Brevi note ricostruttive del regime giuridico dei monstra vel prodigia secondo le fonti romane

1. La teratologia è scienza medievale che suggestionò fortemente gli inquisitori; e tuttavia anche il mondo grecoromano conobbe un forte interesse per il monstrum.

I monstra vel prodigia sono infatti sovente considerati dalla scienza romanistica in tema di soggettività giuridica. La sembianza umana ovvero – in negativo – la non mostruosità è enumerata tra i requisiti necessari ai fini della capacità giuridica del nato. Può essere interessante, tuttavia, concentrare l’attenzione sul regime giuridico riservato ai mostri, al fine di non emarginarli anche dal punto di vista scientifico (relegandoli a incidentali osservazioni in tema di subiettività).

L’analisi dello statuto del monstrum è sistematizzabile essenzialmente in quattro distinti profili:

a) quello inerente alla soggettività giuridica dei medesimi;

b) quello attinente ai rapporti giuridici patrimoniali e successori;

c) quello afferente allo ius liberorum;

d) quello concernente il sepolcro.

2. Dunque, ci si deve domandare innanzitutto se il monstrum sia oppure no soggetto di diritto, capace di esser titolare di posizioni giuridiche soggettive.

Una prima considerazione positiva rimonta alle XII Tavole, ove alla Tab. IV si dispone: Cito necatus insignis ad deformitatem puer esto. La prescrizione riecheggia la consuetudine spartana di abbandonare i nati deformi sul Taigeto. Sociologicamente, la ratio della norma senz’altro si riconduce alla esigenza di espungere dal gruppo sociale i soggetti deboli inidonei alle fatiche militari. L’asprezza di questo principio – quasi certamente tacitamente abrogato – persiste nella valutazione classica che del monstrum formulano i giuristi romani.

Nelle XII Tavole si ha riguardo alla deformitas come elemento scriminante tra mostri e umani.

Questo parametro di giudizio è all’incirca conservato dalle fonti successive.

Le fonti che qui consideriamo sono essenzialmente D. 1.5.14 (Paul. 4 sent.)[1], C. 6. 29. 3. 1[2], D. 50. 16. 38 (Ulp. 25 ad ed.)[3], D 50. 16. 135 (Ulp. 4 ad l. iul. et pap.)[4], Gellio N. A. 3. 16. 9[5].

Dalla compulsazione delle medesime deve evincersi che il monstrum non fosse considerato giuridicamente capace.

Così è certamente per Labeone (D. 50. 16. 38), che distingue tra “umani deformi” e “inumani”, genera ambedue considerati non suscettivi di capacità giuridica.

Con riguardo a D. 1. 5. 14 (paul. 4 Sent.), si scorge che per Paolo i monstra vel prodigia non dovessero neppure considerarsi liberi; e non sfugge che egli adotta, riferendosi a costoro, il neutro aliquid, quasi si trattasse di res. Per quanto attiene alla chiusa del passo paolino, l’Impallomeni reputa che il giurista classificasse liberi e dunque giuridicamente capaci coloro che fossero deturpati da un’eccedenza di membra rispetto alla norma. Si delineerebbe così una costruzione (giustapposta a quella di Labeone) che pone dei requisiti minimi necessari ai fini dell’umanità: sarebbe monstrum soltanto colui il quale s’appressa più alla bestia che all’uomo, mentre colui il quale sia semplicemente deforme pur accostandosi alla natura umana sarebbe considerato persona fisica e dunque soggetto di diritto.

E tuttavia, considerato che Paolo utilizza il verbo con-numerari, la chiusa parrebbe non tanto il riconoscimento della soggettività del nato con più membra, bensì l’equiparazione ai fini dello ius liberorum del mostro al normale. Non si comprenderebbe altrimenti la ragione per cui non sia declinato il verbo esse né si spiegherebbe la presenza dell’avverbio aliquatenus. Indi, si può leggere D. 1. 5. 14 non come la declaratoria di soggettività per il mostro dal sembiante comunque umano contro il mostro totalmente disumano, quanto la mera computabilità del primo ai fini del solo ius liberorum, contrapposta all’irrilevanza completa del secondo.

In tal senso D. 1. 5. 14 sembra svolgere funzione analoga a D 50. 16. 135, dove si disquisisce della mera computabilità dei monstra tra i liberi.

Orbene, in tema di capacità giuridica del monstrum, così potrebbe tracciarsi una conclusione: certamente il deforme che sia inumano, bestiale, abnorme rispetto all’idea platonica d’uomo non è considerato essere umano né da Labeone né da Paolo, e come tale è privo di capacità giuridica; il mostro che conservi forme umane ma abbia arti in eccedenza per Labeone non ha soggettività, mentre – ad avviso dell’Impallomeni – ne sarebbe dotato per Paolo (tuttavia abbiamo espresso le nostre riserve su quest’interpretazione null’affatto scontata come parrebbe in prima battuta).

Se il mostro non ha capacità giuridica (almeno il fàntasma) che ne è di lui? Non è dato saperlo. In antico, esso certamente era messo a morte (così Tab. IV). Dai frammenti successivi che non considerano affatto la vetusta disposizione deve ritenersi che sia stata implicitamente abrogata e che – posto che il monstrum non avesse alcun rilievo giuridico – fosse rimessa alla pietas familiare la sua sopravvivenza, in una dimensione tuttavia completamente extra-giuridica.

3. Per quanto attiene all’incapacità patrimoniale del mostro, ebbene, essa consegue naturalmente all’incapacità giuridica del medesimo. Come sempre, si deve ribadire che il mostro “umano” e quello “inumano” sono completamente privi di capacità giuridica e dunque patrimoniale secondo Labeone; mentre secondo Paolo, nella esegesi di Giambattista Impallomeni, monstra sarebbero solo i nati contra naturam, essendo liberi e dunque soggetti di diritto coloro che avessero più arti. A questi ultimi allora, nell’avviso di Impallomeni, Paolo riconoscerebbe capacità patrimoniale.

Inoltre, l’incapacità successoria del mostro è attestata da Giustiniano (C. 6. 29. 3. 1). Per il mostro “inumano” è prevista altresì da Paolo l’irrilevanza di qualsivoglia rapporto di parentela, non giovevole neppure alla mater (così D. 1. 5. 14; contra, Ulpiano in D 50. 16. 135.

4. In relazione allo ius liberorum, deve precisarsi che la quaestio juris ha rilievo pratico nella sola età classica, essendo i benefici connessi alla procreazione esistenti solo in quel periodo. Talché, l’Impallomeni esclude manipolazioni alle fonti citate. Si pone un contrasto, a questi riguardi, tra Paolo e Ulpiano. Paolo infatti afferma che non sunt liberi, qui contra formam humani generis converso more procreantur; invece Ulpiano, dal canto suo, opina che quod fataliter accessit, matri damnum iniungere [non] debet. L’antinomia tra le fonti potrebbe essere meno stridente di quanto appaia ictu oculi se, invece di reputare, nella costruzione paolina, i deformi per eccedenza d’arti quali persone fisiche e non mostri, si considerino anch’essi monstra, da Paolo ragguagliati ai liberi al solo fine dell’ius liberorum. In tal senso, non s’avrebbe che Paolo qualifica tout court i mostri inutili ai fini dell’ius liberorum e Ulpiano utili; bensì che il dissenso si formi sui soli mostri inumani, non voluti liberi da Paolo e considerati tali da Ulpiano, ferma comunque la natura mostruosa degli stessi.

E infatti, come s’è già anticipato, il passo paolino potrebbe leggersi non tanto come fondato su due periodi confliggenti per cui qui contra formam humani generis converso more procreantur non siano esseri umani, e qui membrorum humanorum officia ampliavit lo sia; ma nel senso che i primi non si considerano liberi nel computo per l’ius liberorum, mentre i secondi sì.

Una simile interpretazione ridurrebbe significativamente le antinomie tra D. 1.5.14 e D. 50. 16. 38, poiché anche per Paolo i mostri “umani” resterebbero monstra e non sarebbero soggetti di diritto, in accordo con quanto professato da Labeone; e si ridurrebbero altresì le distanze tra D. 1. 5. 14 e D 50. 16. 135 poiché anche Paolo, come Ulpiano, considererebbe il mostro utile ai fini dell’ius liberorum, permanendo la differenza solo relativamente al mostro “inumano”, computabile per Ulpiano e non già per Paolo.

È opportuno rilevare, inoltre, come Ulpiano esponga, per configurare quali liberi i monstra, un argomento che s’avvicina a quello della colpevolezza nel moderno diritto penale. Egli, contro il Paolo del primo alinea di D. 1.5.14, rifiuta l’opinione che la donna, che pur ha procreato e ha ottemperato ai suoi obblighi naturali e civili, debba subire le conseguenze d’una disgrazia indipendente dalla sua responsabilità. Emerge come in nessun modo vi sia considerazione degli sciagurati mostri; e come essi siano valutati solo in relazione ai normali, per così dire di riflesso. Proprio per tale ragione sembra suffragata l’idea che anche nella chiusa di D. 1.5.14 Paolo ponga semplicemente un’equivalenza tra nati sani e mostri a fini di mero computo aritmetico e non di capacità giuridica.

5. Considerata la presenza nella prima parte del libro 25 ad edictum, dedicato al tema de religiosis et sumptibus funeribus, dei due passi D. 11. 7. 2 pr. (Ulp. 25 ad ed.) e D. 50. 16. 38 (Ulp. 25 ad ed.), l’Impallomeni, condividendo l’opinione del Lenel, afferma che con ogni probabilità il sepolcro del mostro, in età classica, non rendesse il luogo sacro, a differenza di quanto avveniva per quello del servus. Solo la giustapposizione tra tali due figure di sepolcro giustificherebbe la coesistenza di questi due frammenti nel libro 25 ad edictum.

L’Impallomeni ipotizza infine che questa regola, contraria persino alla pietas, nei confronti del monstrum potrebbe essere stata mutata dal diritto giustinianeo e ciò sul rilievo che la regola per cui il sepolcro dell’ostentum non rendeva sacro il luogo ove si trovasse dev’esser stata mutilata da D. 50. 16. 38 in cui probabilmente era enunciata. Sicché, emergerebbe la volontà di Triboniano di rendere dignità almeno funebre a queste infelici creature.

Non posso esimermi dal rilevare, anche in relazione a questo passo, che se persino il luogo di sepoltura non era sacro per il monstrum, e se per monstrum Labeone (ed Ulpiano che lo cita) reputavano essere anche il mostro che ho definito “umano”, con somma probabilità Paolo (lui, più illiberale, in tema, di Ulpiano) non poteva ritenere i dotati di più arti quali soggetti di diritto giuridicamente capaci.

Talché, accedendo alla tesi che ho sin qui propalato, potremmo affermare che per la scienza giuridica romana classica in nessun caso e per nessun giureconsulto un monstrum potesse considerarsi soggetto di diritto.

6. Sul piano etimologico si rammenta che monstrum discende da monere. Si tratta di vox media, suscettiva di accezioni disparate. Se in diritto il monstrum, come detto, è il nato deforme e dunque creatura deteriore cui non si riconosce la capacità giuridica, in letteratura per monstrum si intende anche l’evento eccezionale e portentoso che manifesta talora il volere divino. Così è in Aeneis, II, 680 ove monstrum è definito il prodigio per cui s’accende una fiamma sul capo del giovane Iulo, figlio di Enea, fausto segno degli dei per guidare i troiani.

Questo carattere polisenso del termine evidentemente indica che la deformazione ha connessioni logiche con il divino, in quanto pur sempre si riconduce ad una deviazione dal canone umano che è traccia di una abnormità di matrice celeste.

E d’altronde – per una sorta di peculiare specularità – così come gli dei i monstra non sono assoggettati a diritto, in quanto i primi sovrumani e i secondi subumani.

BIBLIOGRAFIA:

A. Guarino, Diritto Privato Romano12, 2001, 270.

G. Impallomeni, In tema di vitalità e forma umana come requisiti essenziali alla personalità, in Iura 22 (1971) 114 ss.

F. Serafini, Istituzioni di diritto romano, 1899, 120.



[1] Non sunt liberi, qui contra formam humani generis converso more procreantur: veluti si mulier monstrosum aliquid aut prodigiosum enixa sit. partus autem, qui membrorum humanorum officia ampliavit, aliquatenus videtur effectus et ideo inter liberos connumerabitur.

[2] Veteres animi turbati sunt, quid de paterno elogio statuendum sit. cumque sabiniani existimabant, si vivus natus est, etsi vocem non emisit, ruptum testamentum , apparet, quod, etsi mutus fuerat, hoc ipsum faciebat, eorum etiam nos laudamus sententiam et sancimus, si vivus perfecte natus est, licet ilico postquam in terram cecidit vel in manibus obstetricis decessit, nihilo minus testamentum corrumpi, hoc tantummodo requirendo, si vivus ad orbem totus processit ad nullum declinans monstrum vel prodigium..

[3] "Ostentum" labeo definit omne contra naturam cuiusque rei genitum factumque. duo genera autem sunt ostentorum: unum, quotiens quid contra naturam nascitur, tribus manibus forte aut pedibus aut qua alia parte corporis, quae naturae contraria est: alterum, cum quid prodigiosum videtur, quae graeci fantasmata vocant..

[4] Quaeret aliquis si portentosum vel monstrosum vel debilem mulier ediderit vel qualem visu vel vagitu novum, non humanae figurae, sed alterius, magis animalis quam hominis, partum, an, quia enixa est, prodesse ei debeat? et magis est, ut haec quoque parentibus prosint: nec enim est quod eis imputetur, quae qualiter potuerunt, statutis obtemperaverunt, neque id quod fataliter accessit, matri damnum iniungere debet.

[5] Antiquos autem Romanos Varro dicit non recepisse huiuscemodi quasi monstruosas raritates, sed nono mense aut decimo neque praeter hos aliis partionem mulieris secundum naturam fieri existimasse, idcircoque eos nomina Fatis tribus fecisse a pariendo et a nono atque decimo mense.

1. La teratologia è scienza medievale che suggestionò fortemente gli inquisitori; e tuttavia anche il mondo grecoromano conobbe un forte interesse per il monstrum.

I monstra vel prodigia sono infatti sovente considerati dalla scienza romanistica in tema di soggettività giuridica. La sembianza umana ovvero – in negativo – la non mostruosità è enumerata tra i requisiti necessari ai fini della capacità giuridica del nato. Può essere interessante, tuttavia, concentrare l’attenzione sul regime giuridico riservato ai mostri, al fine di non emarginarli anche dal punto di vista scientifico (relegandoli a incidentali osservazioni in tema di subiettività).

L’analisi dello statuto del monstrum è sistematizzabile essenzialmente in quattro distinti profili:

a) quello inerente alla soggettività giuridica dei medesimi;

b) quello attinente ai rapporti giuridici patrimoniali e successori;

c) quello afferente allo ius liberorum;

d) quello concernente il sepolcro.

2. Dunque, ci si deve domandare innanzitutto se il monstrum sia oppure no soggetto di diritto, capace di esser titolare di posizioni giuridiche soggettive.

Una prima considerazione positiva rimonta alle XII Tavole, ove alla Tab. IV si dispone: Cito necatus insignis ad deformitatem puer esto. La prescrizione riecheggia la consuetudine spartana di abbandonare i nati deformi sul Taigeto. Sociologicamente, la ratio della norma senz’altro si riconduce alla esigenza di espungere dal gruppo sociale i soggetti deboli inidonei alle fatiche militari. L’asprezza di questo principio – quasi certamente tacitamente abrogato – persiste nella valutazione classica che del monstrum formulano i giuristi romani.

Nelle XII Tavole si ha riguardo alla deformitas come elemento scriminante tra mostri e umani.

Questo parametro di giudizio è all’incirca conservato dalle fonti successive.

Le fonti che qui consideriamo sono essenzialmente D. 1.5.14 (Paul. 4 sent.)[1], C. 6. 29. 3. 1[2], D. 50. 16. 38 (Ulp. 25 ad ed.)[3], D 50. 16. 135 (Ulp. 4 ad l. iul. et pap.)[4], Gellio N. A. 3. 16. 9[5].

Dalla compulsazione delle medesime deve evincersi che il monstrum non fosse considerato giuridicamente capace.

Così è certamente per Labeone (D. 50. 16. 38), che distingue tra “umani deformi” e “inumani”, genera ambedue considerati non suscettivi di capacità giuridica.

Con riguardo a D. 1. 5. 14 (paul. 4 Sent.), si scorge che per Paolo i monstra vel prodigia non dovessero neppure considerarsi liberi; e non sfugge che egli adotta, riferendosi a costoro, il neutro aliquid, quasi si trattasse di res. Per quanto attiene alla chiusa del passo paolino, l’Impallomeni reputa che il giurista classificasse liberi e dunque giuridicamente capaci coloro che fossero deturpati da un’eccedenza di membra rispetto alla norma. Si delineerebbe così una costruzione (giustapposta a quella di Labeone) che pone dei requisiti minimi necessari ai fini dell’umanità: sarebbe monstrum soltanto colui il quale s’appressa più alla bestia che all’uomo, mentre colui il quale sia semplicemente deforme pur accostandosi alla natura umana sarebbe considerato persona fisica e dunque soggetto di diritto.

E tuttavia, considerato che Paolo utilizza il verbo con-numerari, la chiusa parrebbe non tanto il riconoscimento della soggettività del nato con più membra, bensì l’equiparazione ai fini dello ius liberorum del mostro al normale. Non si comprenderebbe altrimenti la ragione per cui non sia declinato il verbo esse né si spiegherebbe la presenza dell’avverbio aliquatenus. Indi, si può leggere D. 1. 5. 14 non come la declaratoria di soggettività per il mostro dal sembiante comunque umano contro il mostro totalmente disumano, quanto la mera computabilità del primo ai fini del solo ius liberorum, contrapposta all’irrilevanza completa del secondo.

In tal senso D. 1. 5. 14 sembra svolgere funzione analoga a D 50. 16. 135, dove si disquisisce della mera computabilità dei monstra tra i liberi.

Orbene, in tema di capacità giuridica del monstrum, così potrebbe tracciarsi una conclusione: certamente il deforme che sia inumano, bestiale, abnorme rispetto all’idea platonica d’uomo non è considerato essere umano né da Labeone né da Paolo, e come tale è privo di capacità giuridica; il mostro che conservi forme umane ma abbia arti in eccedenza per Labeone non ha soggettività, mentre – ad avviso dell’Impallomeni – ne sarebbe dotato per Paolo (tuttavia abbiamo espresso le nostre riserve su quest’interpretazione null’affatto scontata come parrebbe in prima battuta).

Se il mostro non ha capacità giuridica (almeno il fàntasma) che ne è di lui? Non è dato saperlo. In antico, esso certamente era messo a morte (così Tab. IV). Dai frammenti successivi che non considerano affatto la vetusta disposizione deve ritenersi che sia stata implicitamente abrogata e che – posto che il monstrum non avesse alcun rilievo giuridico – fosse rimessa alla pietas familiare la sua sopravvivenza, in una dimensione tuttavia completamente extra-giuridica.

3. Per quanto attiene all’incapacità patrimoniale del mostro, ebbene, essa consegue naturalmente all’incapacità giuridica del medesimo. Come sempre, si deve ribadire che il mostro “umano” e quello “inumano” sono completamente privi di capacità giuridica e dunque patrimoniale secondo Labeone; mentre secondo Paolo, nella esegesi di Giambattista Impallomeni, monstra sarebbero solo i nati contra naturam, essendo liberi e dunque soggetti di diritto coloro che avessero più arti. A questi ultimi allora, nell’avviso di Impallomeni, Paolo riconoscerebbe capacità patrimoniale.

Inoltre, l’incapacità successoria del mostro è attestata da Giustiniano (C. 6. 29. 3. 1). Per il mostro “inumano” è prevista altresì da Paolo l’irrilevanza di qualsivoglia rapporto di parentela, non giovevole neppure alla mater (così D. 1. 5. 14; contra, Ulpiano in D 50. 16. 135.

4. In relazione allo ius liberorum, deve precisarsi che la quaestio juris ha rilievo pratico nella sola età classica, essendo i benefici connessi alla procreazione esistenti solo in quel periodo. Talché, l’Impallomeni esclude manipolazioni alle fonti citate. Si pone un contrasto, a questi riguardi, tra Paolo e Ulpiano. Paolo infatti afferma che non sunt liberi, qui contra formam humani generis converso more procreantur; invece Ulpiano, dal canto suo, opina che quod fataliter accessit, matri damnum iniungere [non] debet. L’antinomia tra le fonti potrebbe essere meno stridente di quanto appaia ictu oculi se, invece di reputare, nella costruzione paolina, i deformi per eccedenza d’arti quali persone fisiche e non mostri, si considerino anch’essi monstra, da Paolo ragguagliati ai liberi al solo fine dell’ius liberorum. In tal senso, non s’avrebbe che Paolo qualifica tout court i mostri inutili ai fini dell’ius liberorum e Ulpiano utili; bensì che il dissenso si formi sui soli mostri inumani, non voluti liberi da Paolo e considerati tali da Ulpiano, ferma comunque la natura mostruosa degli stessi.

E infatti, come s’è già anticipato, il passo paolino potrebbe leggersi non tanto come fondato su due periodi confliggenti per cui qui contra formam humani generis converso more procreantur non siano esseri umani, e qui membrorum humanorum officia ampliavit lo sia; ma nel senso che i primi non si considerano liberi nel computo per l’ius liberorum, mentre i secondi sì.

Una simile interpretazione ridurrebbe significativamente le antinomie tra D. 1.5.14 e D. 50. 16. 38, poiché anche per Paolo i mostri “umani” resterebbero monstra e non sarebbero soggetti di diritto, in accordo con quanto professato da Labeone; e si ridurrebbero altresì le distanze tra D. 1. 5. 14 e D 50. 16. 135 poiché anche Paolo, come Ulpiano, considererebbe il mostro utile ai fini dell’ius liberorum, permanendo la differenza solo relativamente al mostro “inumano”, computabile per Ulpiano e non già per Paolo.

È opportuno rilevare, inoltre, come Ulpiano esponga, per configurare quali liberi i monstra, un argomento che s’avvicina a quello della colpevolezza nel moderno diritto penale. Egli, contro il Paolo del primo alinea di D. 1.5.14, rifiuta l’opinione che la donna, che pur ha procreato e ha ottemperato ai suoi obblighi naturali e civili, debba subire le conseguenze d’una disgrazia indipendente dalla sua responsabilità. Emerge come in nessun modo vi sia considerazione degli sciagurati mostri; e come essi siano valutati solo in relazione ai normali, per così dire di riflesso. Proprio per tale ragione sembra suffragata l’idea che anche nella chiusa di D. 1.5.14 Paolo ponga semplicemente un’equivalenza tra nati sani e mostri a fini di mero computo aritmetico e non di capacità giuridica.

5. Considerata la presenza nella prima parte del libro 25 ad edictum, dedicato al tema de religiosis et sumptibus funeribus, dei due passi D. 11. 7. 2 pr. (Ulp. 25 ad ed.) e D. 50. 16. 38 (Ulp. 25 ad ed.), l’Impallomeni, condividendo l’opinione del Lenel, afferma che con ogni probabilità il sepolcro del mostro, in età classica, non rendesse il luogo sacro, a differenza di quanto avveniva per quello del servus. Solo la giustapposizione tra tali due figure di sepolcro giustificherebbe la coesistenza di questi due frammenti nel libro 25 ad edictum.

L’Impallomeni ipotizza infine che questa regola, contraria persino alla pietas, nei confronti del monstrum potrebbe essere stata mutata dal diritto giustinianeo e ciò sul rilievo che la regola per cui il sepolcro dell’ostentum non rendeva sacro il luogo ove si trovasse dev’esser stata mutilata da D. 50. 16. 38 in cui probabilmente era enunciata. Sicché, emergerebbe la volontà di Triboniano di rendere dignità almeno funebre a queste infelici creature.

Non posso esimermi dal rilevare, anche in relazione a questo passo, che se persino il luogo di sepoltura non era sacro per il monstrum, e se per monstrum Labeone (ed Ulpiano che lo cita) reputavano essere anche il mostro che ho definito “umano”, con somma probabilità Paolo (lui, più illiberale, in tema, di Ulpiano) non poteva ritenere i dotati di più arti quali soggetti di diritto giuridicamente capaci.

Talché, accedendo alla tesi che ho sin qui propalato, potremmo affermare che per la scienza giuridica romana classica in nessun caso e per nessun giureconsulto un monstrum potesse considerarsi soggetto di diritto.

6. Sul piano etimologico si rammenta che monstrum discende da monere. Si tratta di vox media, suscettiva di accezioni disparate. Se in diritto il monstrum, come detto, è il nato deforme e dunque creatura deteriore cui non si riconosce la capacità giuridica, in letteratura per monstrum si intende anche l’evento eccezionale e portentoso che manifesta talora il volere divino. Così è in Aeneis, II, 680 ove monstrum è definito il prodigio per cui s’accende una fiamma sul capo del giovane Iulo, figlio di Enea, fausto segno degli dei per guidare i troiani.

Questo carattere polisenso del termine evidentemente indica che la deformazione ha connessioni logiche con il divino, in quanto pur sempre si riconduce ad una deviazione dal canone umano che è traccia di una abnormità di matrice celeste.

E d’altronde – per una sorta di peculiare specularità – così come gli dei i monstra non sono assoggettati a diritto, in quanto i primi sovrumani e i secondi subumani.

BIBLIOGRAFIA:

A. Guarino, Diritto Privato Romano12, 2001, 270.

G. Impallomeni, In tema di vitalità e forma umana come requisiti essenziali alla personalità, in Iura 22 (1971) 114 ss.

F. Serafini, Istituzioni di diritto romano, 1899, 120.



[1] Non sunt liberi, qui contra formam humani generis converso more procreantur: veluti si mulier monstrosum aliquid aut prodigiosum enixa sit. partus autem, qui membrorum humanorum officia ampliavit, aliquatenus videtur effectus et ideo inter liberos connumerabitur.

[2] Veteres animi turbati sunt, quid de paterno elogio statuendum sit. cumque sabiniani existimabant, si vivus natus est, etsi vocem non emisit, ruptum testamentum , apparet, quod, etsi mutus fuerat, hoc ipsum faciebat, eorum etiam nos laudamus sententiam et sancimus, si vivus perfecte natus est, licet ilico postquam in terram cecidit vel in manibus obstetricis decessit, nihilo minus testamentum corrumpi, hoc tantummodo requirendo, si vivus ad orbem totus processit ad nullum declinans monstrum vel prodigium..

[3] "Ostentum" labeo definit omne contra naturam cuiusque rei genitum factumque. duo genera autem sunt ostentorum: unum, quotiens quid contra naturam nascitur, tribus manibus forte aut pedibus aut qua alia parte corporis, quae naturae contraria est: alterum, cum quid prodigiosum videtur, quae graeci fantasmata vocant..

[4] Quaeret aliquis si portentosum vel monstrosum vel debilem mulier ediderit vel qualem visu vel vagitu novum, non humanae figurae, sed alterius, magis animalis quam hominis, partum, an, quia enixa est, prodesse ei debeat? et magis est, ut haec quoque parentibus prosint: nec enim est quod eis imputetur, quae qualiter potuerunt, statutis obtemperaverunt, neque id quod fataliter accessit, matri damnum iniungere debet.

[5] Antiquos autem Romanos Varro dicit non recepisse huiuscemodi quasi monstruosas raritates, sed nono mense aut decimo neque praeter hos aliis partionem mulieris secundum naturam fieri existimasse, idcircoque eos nomina Fatis tribus fecisse a pariendo et a nono atque decimo mense.