trevor ha fatto per tutta la vita l’intagliatore. Anche quando ha smesso di soffrire la fame ed è passato dal comporre slogan pubblicitari a raccontare storie. Creava vite ordinarie, comuni, emarginate da cui faceva emergere lentamente le ricchezze interiori” usando uno stile “terso, essenziale, un minimalista naturale, discreto”.

Aggiungerei solo che se è stato capace di far uscire le ricchezze più nascoste, allo stesso modo, come una cartina di tornasole, Tervor è stato in grado di scavare e di tirar fuori le bruttezze di tutti, soprattutto di quelli belli agli occhi dei più. Dote, questa, comune ai grandi scrittori più o meno minimalisti (penso, tra i tanti, a Raymond Carver e Richard Yates).

La sua vasta produzione ha privilegiato la forma breve. Ci sono scrittori che scrivono racconti per comodità, altri che lo fanno per opportunità.Altri ancora per incapacità di scrivere storie lunghe.Per Trevor era un'urgenza, una vera e propria necessità.

Che fosse capace di scrivere romanzi è cosa evidente (ne ha scritti quindici, alcuni meravigliosamente belli e di successo) ma la sua scelta di scrivere racconti è cosa che gli viene da dentro, impossibile da arginare, poiché usando il passo breve poteva dare voce a quelle figure vulnerabili e fragili nelle quali si rivedeva, quelle persone che di fronte agli ostacoli ci provano ma alla fine inciampano e faticano a rialzarsi.

Questo lo accomuna a Carver, seppur con uno stile differente, capace come lui di raccontare gli antieroi, le persone comuni, con le loro brutture, le paure, le solitudini.

Tutte le difficoltà delle vite di tutti, il bisogno di soldi per pagare l'affitto, i problemi con gli affetti e la manutenzione delle emozioni quotidiane.

Trevor sceglieva spesso gli ultimi perché li riteneva interessanti. Credeva che il fatto che personaggi del genere vivessero nella solitudine, in situazioni borderline, li rendesse più affascinanti e attraenti.

Come sfondo, spesso, per non dire sempre, usava un’Irlanda rurale, polverosa e colma di pietre, con protagonisti rugosi, dalle mani callose e screpolate, facce segnate dal vento e dalla vita, da situazioni difficili, da disagi e sconfitte.

C'era anche un'ironia amare nei suoi testi, un umorismo cupo che si divertiva a infilare nelle sue storie che venivano sempre battute su una delle sue sette macchine per scrivere, con passione e con cura. «Sento di dover raccontare una storia nel miglior modo possibile - disse una volta, a tarda età, in una delle sue rare interviste -; è difficile spiegare il mio stile con categorie accademiche. Semmai è più vicino ai sentimenti, tutto si regge su un equilibrio fragile che nemmeno io capisco, eseguo solamente».

Un uomo schivo, riservato e gentile, che ha sperimentato qualsiasi forma di scrittura, utilizzando ogni modo o modello conosciuto. Trevor, infatti, ha  scritto anche opere per il teatro, la radio e la televisione. Ma è il cinema che, da attore e da spettatore, ha influenzato maggiormente la sua opera.

Molti dei suoi libri sono stati trasposti sul grande schermo e lui stesso ha tratto dal cinema la sua ispirazione più grande. Amava raccontare spesso della sua passione per i film gialli, non solo per la storia che viene raccontata, ma anche, soprattutto, per la tecnica con cui viene costruita, il montaggio, i tagli, i dialoghi fra i personaggi. Non amava molto le versioni cinematografiche tratte dai suoi libri, e nell'ultima fase della sua vita aveva iniziato ad apprezzare il lavoro svolto per le radio, che hanno adattato alcune sue storie. Storie sempre semplici e scavate. Vite descritte con la cura di un amico, con l'amore di un padre, con la curiosità di un viaggiatore che percorre lande desolate e sonnolente in treno, spiando fuori dal finestrino, nelle finestre degli sconosciuti, dentro le case degli altri.

Una volta gli chiesero se c'erano paesaggi che amasse particolarmente attraversare in treno. Lui rispose: “Tutto il continente è splendido. È un luogo comune, ma è la verità. Un esempio concreto? La Spagna, quando si scende dalla frontiera francese verso Madrid. Ma è l' Italia che mi piace in modo particolare, e per questo ci vado più spesso che altrove - cercando di non farlo troppo sapere agli editori […] L'Italia è talmente e notoriamente bella che qualunque aspetto se ne citi diventa banale, cartolina, dépliant turistico. L'Italia si può solo vivere. È per viverla in santa pace che, quando ci vengo, cerco di non dirlo troppo in giro».

Ecco cos'è stato William Trevor, ora l'ho capto: il più grande viaggiatore sul treno che viaggiava sui binari delle vite degli atri.