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Cassazione Lavoro: il lavoratore da licenziare in caso di giustificato motivo oggettivo non può essere scelto arbitrariamente

La Corte di Cassazione ha stabilito che, in caso di licenziamento per riduzione del personale, il datore di lavoro non è completamente libero nella scelta del lavoratore (o dei lavoratori) da licenziare in quanto tale scelta deve essere improntata a criteri di correttezza e buona fede, cui deve essere informato ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi anche il recesso di una di esse.

Nel caso in esame, una società operante nel settore della produzione e della commercializzazione di macchinari da lavoro aveva intimato il licenziamento ad un proprio dipendente, adducendo esigenze di riorganizzazione aziendale (giustificato motivo oggettivo), a causa della perdita di due importanti commissioni.

Avverso tale decisione della società, il lavoratore licenziato proponeva ricorso all’autorità giudiziaria. I giudici della Corte d’Appello, riformando la sentenza di primo grado, dichiaravano illegittimo il licenziamento, ordinando alla società la reintegra del lavoratore, con risarcimento del danno subito dallo stesso, in applicazione della tutela reale come prevista dall’articolo 18 della legge 300/1970 (“Statuto dei Lavoratori”).

La Corte territoriale osservava innanzitutto che il licenziamento intimato al lavoratore era del tutto pretestuoso e non connesso con la perdita delle due commissioni, addotte come giustificazione del recesso, in quanto si osservava che il fatturato dell’azienda era aumentato nel periodo immediatamente successivo, così da migliorare l’andamento complessivo dell’azienda. Successivamente, la società aveva provveduto ad assumere nuovo personale, dimostrando l’assenza di esigenze di razionalizzazione dei costi. Il dipendente licenziato possedeva un livello di inquadramento contrattuale più elevato rispetto agli altri dipendenti, pur svolgendo mansioni del tutto simili a questi, ma percependo, per la più elevata professionalità, un compenso maggiore.

La società ricorreva dunque in Cassazione per violazione e falsa applicazione delle norme di legge, in particolare per violazione di un principio di rilevanza costituzionale, ovvero la libertà di iniziativa economica privata, così come garantita dall’articolo 41 della Carta Costituzionale.

Come definito dalla Corte, “il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, è scelta riservata all’imprenditore sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice, quanto ai profili della sua congruità ed opportunità. Al giudice è demandato il compito di riscontrare nel concreto, seppure senza ingerenza alcuna nelle valutazioni di congruità e di opportunità economiche, la genuinità del motivo oggettivo indicato a giustificazione del licenziamento (ossia la sua effettività e la sua non pretestuosità) e il nesso di causalità tra tale motivo e il recesso”.

Secondo i giudici di legittimità, le motivazioni addotte per il licenziamento si erano rivelate non veritiere, sulla base dello studio del fatturato della società successivamente alla perdita delle due commissioni e al fatto di aver aumentato l’organico. In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la parte datoriale non è libera di scegliere arbitrariamente il lavoratore (o i lavoratori) da licenziare, ma tale scelta deve essere improntata a principi di correttezza e buona fede. Data la fungibilità delle prestazioni svolte da un gruppo di dipendenti, la scelta dovrà essere giustificata dall’esame di diversi criteri, così come definiti dai contratti collettivi, che vanno dall’anzianità ai carichi di famiglia, esame che non era stato definito nel caso di specie.

Per tale ragione, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando la sentenza di secondo grado.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 23 ottobre 2013, n. 24037)

La Corte di Cassazione ha stabilito che, in caso di licenziamento per riduzione del personale, il datore di lavoro non è completamente libero nella scelta del lavoratore (o dei lavoratori) da licenziare in quanto tale scelta deve essere improntata a criteri di correttezza e buona fede, cui deve essere informato ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi anche il recesso di una di esse.

Nel caso in esame, una società operante nel settore della produzione e della commercializzazione di macchinari da lavoro aveva intimato il licenziamento ad un proprio dipendente, adducendo esigenze di riorganizzazione aziendale (giustificato motivo oggettivo), a causa della perdita di due importanti commissioni.

Avverso tale decisione della società, il lavoratore licenziato proponeva ricorso all’autorità giudiziaria. I giudici della Corte d’Appello, riformando la sentenza di primo grado, dichiaravano illegittimo il licenziamento, ordinando alla società la reintegra del lavoratore, con risarcimento del danno subito dallo stesso, in applicazione della tutela reale come prevista dall’articolo 18 della legge 300/1970 (“Statuto dei Lavoratori”).

La Corte territoriale osservava innanzitutto che il licenziamento intimato al lavoratore era del tutto pretestuoso e non connesso con la perdita delle due commissioni, addotte come giustificazione del recesso, in quanto si osservava che il fatturato dell’azienda era aumentato nel periodo immediatamente successivo, così da migliorare l’andamento complessivo dell’azienda. Successivamente, la società aveva provveduto ad assumere nuovo personale, dimostrando l’assenza di esigenze di razionalizzazione dei costi. Il dipendente licenziato possedeva un livello di inquadramento contrattuale più elevato rispetto agli altri dipendenti, pur svolgendo mansioni del tutto simili a questi, ma percependo, per la più elevata professionalità, un compenso maggiore.

La società ricorreva dunque in Cassazione per violazione e falsa applicazione delle norme di legge, in particolare per violazione di un principio di rilevanza costituzionale, ovvero la libertà di iniziativa economica privata, così come garantita dall’articolo 41 della Carta Costituzionale.

Come definito dalla Corte, “il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, è scelta riservata all’imprenditore sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice, quanto ai profili della sua congruità ed opportunità. Al giudice è demandato il compito di riscontrare nel concreto, seppure senza ingerenza alcuna nelle valutazioni di congruità e di opportunità economiche, la genuinità del motivo oggettivo indicato a giustificazione del licenziamento (ossia la sua effettività e la sua non pretestuosità) e il nesso di causalità tra tale motivo e il recesso”.

Secondo i giudici di legittimità, le motivazioni addotte per il licenziamento si erano rivelate non veritiere, sulla base dello studio del fatturato della società successivamente alla perdita delle due commissioni e al fatto di aver aumentato l’organico. In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la parte datoriale non è libera di scegliere arbitrariamente il lavoratore (o i lavoratori) da licenziare, ma tale scelta deve essere improntata a principi di correttezza e buona fede. Data la fungibilità delle prestazioni svolte da un gruppo di dipendenti, la scelta dovrà essere giustificata dall’esame di diversi criteri, così come definiti dai contratti collettivi, che vanno dall’anzianità ai carichi di famiglia, esame che non era stato definito nel caso di specie.

Per tale ragione, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando la sentenza di secondo grado.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 23 ottobre 2013, n. 24037)