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Candida toga

Teatro Antico di Taormina, Agosto 2020
Ph. Francesca Russo / Teatro Antico di Taormina, Agosto 2020

Ancora si parla di elezioni, possibile? Di nuovo, un articolo di più di quaranta anni fa diventa per Buscaroli occasione per una breve e tagliente osservazione, sull’origine della parola e le sue conseguenze, reali e lessicali. Sulla sua attualità, che non dimostra gli anni che porta.

 

Per me, ha già vinto la noia. Tre elezioni anticipate in sette anni, per non decidere nulla di nuovo, non creano un clima drammatico, danno soltanto fastidio. Pavento il mese elettorale, le discussioni, le ipotesi inutili, i soliti discorsi, immutabili da vent’anni. Pavento le decisioni familiari. Da un lato, mi dispiace l’idea della famiglia allo sbando, ciascuno per conto suo. Dall’altro, non ho verità da imporre, né da preferire, chissà cosa finirò per scegliere. Evito i discorsi politici, come la peste. Gli amici candidati non contino su di me, neppure il giornalista, neppure il generale. Seguo le loro manovre con occhio assente. Se i tempi elettorali continueranno a ravvicinarsi, non riprenderanno, in stipendi parlamentari, le spese elettorali.

Le Tv private progettano d’incassare trenta miliardi in pubblicità elettorale. Metà li pagheranno i candidati. Pavento rovine, famiglie distrutte. Eppure, sono in aumento. Aumentano liste, simboli, partiti, più fastidiosi ancora dei vecchi. I candidati diventano eserciti.

Seguo l’avanzata del verbo “candidare” e del suo fratello riflessivo “candidarsi”, come aspirazione attiva, voluttà di tipi che non si accontentano più di lasciarsi proporre o portare candidati da altri, ma si candidano da soli.

Si candida l’economista che fu consigliere di Moro, si candida il vecchissimo armatore napoletano, e contro di lui si candida il figlio in lista avversa, si candida il giornalista sedicente belva, ma non si candida più il tecnico sedotto al governo e abbandonato alla prima crisi.

Non si candida più neppure il senatore Umberto Agnelli, eletto tre anni fa nel collegio di Cuneo, forse riconoscendo fondate le obiezioni di quanti osservavano che in quel collegio agricolo non aveva senso “candidare un esponente industriale”.

“Candidare”, “candidarsi”, si affaccia alla lingua da pochi anni. Usato in modo esitante e pudico nelle cronache cittadine e nei giornali di provincia, è un verbo di vertice, lo adoperano i notisti romani, gl’inviati speciali e gli ambiziosi, impazienti di mostrare che la loro personalità soverchia gli apparati. Cerco il verbo nei dizionari. In quelli cinquecenteschi, “septem linguarum”, del bergamasco Calepino, in un paio di edizioni della Crusca. Niente.

Un’apparizione solitaria nell’immenso vocabolario del napoletano Tramater (1830) gli dà il significato di “imbiancare, far candido”, con un solo testo di lingua come esempio, le Prediche di un monsignor Cornelio Musso, che fu vescovo di Forlimpopoli e poi di Bitonto e fu tenuto il più grande oratore religioso che fosse in Italia.

Nell’Ottocento, il verbo s’inabissa e scompare, manca nei lessici ottocenteschi. Manca i tutti i Petrocchi e Zingarelli, manca (ed è confortante) nel Gergo della malavita, edito dal ministero dell’Interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, “elaborato, ad uso didattico, a cura dell’Ufficio studi e sinossi della Divisione scuole di polizia”, nel 1969.

Non compare del Lessico di frequenza della lingua italiana contemporanea della IBM (1971) “basato su uno spoglio di 500.000 parole”, e neppure in un torbido lessico dell’età democristiana, chiamato Le parole della politica, del 1973.

È dunque un rispettabile neonato della lingua. Il candidato ha generato, intanto, il suo verbo. Ma il candidato, chi è? Credo che ben pochi candidati saprebbero rispondere che nella Roma antica l’aspirazione alle pubbliche cariche vestiva una toga candida, mentre sollecitava il favore del popolo, per esibire in garanzia la chiarità del suo animo e delle sue azioni.

Chi si candida, deve apparir candido. Anche tra i greci era così, leukantheis.

La toga, dicono i manuali, si rendeva candida con la creta; le nostre toghe si rendono luride con le bustarelle, e questo lo sappiamo da noi, senza manuali.

Mai si videro tante toghe luride addosso a candidati che dovrebbero averle candide. L’uso portò i traslati. Si parla, nella buona letteratura, di candidati al matrimonio, al martirio, alla fama, all’immortalità, al vizio, al peccato, all’inferno.

Il “candidatus crucis”, nell’antichità, non era il candidato della Democrazia cristiana, ma il malfattore nell’imminenza di essere crocifisso. Lo riferisce Appiano, ed è notizia rara, che troverai solo nel Forcellini.

 

Da In casa e fuori, “Il Giornale”, 27 aprile 1979