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Cassazione Lavoro: per il mobbing sono necessarie mansioni “dequalificanti”

La Corte di Cassazione ha stabilito che, affinché possa ritenersi integrata una condotta di mobbing, è necessario che il lavoratore sia adibito a mansioni inferiori a quelle stipulate nel contratto, tali da definirsi “dequalificanti” rispetto alla professionalità che vanta il dipendente e per la quale è stato assunto.

Nel caso in esame, la dipendente di una struttura alberghiera, assunta per occuparsi dell’amministrazione della stessa, era adibita, prima dell’inizio dell’attività ricettiva, a mansioni diverse. Successivamente, la struttura aveva assunto un direttore amministrativo; la dipendente rifiutava di sottostare gerarchicamente a tale figurata ed era, per questa ragione, licenziata.

La lavoratrice ricorreva in giudizio chiedendo il reintegro nel posto di lavoro e il risarcimento del danno per la condotta mobbizzante del datore di lavoro. La sentenza di primo grado, che accoglieva la domanda attorea, era riformata dalla pronuncia della Corte d’Appello, che riteneva il licenziamento legittimo perché avvenuto per giusta causa.

A giudizio della Corte territoriale, la donna, alla quale erano state pur sempre affidate mansioni di carattere amministrativo, aveva opposto all’impresa alberghiera un rifiuto illegittimo perché contrario al legittimo esercizio dello ius variandi da parte del proprio datore di lavoro.

Avverso tale sentenza, la lavoratrice ricorreva in Cassazione, adducendo che lo ius variandi esercitato dal datore di lavoro non può in nessun caso ledere la dignità del lavoratore.

La Corte di legittimità ha rigettato la domanda della ricorrente, affermando che il potere del datore di lavoro di organizzare la propria attività lavorativa e, dunque, di stabilire le mansioni dei dipendenti che vi sono occupati è pienamente legittimo. Nel caso in esame, le nuove mansioni affidate alla ricorrente, frutto del legittimo esercizio del potere di organizzazione, non potevano considerarsi di livello inferiore rispetto a quelle pattuite nel contratto di assunzione.

La valutazione sulla illegittimità dell’esercizio dello ius variandi – afferma la Corte – deve compiersi prendendo in esame l’omogeneità delle mansioni successivamente attribuite e di quelle originariamente definite nel contratto, l’equivalenza concreta rispetto alle competenze richieste, il livello professionale del dipendente, a prescindere se, sul piano formale, le tipologie di mansioni rientrino o meno nella stessa area operativa.

Alla lavoratrice erano state comunque affidate mansioni di carattere amministrativo che escludevano un danno alla propria professionalità, ragion per cui veniva a mancare un qualsiasi diritto al risarcimento.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 22 dicembre 2014, n. 27239)

La Corte di Cassazione ha stabilito che, affinché possa ritenersi integrata una condotta di mobbing, è necessario che il lavoratore sia adibito a mansioni inferiori a quelle stipulate nel contratto, tali da definirsi “dequalificanti” rispetto alla professionalità che vanta il dipendente e per la quale è stato assunto.

Nel caso in esame, la dipendente di una struttura alberghiera, assunta per occuparsi dell’amministrazione della stessa, era adibita, prima dell’inizio dell’attività ricettiva, a mansioni diverse. Successivamente, la struttura aveva assunto un direttore amministrativo; la dipendente rifiutava di sottostare gerarchicamente a tale figurata ed era, per questa ragione, licenziata.

La lavoratrice ricorreva in giudizio chiedendo il reintegro nel posto di lavoro e il risarcimento del danno per la condotta mobbizzante del datore di lavoro. La sentenza di primo grado, che accoglieva la domanda attorea, era riformata dalla pronuncia della Corte d’Appello, che riteneva il licenziamento legittimo perché avvenuto per giusta causa.

A giudizio della Corte territoriale, la donna, alla quale erano state pur sempre affidate mansioni di carattere amministrativo, aveva opposto all’impresa alberghiera un rifiuto illegittimo perché contrario al legittimo esercizio dello ius variandi da parte del proprio datore di lavoro.

Avverso tale sentenza, la lavoratrice ricorreva in Cassazione, adducendo che lo ius variandi esercitato dal datore di lavoro non può in nessun caso ledere la dignità del lavoratore.

La Corte di legittimità ha rigettato la domanda della ricorrente, affermando che il potere del datore di lavoro di organizzare la propria attività lavorativa e, dunque, di stabilire le mansioni dei dipendenti che vi sono occupati è pienamente legittimo. Nel caso in esame, le nuove mansioni affidate alla ricorrente, frutto del legittimo esercizio del potere di organizzazione, non potevano considerarsi di livello inferiore rispetto a quelle pattuite nel contratto di assunzione.

La valutazione sulla illegittimità dell’esercizio dello ius variandi – afferma la Corte – deve compiersi prendendo in esame l’omogeneità delle mansioni successivamente attribuite e di quelle originariamente definite nel contratto, l’equivalenza concreta rispetto alle competenze richieste, il livello professionale del dipendente, a prescindere se, sul piano formale, le tipologie di mansioni rientrino o meno nella stessa area operativa.

Alla lavoratrice erano state comunque affidate mansioni di carattere amministrativo che escludevano un danno alla propria professionalità, ragion per cui veniva a mancare un qualsiasi diritto al risarcimento.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 22 dicembre 2014, n. 27239)