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Benefici penitenziari per i condannati per reati ostativi

un cielo sfumato
Ph. Ermes Galli / un cielo sfumato

La Commissione Giustizia della Camera esamina le proposte in tema di ergastolo ostativo: Le proposte 1951 (Bruno Bossio), 3106 (Ferraresi) e 3184 (Delmastro Delle Vedove).

Quella del M5S (firmata da Vittorio Ferraresi e altri) auspica di non aprire varchi ai mafiosi con la modifica imposta dalla Consulta quando nel 2019 (al tempo la Corte era presieduta dall'attuale ministro della Giustizia Marta Cartabia) aveva consentito, seppur mettendo certi paletti, i permessi premio pure ai boss o terroristi ergastolani che non hanno collaborato.

Per i pentastellati il detenuto, per usufruire dei permessi premio, dovrà fornire “elementi concreti”, al di là della “mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale, che consentano di escludere con certezza” collegamenti con i clan; dovrà anche giustificare il perché della mancata collaborazione, dimostrare di aver risarcito le vittime del reato da lui commesso e in caso contrario deve dimostrare di non averne le possibilità.

A decidere nel merito dei benefici concessi dalla legge, secondo il M5S non dovrà essere più il singolo magistrato di sorveglianza ma un unico ufficio, presso il Tribunale di sorveglianza di Roma, in modo da non sovraesporre i singoli giudici.
Simile la proposta di Fratelli d’Italia (iniziativa dei deputati 
Delmastro Delle Vedove e altri), che chiede la prova che i detenuti abbiano rescisso ogni legame con le associazioni criminali. “A tal fine – si aggiunge – il magistrato di sorveglianza acquisisce dettagliate informazioni”, per esempio anche in merito alla mancata collaborazione e fa le proprie valutazioni.

Sul tavolo c'è anche un ddl precedente alle pronunce della Corte costituzionale, della deputata Bruno Bossio (Pd). Propone che “siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”, ma vorrebbe un giro di vite per i pareri dei pm antimafia: senza valutazioni sulla concessione dei benefici, si dovrebbero limitare solo a “elementi fondati e specifici” sui collegamenti o meno dei detenuti con gli ambienti criminali.

 

Quadro normativo

Le proposte di legge C. 1951, C. 3106 e C. 3184, all’esame della Commissione Giustizia della Camera, intervengono in materia di accesso ai benefici penitenziari per i detenuti condannati per i reati c.d. ostativi di cui all’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975), che non collaborino con la giustizia.

L’articolo 4-bis della legge sull’Ordinamento penitenziario

L’articolo 4-bis, come è noto, è stato introdotto nell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975) dal decreto-legge n. 152 del 1991, e immediatamente modificato - dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio - dal decreto-legge n. 306 del 1992. La disposizione ha subito nel tempo ricorrenti modifiche, ed è stata oggetto di numerose sentenze di illegittimità costituzionale.

La peculiare ratio di tale disciplina è quella di differenziare il trattamento penitenziario dei condannati per reati di criminalità organizzata o altri gravi delitti, dal trattamento dei condannati “comuni”, subordinando l’accesso alle misure premiali e alternative previste dall’ordinamento penitenziario a determinate condizioni.

I delitti per cui opera la presunzione di pericolosità sociale (c.d. ostativi all’accesso ai benefici)

In particolare, il comma 1 dell'art. 4 bis OP elenca una serie di delitti indicati come ostativi: l'espiazione di una condanna relativa a tali delitti, infatti, non consente la concessione delle misure dell'assegnazione al lavoro all'esterno, dei permessi premio (vedi infra paragrafo sulla giurisprudenza della Corte costituzionale) e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI OP, esclusa la liberazione anticipata. Per effetto dell'art. 2 del citato decreto-legge n. 152 del 1991 il regime restrittivo per l’accesso ai benefici penitenziari, previsto all’art. 4-bis., si estende anche al regime della liberazione condizionale.

L’art. 2 del D.L. n. 152 del 1991 (convertito dalla L. n. 203 del 1991), infatti, per l'ammissione alla liberazione condizionale dei condannati per uno dei delitti di cui alla L. n. 354 del 1975, art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, impone gli stessi requisiti previsti dal menzionato art. 4-bis per l'accesso ai benefici penitenziari.

Questa condizione giuridica è superabile soltanto in presenza di un’avvenuta collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter OP.

L’art. 58-ter OP, infatti, nel definire il comportamento dei collaboranti, accosta sotto la stessa nozione di “collaborazione con la giustizia” due diversi tipi di condotta: essersi adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori; aver aiutato concretamente l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori di reato, inquadrabile nel tipo della collaborazione processuale.

Si tratta, come ha specificato la Corte costituzionale di una “disposizione speciale, di carattere restrittivo, in tema di concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o internati, che si presumono socialmente pericolosi unicamente in ragione del titolo di reato per il quale la detenzione o l'internamento sono stati disposti” (sentenza n. 239 del 2014).

I c.d. delitti ostativi, elencati dall’articolo 4-bis, comma 1, sono i seguenti:

  •  delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza;
  • associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis e 416-ter c.p. e delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività di tali associazioni;
  • riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600, c.p.);
  • induzione o sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-bis, comma 1, c.p.);
  • produzione e commercio di materiale pornografico minorile (art. 600-ter, commi 1 e 2, c.p.);
  • tratta di persone (art. 601, c.p.);
  • acquisto e alienazione di schiavi (art. 602 c.p.);
  •  violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies, c.p.);
  • sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.);
  • delitti relativi all’immigrazione clandestina (art. 12 t.u. immigrazione);
  • associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater, T.U. dogane);
  • associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74, T.U. stupefacenti).

Da ultimo, per effetto della legge n. 3 del 2019 (c.d. legge Spazzacorrotti), al catalogo di reati ostativi sono stati aggiunti taluni delitti contro la pubblica amministrazione: peculato (art. 314 c.p.); concussione (art. 317 c.p.); corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.); corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.); corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.); induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.); corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320 c.p.); istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.); delitti di cui all’art. 322-bis c.p. per le ipotesi di reato di cui sopra ivi richiamate (il richiamo all’art. 322-bis c.p. va riferito ai delitti di concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri delle Corti internazionali o degli organi delle Comunità europee o di assemblee parlamentari internazionali o di organizzazioni internazionali e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri).

Per i sopra elencati delitti, in caso di assenza di collaborazione con la giustizia vige la presunzione assoluta di immanenza dei collegamenti: l'assenza di un’utile collaborazione fa presumere l'attualità dei collegamenti e, conseguentemente, l'immanenza della pericolosità sociale, senza che la magistratura di sorveglianza possa valutare il percorso rieducativo intrapreso dal condannato durante l'esecuzione della pena.

Come mette in luce la sentenza n. 239 del 2014 della Corte Costituzionale, la disciplina poggia sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri l'appartenenza dell'autore alla criminalità organizzata, o il suo collegamento con la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l'ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia viene correlativamente assunta come la sola idonea a rimuovere l'ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della sua valenza "rescissoria" del legame con il sodalizio criminale. Per contro, la mancata collaborazione con la giustizia fonda la presunzione assoluta che i collegamenti con l'organizzazione criminale siano mantenuti ed attuali, ricavandosene la permanente pericolosità del condannato, con conseguente inaccessibilità ai benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti.

 Il comma 1-bis, dell’art. 4-bis, per gli stessi reati sopra elencati, prevede il superamento del divieto di ammissione ai benefici - purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva - altresì nelle due ipotesi di c.d. collaborazione impossibile o irrilevante e cioè nei casi:

di impossibilità di un’utile collaborazione con la giustizia determinata dalla limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero dall'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile;

• in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti sia stata applicata la circostanza attenuante dell’avvenuto risarcimento del danno (art. 62, numero 6, c.p.), oppure quella della minima partecipazione al fatto (art.114 c.p.) ovvero se il reato è più grave di quello voluto (art. 116, secondo comma, c.p.)

Con riguardo al procedimento per la concessione dei benefici, si prevede (commi 2 e 3 dell’art. 4-bis) che il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza:

  • debba acquisire dettagliate informazioni tramite il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato.

Ai sensi dell’art. 21 della legge n. 121 del 1981 (Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza) il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, è istituito presso la prefettura quale organo ausiliario di consulenza del prefetto per l'esercizio delle sue attribuzioni di autorità provinciale di pubblica sicurezza. Il comitato è presieduto dal prefetto ed è composto dal questore, dal sindaco del comune capoluogo e dal presidente della provincia, dai comandanti provinciali dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, e del Corpo forestale dello Stato, nonché dai sindaci degli altri comuni interessati, quando devono trattarsi questioni riferibili ai rispettivi ambiti territoriali. Il comma 2 dell’art. 4-bis ord. penit. Specifica che, al suddetto comitato provinciale può essere chiamato a partecipare il direttore dell'istituto penitenziario in cui il condannato è detenuto.

  • decida trascorsi 30 giorni dalla richiesta delle informazioni; tale termine è prorogato di ulteriori 30 giorni al fine di acquisire elementi ed informazioni da parte dei competenti organi centrali, quando il suddetto comitato comunica al giudice di ritenere che sussistano particolari esigenze di sicurezza ovvero che i collegamenti potrebbero essere mantenuti con organizzazioni operanti in ambiti non locali o extranazionali.

Inoltre, si prevede (comma 3-bis) che i benefici penitenziari non possono essere concessi) ai detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale comunichi, d'iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione o internamento, l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In tal caso non si applicano le procedure ordinarie (di cui ai sopra descritti commi 2 e 3).

Il regime della concessione dei benefici per i condannati per gli altri delitti di cui all’art. 4-bis

Il comma 1-ter dell’art. 4-bis OP contiene un elenco dei delitti in relazione ai quali i benefici e le misure alternative possono essere concessi, salvo siano stati acquisiti elementi che indichino la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. In questi casi la preclusione dell’accesso ai benefici non si fonda su di un automatismo, ma sul vaglio della magistratura.

Si tratta dei seguenti delitti:

• omicidio (art. 575 c.p.);

• atti sessuali con minore ultraquattordicenne in cambio di denaro (art. 600-bis, secondo comma, c.p.);

• turismo sessuale minorile (art. 600-quinquies c.p.)

• rapina aggravata (art. 628, terzo comma);

• estorsione aggravata (art. 629, secondo comma c.p.);

• contrabbando aggravato di tabacchi (art. 291-ter, T.U. dogane);

• produzione, traffico e detenzione illecita di stupefacenti (art. 73 del T.U. stupefacenti), limitatamente alle ipotesi aggravate (art. 80 del T.U. stupefacenti);

• capi a promotori di associazioni a delinquere (art. 416 c.p.) finalizzate alla commissione dei delitti di contraffazione (art. 473 e 474 c.p.);

• associazione a delinquere (art. 416 c.p.) finalizzata alla commissione di delitti contro la personalità individuale (artt. da 600 a 604 c.p), di violenza sessuale (art. 609- bis, di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.);

• associazione a delinquere finalizzata alla commissione di fattispecie aggravate del delitto di favoreggiamento dell’ingresso di immigrati clandestini (concorso di aggravanti, art. 12, comma 3-bis e traffico finalizzato alla prostituzione, art. 12, comma 3- ter)

• pornografia minorile (art. 600-ter)

• associazione a delinquere (art. 416 c.p.) finalizzata alla violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.)

• acquisto e alienazione di schiavi (art. 602 c.p.)

• delitti di favoreggiamento e favoreggiamento aggravato dell’ingresso di immigrati clandestini (art. 12, commi 1 e 3, T.U. immigrazione)

Ai fini della concessione dei benefici per tali delitti il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni dal questore. In ogni caso il giudice decide trascorsi 30 giorni dalla richiesta delle informazioni (comma 2-bis dell’art. 4-bis).

Il comma 1-quater riguarda i casi in cui i benefici penitenziari possono essere concessi solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica.

Si tratta, nello specifico dei condannati detenuti o internati per reati in materia sessuale e precisamente per i delitti di prostituzione minorile (art. 600-bis c.p.), pornografia minorile (art. 600-ter c.p.), detenzione di materiale pornografico (art. 600 quater c.p.), turismo sessuale volto allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600 quinquies c.p.), violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), violenza sessuale aggravata (art. 609-ter c.p.), atti sessuali con minorenni (609 quater c.p.), corruzione di minorenni (art. 609 quinquies c.p.),violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.) e adescamento di minorenni (art. 609-undecies c.p.).

Salva la presunzione di pericolosità per i delitti di cui al comma 1 dell’art. 4-bis, il comma 1-quinquies dell’art. 4-bis, ai fini della concessione dei benefici ai detenuti per i suddetti reati, prescrive al magistrato o al tribunale di sorveglianza di valutare eventuale positiva partecipazione del detenuto al programma di riabilitazione specifico per i condannati per reati sessuali in danno di minori (di cui all’art. 13-bis OP).

 

La giurisprudenza costituzionale sull’accesso ai benefici penitenziari per detenuti “non collaboranti”

Nelle più recenti pronunce, la Corte costituzionale, nel ribadire il contrasto con il principio di uguaglianza delle presunzioni legislative assolute, laddove esse siano arbitrarie e irrazionali e non rispondenti ai dati di esperienza generalizzati riassunti nelle formula «id plerumque accidit» (sentenza n. 57 del 2013), ha conseguentemente affermato la necessità di attribuire al giudice il potere di valutare gli elementi del caso concreto per potere compiere una prognosi ragionevole circa l’idoneità di un determinato beneficio penitenziario a far proseguire il detenuto nel suo percorso di reinserimento (sentenze n. 466 del 1999, 355 del 2006 e 189 del 2010).

In particolare, nella sentenza n. 149 del 2018, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 58-quater O.P. che prevedeva che i condannati all’ergastolo per il delitto di sequestro di persona che abbiano cagionato la morte del sequestrato non possono essere ammessi ad alcun beneficio se non abbiano effettivamente scontato almeno ventisei anni di pena. In tale sentenza la Corte ha ritenuto contrarie ai principi costituzionali di proporzionalità e individualizzazione della pena quelle previsioni che, in ragione della particolare gravità di alcuni reati, con automatismo assoluto, impediscono alla magistratura di sorveglianza di procedere a qualsiasi valutazione dei risultati ottenuti nel corso del suo percorso intra-muros dal detenuto rispetto ai quali non sussistono gli indizi di perdurante pericolosità sociale, privilegiando l’aspetto retributivo o di prevenzione generale della pena a detrimento della sua finalità di risocializzazione.

Con particolare riguardo all’articolo 4-bis, comma 1, dell’O.P. e alla preclusione assoluta di accesso al permesso premio (non degli altri benefici penitenziari indicati dalla stessa norma) da parte dei condannati – a pena perpetua oppure a pena temporanea – per i reati cosiddetti ostativi, con la sentenza n. 253 del 2019 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale articolo “nella parte in cui non prevede cheai detenuti per i delitti di cui all’articolo 416-bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste – possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia…, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti”. La Corte ha, altresì, esteso in via consequenziale, la dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 4- bis, comma 1, dell’O.P. anche ai detenuti per tutti gli altri delitti elencati nella norma.

Con la medesima sentenza la Corte ha sottolineato anche come la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (e della mancata rescissione dei collegamenti stessi), così come prevista dall’art. 4-bis, sia assoluta: non può essere superata se non dalla collaborazione stessa ed è proprio questo carattere assoluto a risultare in contrasto con gli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione. La Corte afferma che non è la presunzione in sé ad essere illegittima, non essendo irragionevole presumere che il condannato che non collabora abbia legami con l’associazione di appartenenza, purché la presunzione sia relativa e possa essere vinta da prova contraria, così rimanendo nei limiti di una scelta costituzionalmente compatibile con gli obiettivi di prevenzione sociale e di risocializzazione della pena.

Infine, nella recente ordinanza n. 97 del 2021 la Corte ha affrontato la questione del c.d. ergastolo ostativo, ossia della preclusione all’accesso al beneficio della liberazione condizionale per il condannato all'ergastolo per delitti di contesto mafioso, che non collabori utilmente con la giustizia.

La Corte era chiamata a giudicare della legittimità della disciplina contenuta negli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter dell’ordinamento penitenziario, nonché dell'art. 2 del D.L. n. 152 del 1991, per effetto del quale il regime restrittivo per l’accesso ai benefici penitenziari si estende anche alla liberazione condizionale.

In particolare, le norme portate all’esame della Consulta stabiliscono che i condannati all’ergastolo per reati di contesto mafioso, se non collaborano utilmente con la giustizia non possono essere ammessi al beneficio della cd. liberazione condizionale, che consiste in un periodo di libertà vigilata, a conclusione del quale, solo in caso di comportamento corretto, consegue l’estinzione della pena e la definitiva restituzione alla libertà. Possono invece accedere a tale beneficio, dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere, tutti gli altri condannati alla pena perpetua, compresi quelli per delitti connessi all’attività di associazioni mafiose, i quali abbiano collaborato utilmente con la giustizia.

L’ordinanza di rimessione censurava le norme sopra indicate in quanto introducono, a carico del condannato per tali reati “ostativi”, che non collabora utilmente con la giustizia, una presunzione di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata.

In virtù di tale presunzione, assoluta - in quanto non superabile se non per effetto della stessa collaborazione - il complesso normativo oggetto di esame comporta che le richieste del detenuto di accedere alla liberazione condizionale siano dichiarate inammissibili, senza poter essere oggetto di un vaglio in concreto da parte del giudice di sorveglianza.

La Corte, dopo aver ricordato la propria giurisprudenza (sentenze n. 253 del 2019 e n. 306 del 1993) e l’importanza della collaborazione, che mantiene il proprio valore positivo, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, ha sottolineato l’incompatibilità con la Costituzione delle norme che individuano nella collaborazione stessa «l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale», in contrasto con la funzione rieducativa della pena, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione.

Allo stesso tempo la Corte ha posto l’accento sul carattere “apicale” della normativa sottoposta al suo giudizio nel quadro del contrasto alle organizzazioni criminali. L’equilibrio complessivo di tale normativa, secondo la Corte, verrebbe messo a rischio da un intervento meramente demolitorio, con grave pregiudizio per le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva a fronte del «pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa». Si tratta di scelte di politica criminale che appartengono, ad avviso della Corte, alla discrezionalità legislativa, in quanto destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti, e che eccedono perciò i poteri della Corte stessa.

Nel ribadire che l’intervento di modifica di questi aspetti deve essere, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa, la Corte ha concluso che “esigenze di collaborazione istituzionale” impongono di disporre il rinvio del giudizio e di fissare una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale in esame, alla data del 10 maggio 2022, dando così al Parlamento “un congruo tempo per affrontare la materia”.

La giurisprudenza della Corte costituzionale richiama ampiamente i principi già elaborati dalla Corte EDU in materia di “ergastolo ostativo”.

A partire dalla sentenza della Grande camera 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro fino alla recente, sentenza Viola contro Italia del 2019, la Corte di Strasburgo ha affermato che la compatibilità delle previsioni di una pena perpetua con la CEDU, ed in particolare con l’art. 3 della stessa, che fa divieto di sottoporre chiunque “a tortura” od a “pene o trattamenti inumani o degradanti”, è subordinata al ricorrere di determinate e specifiche condizioni.

La Corte EDU ha infatti chiarito che l’astratta comminatoria della pena perpetua non è un fatto in sé lesivo della dignità della persona, e quindi non costituisce un trattamento degradante (oltre che eventualmente inumano), a condizione però che siano previsti in astratto, e che risultino realisticamente applicabili in concreto, strumenti giuridici utili a interrompere la detenzione e a reimmettere i condannati meritevoli nella società.

E’ dunque necessaria, a giudizio della Corte, la “riducibilità”, de iure e de facto, della pena dell’ergastolo, che può articolarsi in ulteriori corollari, a partire da quello che considera possibile imporre soglie minime di esecuzione effettiva della pena, prima di poter accedere alla scarcerazione (si vedano tra le altre, la sentenza 9 luglio 2013, Vinter contro Regno Unito, e le decisioni 4 settembre 2014, Trabelsi contro Belgio; 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi; 4 ottobre 2016, T.P. e A.T. contro Ungheria).

In riferimento alla figura dell'ergastolo ostativo, proprio dell'ordinamento italiano, la Corte EDU ha di recente escluso la compatibilità con la Convenzione EDU della disciplina nazionale che subordina l’accesso alla liberazione condizionale da parte del condannato all’ergastolo per gli specifici delitti dell’art. 4-bis alla sola condizione della collaborazione con la giustizia.

Con la sentenza Viola c. Italia, con riguardo alla preclusione alla liberazione condizionale di un condannato – non collaborante - per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis OP, la Corte Europea ha individuato il tema centrale nel valutare se le finalità di politica criminale perseguite per mezzo della previsione della necessità della collaborazione (fuori dei, casi, ovviamente, della impossibilità o inesigibilità della stessa) costituisca un sacrificio eccessivo delle prospettive di liberazione del condannato all'ergastolo e della possibilità che questi chieda il riesame della pena.

A tal proposito ha osservato che la mancanza di collaborazione non può sempre essere ricondotta ad una scelta libera e volontaria o, comunque, al fatto che siano mantenuti i legami con il gruppo criminale di appartenenza. Ed ha rilevato che non può escludersi che, nonostante la collaborazione con la giustizia, non vi sia dissociazione effettiva dall'ambiente criminale, perché la scelta di collaborare ben può essere soltanto opportunistica, compiuta in vista del conseguimento dei vantaggi che ne derivano.

Se la collaborazione viene intesa come l'unica forma possibile di manifestazione della rottura dei legami criminali - ha proseguito la Corte Edu - si trascura la considerazione di quegli elementi che fanno apprezzare l'acquisizione di progressi trattamentali del condannato all'ergastolo nel suo percorso di reinserimento sociale e si omette di valutare che la dissociazione dall'ambiente criminale ben può essere altrimenti desunta.

La presunzione assoluta di pericolosità insita nella mancanza di collaborazione è dunque d'ostacolo alla possibilità di riscatto del condannato che, qualunque cosa faccia durante la detenzione carceraria, si trova assoggettato a una pena immutabile e non passibile di controlli, privato di un giudice che possa valutare il suo percorso di risocializzazione.

La conclusione della Corte di Strasburgo è stata duplice: l'ergastolo ostativo non può essere definito pena perpetua effettivamente riducibile ai sensi dell'art. 3 della Convenzione; la situazione esaminata rivela "un problema strutturale", legato alla presunzione assoluta di pericolosità fondata sull'assenza di collaborazione, meritevole di una iniziativa riformatrice in modo che sia garantita la possibilità di un riesame della pena.

Sulle problematiche sollevate dalla giurisprudenza costituzionale e della Corte europea dei diritti ha preso posizione anche la Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, che il 20 maggio 2020 ha approvato una Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4- bis OP e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale.

La Commissione ha sottolineato in particolare la necessità di individuare nuove soluzioni normative e di sollecitare un intervento del legislatore sulla disciplina dell’art. 4-bis OP.

Ricordiamo che la Corte costituzionale per “esigenze di collaborazione istituzionale” ha dato il termine del 10 maggio 2022 al Parlamento per “affrontare la materia”, speriamo che non sia tempo perduto.