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Art. 270-sexies - Condotte con finalità di terrorismo

1. Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia (1).

(1) Articolo aggiunto dall’art. 15, DL 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, con L. 31 luglio 2005, n. 155.

Rassegna di giurisprudenza

La finalità di terrorismo è una categoria che, nel corso dei tempi, ha subito un’evoluzione anche sul piano della definizione legale. L’art. 270-sexies è stato, infatti, introdotto dall’art. 15 DL 144/2005, convertito con modifiche nella L. 155/2005 (recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), con lo scopo di dare una definizione legislativa dell’anzidetta finalità. In precedenza, l’attenzione si era concentrata sulla sua delimitazione rispetto al concetto d’eversione dell’ordine democratico, categoria di cui io stesso legislatore aveva dato una indicazione precisa attraverso l’art. 11 L. 304/1982, norma d’interpretazione autentica, con cui si era recuperata concettualmente l’eversione stessa all’ambito dell’ordine costituzionale.

L’incriminazione, attraverso l’art. 270-bis, delle condotte tese a colpire anche gli Stati esteri con iniziative di guerra o di cd. guerriglia, aveva creato più d’un problema ermeneutico. La contrapposizione tra terrorismo ed eversione riecheggiava in più disposizioni (art. 270-bis; 280 e 289-bis) inducendo a collegare semanticamente il terrorismo cd. interno ad azioni qualificate dal fine di porre in essere atti idonei a destare panico nella popolazione (SU, 2110/1996) e a gesti violenti, indiscriminatamente rivolti non contro le singole persone, ma contro ciò che esse rappresentavano. Si trattava di atti caratterizzati dallo scopo di colpire la fiducia nelle strutture statuali e di indebolirne le strutture portanti. Ben presto si era intesa l’inadeguatezza della nozione così tracciata a recuperare al suo ambito di operatività anche fenomeni più complessi di portata internazionale.

Consapevolezza di limiti siffatti era stata, in concreto, acquisita già a far data dal 2001 e in più occasioni la riflessione si era spostata sulle fonti di carattere “extradomestico” che, in certa misura, offrivano più d’un referente di definizione del fenomeno in esame, caratterizzato dai connotati di internazionalità. In questa logica si è più volte evocata la Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo (New York, 9 dicembre 1999, esecutiva con L. 7/1993), oltre alla definizione di atti terroristici contenuta nella decisione quadro 2002/475/GAI dei Consiglio UE che risulta, contrariamente, basata sulla elencazione di una serie di fattispecie considerate dal diritto nazionale e che sono suscettibili di indebolire uno Stato o una organizzazione internazionale nelle sue strutture, intimidendo gravemente la popolazione e costringendo i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere determinati atti.

Mentre la convenzione ONU comprendeva atti compiuti sia in tempo di pace che di guerra, la decisione da ultimo indicata aveva un ambito applicativo limitato alle condotte commesse in periodo di pace. Le azioni poste in essere in tempo di guerra risultavano, pertanto, regolate dal diritto umanitario e internazionale e dalle specifiche convenzioni. Entrambe le fonti e i criteri ispiratori ruotavano intorno a un concetto di “depersonalizzazione” della vittima, in ragione del vero obiettivo dell’azione violenta, volta a diffondere paura indiscriminata nella popolazione. In questa logica si sono mosse le prime decisioni che hanno ritenuto di applicare regole e principi indicati a fenomeni violenti in cui le azioni si dirigevano (in tempo di pace o di guerra) verso soggetti estranei alle ostilità. Come anticipato con il DL 144/2005, convertito con modifiche nella L. 155/2005 (recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), sono state definite le condotte con finalità di terrorismo introducendo l’art. 270-sexies.

La norma si caratterizza essenzialmente, al di là della portata definitoria„ per il richiamo, in funzione integrativa, del vincolo derivante da fonti internazionali che entrano attraverso un meccanismo di rinvio dinamico a far parte della fattispecie in esame. La disposizione definisce le condotte di terrorismo sul piano oggettivo come quelle che per natura o contrasto possono arrecare grave danno a un Paese o a una organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o una organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o a destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali costituzionali economiche e sociali di un Paese o di una organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia (per approfondimenti sulla nozione di grave danno e di contesto: Sez. 6, 28009/2014).

Il profilo soggettivo delle condotte, con finalità di terrorismo, deve concentrarsi su una delle tre caratteristiche previste dalla norma indicata (intimidire la popolazione; destabilizzare o distruggere una delle strutture fondamentali dei Paese o di una organizzazione internazionale; indurre una costrizione). La giurisprudenza di legittimità sulla definizione della partecipazione all’associazione con finalità di terrorismo, anche internazionale, è stata caratterizzata innanzitutto dalla necessità di distinguere la finalità di terrorismo internazionale da quella di eversione dell’ordine costituzionale di altri Stati e si è giunti alla conclusione che esula dalla finalità e dalla ratio legis la possibilità ce il giudice interno Si pronunci su fenomeni politico-istituzionali di uno Stato estero (Sez. 6, 36776/2003).

Il bene giuridico tutelato si identificherebbe esclusivamente nella personalità internazionale dello Stato, in guisa tale da escludersi la possibilità di estendere in sostanza la formula dell’art. 270-bis alle ipotesi di eversione degli Stati esteri (Sez. 5, 12252/2012). In punto di condotta il delitto di partecipazione ad associazione di tipo terroristico prevede le due forme alternative attraverso cui si può rivelare l’azione tipica. Da un lato, il cd. ruolo direttivo in senso ampio e, dall’altro, l’adesione ad associazione già costituita, che si prefigge lo scopo di realizzare, con la violenza i fini descritti dalla norma. La disposizione in realtà appresta tutela contro il programma che ne caratterizza la struttura e non contro “l’idea” sottostante e ispiratrice la spinta a delinquere, anche nei casi in cui essa “ideologia assuma i connotati tipici d’un motore esecutivo dell’azione deviante.

L’idea, tuttavia, cui si collega la corrispondente ed eventuale manifestazione del pensiero, per assumere rilevanza penale, deve obiettivizzarsi in programmi o segmenti fattuali prodromici alla realizzazione di comportamenti violenti. In realtà non si incrimina la condotta d’espressione del pensiero e non si reprime il diritto individuale a costruire una propria visione del mondo, contrastante con quella trasfusa e posta a fondamento d’un ordine costituito, cui si ispirano lo Stato, la sua legislazione e il sistema istituzionalizzato. Né l’incriminazione investe il dissenso o determinati rapporti tra regole etico-sociali e norme giuridico-penali.

Frutto d’un equivoco si rivelerebbe l’impostazione che, invero, tendesse a ritenere addirittura la legge penale come fonte regolatrice di precetti etico-religiosi e come canone inderogabile di una morale precostituita che vivrebbe d’una autorità idonea ad imporsi dall’alto in basso nei rapporti tra Istituzioni e cittadini o nelle relazioni tra essi individui, In realtà non è questa la premessa da cui muovere; erronea risulterebbe un’impostazione che pretendesse di ricostruire la dinamica dell’incriminazione partendo dai concetti anzidetti. Sui diritti di libertà, presidiati costituzionalmente e, per quanto qui rileva, sui diritti di libertà di religione e di pensiero (artt. 19 e 21 Cost.) non sarebbe neppure astrattamente ipotizzabile una funzione “pedagogica” del legislatore, finalizzata a creare, attraverso l’incriminazione, come si è correttamente osservato, un’etica dell’obbedienza. Il precetto penale ha un significato e può avere un suo ambito di operatività, là dove vi sia offesa (in termini di danno o pericolo) rispetto a beni giuridici di eguale valore e laddove, come accade nel caso di specie, il contributo del singolo si traduca nell’adesione a gruppi che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo.

La partecipazione, dunque, rileva non in quanto manifestazione ideologica di un pensiero eticamente, moralmente o religiosamente difforme dall’altrui sentire, ma solo in quanto essa “idea” sia in diretto collegamento con il compimento di atti di violenza funzionali all’anzidetta Ciò posto deve osservarsi come il reato di cui all’art. 270-bis sia, invero, tradizionalmente indicato anche come reato di pericolo cd. presunto, per la cui configurabilità occorre una struttura anche minima o rudimentale con un programma tra partecipi che abbia le finalità indicate di terrorismo o eversione. Quel programma si deve, cioè, incentrare sulla realizzazione di progetti concreti e attuali di atti di violenza, diretti al conseguimento dello scopo associativo. Da ciò discende la conseguenza che l’idea in sé (eversiva o terroristica), non accompagnata da progetti concreti e attuali di violenza, non vale a rendere penalmente rilevante l’adesione del singolo, là dove si arresti ad un pano intimistico e di pura convinzione interiore.

Non è, tuttavia, necessaria, ben inteso, la realizzazione di singoli reati che diano anche concretizzazione fenomenica di programma associativo stesso; piuttosto, occorre che si realizzi una struttura, pur elementare, che abbia un minimo di effettività e idoneità a porre in essere i singoli fatti e atti di violenza con la finalità anzidetta. Egualmente non è richiesto, affinché possa configurarsi la condotta di partecipazione, che il programma associativo generale si sia già risolto nella specifica programmazione di singoli e specifici atti terroristici o di violenza con analoga finalità (Sez. 5, 2651/2016). Si è anche spiegato come le azioni già poste in essere ben possano, a livello probatorio, costituire indicatori o elementi di prova della stabilità organizzativa del vincolo associativo e della struttura (Sez. 1, 22673/2008). In questa logica si è ritenuto opportuno richiamare la categoria dei reati di pericolo cd. presunto.

Essa si collega, indubbiamente, alla necessità di assicurare protezione a beni giuridici di rilevanza primaria e alla necessità da parte del legislatore di fare ricorso a modelli siffatti di incriminazione evitando, nei limiti del possibile, che la tecnica di formazione possa porsi in contrasto con i diritti di libertà dei cittadini. I rischi maggiori si palesano, all’evidenza, allorquando I pericolo è assunto come diretta qualificazione della condotta in sé, senza avere riguardo alle sue concrete conseguenze. Spesso si è parlato in ipotesi siffatte anche di reati a cdi condotta pericolosa. In questi casi con condotte sinteticamente formulate, prive di accenni descrittivi sul fatto tipico o di elementi normativi ovvero ancora non adeguatamente sviluppati nella definizione dei modelli di causazione della lesione -su cui si incentra il paradigma normativo- si rischia di proiettare l’incriminazione verso formule assai elastiche e, per certi versi, esposte ad essere colmate con una interpretazione giurisdizionale che non deve mai tenersi discosta dalla regola di tassatività e materialità della fattispecie. L’astrazione è un modello contrapposto concettualmente ai parametri di concretezza cui, piuttosto, deve ispirarsi l’incriminazione penale.

Si tratta di parametri che hanno lo scopo di allontanare le tecniche di descrizione dei fatti e quelle di applicazione delle fattispecie da modelli soggettivistici e puramente sintomatici, in una logica che conduca ad un oramai desueto e lontano diritto penale d’autore e dell’atteggiamento interiore. Il percorso dogmatico che ha delineato I tracciato della concezione intimamente realistica del fatto ha, del resto, correttamente allontanato approcci tesi a valorizzare prospettive di natura astratta per condurre l’esame delle fattispecie di pericolo a un piano di decisa valenza reale. Correttamente l’attributo di astrattezza è collegato ai reati di pericolo in cui la legge dichiara punibili certe forme di reato incentrate sul mero comportamento umano. In essi è la condotta a essere definita pericolosa e lo è attraverso l’esperienza comune che assurge a referente di valutazione e di ponderazione dell’antigiuridicità da parte del legislatore.

Essa condotta, in ragione di ciò, è foriera di pericolo e vale in questa logica ad assumere rilevanza penale, perché lesiva o potenzialmente tale del bene protetto dalla incriminazione. Il livello di tutela apprestato all’oggettività giuridica della fattispecie, segna, pertanto, l’ambito di accertamento “nella vicenda storica”, in ordire al quale si deve spingere l’interprete, per ricercare se nella condotta materialmente tenuta esistano i crismi della tipicità legalmente data come pericolosa. Il reato di cd. pericolo concreto è, contrariamente, quello in cui non v’è arretramento alla condotta, ma lo spessore di lesività sta nel pericolo come risultato del fatto. Esso pericolo è elemento della fattispecie ed entra a delinearne la medesima tipicità, obbligando il giudice, al pari di ogni elemento della struttura del fatto, a ricercarlo, attraverso una verifica sul se la condotta lo abbia effettivamente concretizzato, ponendo e recando minaccia al bene giuridico.

Spesso si è semplicisticamente annotato che nei reati di cd. pericolo astratto non si debba operare un accertamento concreto della lesione, accertamento contrariamente necessario per i secondi tipi di illecito, in cui la verifica del pericolo concreto inerisce alla struttura del fatto incriminato. In antitesi a opzione dogmatica siffatta si è preferito rimarcare la necessità di una verifica ‘‘realistica” in entrambe le categorie di fatti 2enairnente rilevanti. In questa logica si è anche distinto tra reati ad evento di pericolo concreto e reati a condotta pericolosa. La diversità è sostanzialmente quella tracciata. Nei primi a situazione pericolosa è assunta dal legislatore come oggetto della qualificazione giuridica del fatto e il pericolo nel modello legale è posto come una sorta di evento “naturalistico’ nel senso che è in collegamento con la condotta. In queste fattispecie l’accertamento del pericolo deve avvenire in concreto ed ex post. Al contrario, nei reati cd. a condotta pericolosa l’accertamento di esso pericolo si opera ex ante e si parla anche di fattispecie a mera condotta pericolosa, in cui essa condotta è portatrice nella sua dimensione descrittiva del requisito anzidetto, senza che ciò, tuttavia, significhi che pericolo sia oggetto di una presunzione e non debba costituire oggetto di un certo tipo di verifica da parte dell’interprete.

Ciò è chiaro in forza di quanto è scritto nell’art. 49 cpv., norma cardine del sistema che segna la necessaria lesività del fatto e in cui nonostante l’eventuale conformità dl esse fatto al modello legale potrebbe non ricorrere l’offesa al bene con il conseguente scarto tra essa e la sua tipicità formale. In questi casi in cui la connotazione di pericolo attiene alla mera condotta, va esclusa la rilevanza penale allorquando l’offesa non sia realizzata e il bene a tutela del quale la condotta è incriminata non sia stato in concreto messo in pericolo da quel tipo d’azione legalmente definita pericolosa e tale stimata dai legislatore in guisa da essere incorporata nel paradigma legale.

Deriva che in tutti i cd. reati di pericolo si richiede a maggior ragione l’accertamento sulla concreta pericolosità del fatto da parte del giudice. Dunque, la pericolosità non sta nel solo precetto- comando e nel a valutazione presuntiva e astratta che abbia operato il legislatore sul tipo di azione. Ciò spiega perché nell’indagine da effettuare per la verifica dei connotati di partecipazione il giudice debba concentrarsi sulla rilevanza concreta dell’apporto alla struttura associativa e sull’elemento subiettivo della partecipazione all’associazione terroristica, al fine di appurare se e in che misura il contributo offerto non si sia limitato alla mera manifestazione dei pensiero e si sia, piuttosto, risolto nell’adesione alla struttura attraverso la condivisione del metodo violento per la realizzazione degli scopi associativi e nella realizzazione di un contributo di valenza causale efficiente a indurre la vita e la sopravvivenza dell’ente, anche e solo in termini di puro rafforzamento della sua essenza.

Le forme di partecipazione possono atteggiarsi anche diversamente in relazione alle tipologie di associazioni che l’esperienza giudiziaria può proporre, pur dovendosi rilevare come costante il contributo materiale al gruppo superindividuale e il requisito d’affectio. In più d’una occasione si è, del resto, fatto riferimento non all’atto di adesione al progetto sovversivo o terroristico, ma alla creazione di “gruppi di affinità” o di cd aderenti alla struttura base (Sez. 5, 46340/2013). Sviluppando, così, la premessa secondo cui ‘associazione sussiste anche là dove la struttura stessa abbia raggiunto un grado di effettività tale da rendere possibile l’attuazione del programma criminoso, pur senza aver ancora predisposto un programma di azioni terroristiche specifiche, si e ritenuto che esse caratteristiche sussistano (in guisa da rendere penalmente rilevante l’intervenuta adesione) a fronte di strutture di matrice islamica, appunto, cellulari, caratterizzate da flessibilità interna e in grado di modularsi secondo le esigenze concrete, capaci di operare in più Stati e attraverso meccanismi di adesione progressiva e aperta.

Si è, pertanto„ richiamato il concetto di “rete” come elemento descrittivo dea struttura di organizzazione e diffusione della compagine (Sez. 5, 43001/2016). Ancora e recentemente, si è ribadito che la partecipazione ad una associazione terroristica di ispirazione jahadista può manifestarsi anche attraverso modalità di adesione “aperte” e spontaneistiche che non implicano l’accettazione da parte del gruppo, ma che comportano di fatto una inclusione progressiva dei partecipi (fattispecie in cui si è ritenuta partecipe dell’organizzazione terroristica una “cellula” operativa autonoma composta di più soggetti attivi sul territorio italiano) (Sez. 5, 50189/2017). In altri termini nella fattispecie di cui all’art 270-bis, come più in generale nella figura plurisoggettiva necessaria, il contributo causale assume contorni indifferenziati rispetto alla tipicità del fatto che qualifica la reità in senso stretto e si dilata a tutti i tutti gli antecedenti eziologicamente significativi nella produzione del risultato incriminato. Esso risultato consiste nel delitto (a forma libera) di cui all’art. 270, nella condotta di partecipazione e, dunque e prima ancora, di adesione seria e apprezzabile ad un gruppo con finalità di terrorismo.

Questa partecipazione si connota per apporti materiali idonei causalmente a rendere esistente la struttura e ad assicurarne la sopravvivenza. In questa logica l’azione di concorso nel delitto plurisoggettivo necessario viene recuperata alla tipicità del fatto attraverso la sua efficienza causale rispetto all’evento di pericolo che la costituzione dell’associazione e l’adesione ad essa da parte del singolo concorrente inducono. Si comprende come la spiegazione causale assuma, pertanto, nello scrutinio oggettivo della fattispecie concorsuale un profilo determinante, poiché l’aggregazione diventa ex se evento giuridico, rilevante giacché è volto a realizzare un programma illecito con violenza e per finalità di terrorismo. Occorre, pertanto, per aversi partecipazione, condivisione degli scopi associativi con relativa compenetrazione nella struttura e disponibilità verso essa che offra oggettivamente risultati o apporti concausali alla vita e alla sopravvivenza dell’ente, con l’affectio tipica del partecipe.

Tutto ciò non richiede formali accettazioni, da parte del nucleo centrale, ammissioni solenni o investiture che facciano del singolo un elemento noto al gruppo, percepito come tale da tutti gli altri aderenti. In ciò l’associazione di tipo terroristico, a conformazione base cd. orizzontale può discostarsi dai modelli tradizionali che l’esperienza giudiziaria ha offerto e che tradizionalmente sono stati legati al delitto di cui all’art. 416-bis. Invero, gli obiettivi da realizzare non sono limitati a una parte del territorio, ma interferiscono e mirano a diffondere un certo messaggio da imporre con a violenza in termini globali, piegando ad esso il dissenso e distruggendo ogni forma culturale e religiosa diversa da quella propalata. Il discrimine nella qualificazione della stessa partecipazione è dato Indubbiamente dall’atteggiamento psicologico e, prima ancora, dalla estrinsecazione di comportamenti che assumano efficienza causale per la sopravvivenza del gruppo stesso. La base associativa, pertanto, è di natura causale e vive dei contributi anche isolati e unilateralmente offerti ad essa dai singoli aderenti che abbiano inteso compenetrarsi in essa condividendone non solo gli scopi, ma i metodi di violenza attraverso cui essi devono essere realizzati (Sez. 1, 49729/2018).

Nel dibattito (anche giurisprudenziale) sulla identificazione della «finalità di terrorismo», per lungo tempo circoscritto essenzialmente dal riferimento alternativo allo spargimento del «terrore» ed all’eversione dell’ordine costituzionale, l’introduzione nel codice penale dell’art. 270-sexies (operata con la L. 155/2005) ha segnato indubbiamente una cesura. La novella è valsa ad adeguare l’ordinamento interno alle indicazioni della decisione quadro 2002/475/GAI (oltre che alla Convenzione del Consiglio europeo sulla prevenzione del terrorismo, adottata dal Comitato dei ministri e sottoscritta dall’Italia il 14/06/2005), ed è stata preceduta dalla ratifica, con clausola di esecuzione, di numerose convenzioni internazionali in materia, tra le quali rileva in modo particolare la Convenzione sul finanziamento degli atti di terrorismo fatta a New York nel 1999 e ratificata in Italia con la L. 7/2003.

La norma dell’art. 270-sexies presenta una struttura complessa, nella quale, pur essendo la norma stessa dedicata alla descrizione di una finalità, sono certamente compresi elementi di carattere obiettivo, quali misuratori della specifica offensività dei fatti contemplati, e quali garanzie d’un ordinamento che, per necessità costituzionale, deve rimanere distante dai modelli del diritto penale dell’intenzione e del tipo d’autore. A livello soggettivo, sul piano della rappresentazione e della volizione, l’agente opera in una duplice direzione. In primo luogo vuole un «grave danno per un Paese od una organizzazione internazionale», o almeno vuole creare condizioni che seriamente conducano in quella direzione. In secondo luogo, persegue un fine alternativo, fra i tre indicati dalla norma: intimidire la popolazione, destabilizzare o distruggere strutture politiche fondamentali, o infine costringere il potere pubblico o una organizzazione internazionale a compiere o a non compiere un qualsiasi atto. Subito si evidenzia la particolare struttura del dolo. Salva ogni osservazione in punto di idoneità dell’azione al fine, quale profilo strutturale dei casi di dolo specifico, la prima parte della norma descrive un evento di pericolo, che deve concretamente profilarsi e che, nei riflessi soggettivi, deve pienamente riprodursi.

La legge non si limita ad esigere il fine di produrre un «grave danno», ma esige l’obiettivo compimento di condotte che possono determinare quel danno (e dunque sono idonee in quel senso). Il punto è centrale, e merita di essere ribadito. Già il tenore letterale della norma implica che non basta l’intenzione del danno, posto che la condotta deve creare la possibilità che si verifichi. Un evento di pericolo concreto, dunque, da valutare secondo l’ordinario paradigma della prognosi postuma. Un segnale particolarmente rilevante in questo senso viene anche dal riferimento alla «natura o contesto» della condotta, quali elementi indefettibili della valutazione in punto di pericolosità. La previsione svolge certamente quel ruolo di «allargamento» che le viene assegnato nel provvedimento impugnato, e che d’altronde è indispensabile per il ragionevole bilanciamento tra principio di personalità della responsabilità penale ed efficienza dell’azione repressiva (e preventiva) nei confronti di gravi fatti illeciti.

Quando la caratteristica di tali fatti risieda proprio (ed anche) nella macro-dimensione dell’evento temuto, è consentito al legislatore il ricorso esplicito a segnali che valorizzino il contributo individuale alla produzione, effettiva o potenziale, dell’evento medesimo, per evitare che tale contributo resti annullato dalla serie coordinata di forze che, nei fatti, è necessaria per esplicare concretamente l’effetto. Non v’e dubbio che, nel caso in esame, il riferimento al «contesto» serva appunto ad evidenziare come la possibilità dell’evento dannoso posto sullo sfondo della fattispecie rilevi anche quando non dipenda in via esclusiva dall’azione considerata, ma sia piuttosto il frutto dell’innesto del contributo in una più ampia serie causale, non necessariamente controllata dall’agente.

Si tratta del resto d’una applicazione delle regole comuni in materia di causalità e concorso di persone (artt. 41 e 110), ove vige il principio dell’equivalenza, anche tra condizioni riferibili a comportamenti umani, con il limite esclusivo delle cause «da sole» sufficienti a produrre l’evento. È però altrettanto chiaro sempre in applicazione dei principi generali  che l’interazione tra condotta individuale e contesto deve segnare il momento rappresentativo e quello volitivo nella determinazione dell’agente. In particolare, se la possibilità dell’evento dannoso grave dipende da tale interazione, è ovvio che l’agente dovrà rappresentarsi gli elementi della congerie causale che conferiscono alla sua personale condotta l’efficienza peculiare sanzionata dalla norma, e dovrà volerne l’influsso sulla serie nella quale il suo comportamento confluisce.

Una implicazione ovvia, dell’ovvio principio, è che il «contesto» non può essere ricostruito tenendo conto di condotte ed avvenimenti successivi al comportamento del reo, non potendo questi farne oggetto di rappresentazione e di pianificazione. A meno che, naturalmente, non si riscontri la pertinenza del fatto ad una programmazione che comprenda ab initio futuri elementi di contesto utili ad interagire con l’azione commessa. Si tratta per altro, a questo punto, d’una mera questione di prova e motivazione. Dunque, un dolo generico comprendente il pericolo d’un grave danno per un Paese od una organizzazione internazionale.

Tuttavia, l’azione deve essere anche finalizzata ad uno di tre ulteriori eventi, che non deve necessariamente verificarsi, secondo lo schema tipico del dolo specifico. Nella sede presente interessa l’evento di «costrizione» del potere pubblico a fare o non fare qualcosa. Ma non va trascurata, naturalmente, la «qualità» dei due fatti ulteriori, poiché l’accostamento dei tre eventi e la loro parificazione a fini di trattamento sanzionatorio costituisce un fattore irrinunciabile per l’esatta ricostruzione delle rispettive fisionomie. Ecco dunque che alla «costrizione» si affianca, in primo luogo, lo scopo terroristico «classico» («intimidire la popolazione»), cioè portare nella società un turbamento profondo e perdurante, tale che la collettività, nel suo complesso, senta menomata la propria aspettativa di vita in condizioni di libertà e sicurezza.

Questa Corte ha già identificato una sostanziale continuità, sotto questo limitato profilo, tra la nozione di «spargimento del panico tra la popolazione» individuata dalla giurisprudenza più risalente (SU, 2110/1995) e quella di grave intimidazione nei confronti della popolazione, fissata nell’art. 1, comma 1, della Decisione quadro n. 2002/475/GAI, sostanzialmente ripresa con l’art. 15 del DL 144/2005 e, dunque, con l’art. 270-sexies: «[...] è comunque presente la connotazione tipica degli atti di terrorismo individuata dalla più autorevole dottrina nella “depersonalizzazione della vittima” in ragione del normale anonimato delle persone colpite dalle azioni violente, il cui vero obiettivo è costituito dal fine di seminare indiscriminata paura nella collettività e di costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un determinato atto» (Sez. 1, 1072/2006). In secondo luogo rilevano la destabilizzazione o la distruzione delle strutture istituzionali fondamentali di un Paese o di una organizzazione internazionale: una finalità più prossima allo scopo tradizionale dell’eversione dell’ordine costituzionale e democratico, spinta fino alla «destabilizzazione» delle istituzioni più essenziali dal punto di vista politico, costituzionale, economico o sociale.

L’identificazione dell’evento «costrizione», che costituisce il principale elemento di novità della nozione vigente di finalità terroristica, rappresenta l’aspetto più delicato della regiudicanda. È appena il caso di notare come l’essenza della politica, e della stessa forma democratica dello Stato (artt. 1, comma 2, e 49 Cost.), consista nel dispiegamento di forze individuali e sociali al fine di orientare e, in certo senso, di imporre le scelte rimesse agli organi del potere pubblico, interagendo con essi anche attraverso la partecipazione dei cittadini ad attività sviluppate fuori dalle istituzioni rappresentative (partiti, associazioni, movimenti, di carattere politico, sindacale, culturale). Il fine di condizionamento politico è quindi del tutto inidoneo a selezionare le condotte con finalità terroristiche. E la possibilità di interferenza rende conto, senza inutili spiegazioni, della delicatezza estrema dell’operazione cui la legge chiama gli interpreti e gli operatori giudiziari. Un primo elemento per l’actio finium regundorum, necessario ma non certo sufficiente, consiste nella «scala» della decisione potenzialmente imposta al potere pubblico. Dovrà trattarsi di un affare particolarmente rilevante, capace di influenzare le condizioni della vita associata, per il suo oggetto o per l’implicazione che ne deriva in punto di «tenuta» delle attribuzioni costituzionali.

Non sono solo il buon senso, ed il valore semantico e storico delle parole, ad escludere che possa e debba parlarsi di terrorismo per qualunque pressione esercitata su di un pubblico ufficiale, sia pure mediante la commissione di un reato. Se la «costrizione» è evento paragonabile al dissesto delle istituzioni od alla intimidazione della popolazione nel suo insieme, se la «costrizione» è comunque perseguita dall’agente nella consapevolezza e nella volontà di provocare il rischio di un «grave danno» per il Paese intero, allora detta «costrizione» non potrà che avere ad oggetto una decisione che incida significativamente su una scala sociale ed istituzionale corrispondente. L’interferenza tra «costrizione» e «grave danno» pone poi in evidenza un secondo elemento di delimitazione della fattispecie, capace di imporre una «macro-dimensione» del fenomeno, ma a sua volta insufficiente, da solo, per una delimitazione del fatto che risulti compatibile con il principio di determinatezza (e con le implicazioni da questo sortite in punto di colpevolezza).

I commentatori hanno posto in luce la scarsa capacità descrittiva della parola «grave», ma la stessa nozione di «danno», quando si parla di obiettivi politicamente qualificati, può risultare opinabile. Ciò che una parte può considerare dannoso per il Paese, altra parte può considerare conveniente. Il discrimine in proposito non può derivare (solo) da un terzo elemento definitorio, essenziale per quanto implicito, e cioè la illegittimità del metodo utilizzato per perseguire il fine di «costrizione». Se ottenuta mediante comportamenti leciti, massime attraverso il libero dispiegarsi del dibattito sociale e del conflitto politico, anche la più pressante influenza sul procedimento di formazione della volontà delle istituzioni pubbliche non può assumere rilevanza. Lo stesso ricorso al termine «costrizione», del resto, evoca in qualche modo l’idea di una pressione indebita e nel contempo capace (almeno nelle intenzioni dell’agente) di alterare le regole ordinarie del procedimento decisionale.

Non v’è dubbio insomma che la costrizione debba essere attuata «indebitamente», anche se la norma nazionale non ha ripreso la specifica qualificazione che segna invece il suo corrispondente nella Decisione quadro ormai più volte citata. Sennonché il fine di «costrizione» non può assumere dimensione terroristica per il sol fatto che la condotta strumentale contrasta con un precetto penalmente sanzionato. Si guardi alla categoria dei reati «politici» (secondo la definizione giuridicamente rilevante che discende dal comma 3 dell’art. 8): non ogni atto penalmente illecito, che sia politicamente orientato in senso obiettivo o soggettivo, può integrare la nuova nozione di terrorismo. Ancora una volta, la soluzione è suggerita anzitutto dal senso delle parole e dalla valenza «sociale» del concetto di terrorismo (dunque dalla portata tipizzante della sua evocazione). Una ipotetica deriva dell’ordinamento verso la qualificazione «terroristica» di ogni reato politicamente motivato sarebbe inammissibile, in virtù di ragioni troppo evidenti, ancora una volta, per richiedere una particolare illustrazione.

La giurisprudenza di legittimità si è occupata del tema principalmente allo scopo di distinguere tra «sovversione» e «terrorismo», ma ha comunque chiarito «che non qualsiasi azione violenta può farsi rientrare nel concetto di eversione, previsto dal codice penale, ma solo quella che miri al sovvertimento dei principi fondamentali, che formano il nucleo intangibile dell’assetto ordinamentale», aggiungendo che, quando praticata a scopi eversivi, la «violenza terroristica» provoca un più intenso allarme sociale ed un maggior rischio istituzionale, il che legittima la sua più severa punizione (art. 270-bis in relazione all’art. 270: Sez. 5, 12252/2012 ed altre;). In altri casi, pare che la distinzione tra finalità eversiva (come stigmatizzata dall’art. 1, comma 1, DL 625/1979) e finalità terroristica (l’unica che segna le fattispecie degli artt. 280 e 280-bis) non abbia rivestito particolare importanza ai fini del decidere: ma anche in fattispecie del genere (ove si è confermata la qualificazione ex art. 280-bis per un attentato definito «dimostrativo») mai è venuta meno, naturalmente, l’esigenza di una particolare conformazione del finalismo politico sottostante alla condotta (Sez. 1, 8069/2010).

Insomma, l’equiparazione tra condotta illecita politicamente motivata e terrorismo è improponibile. Ed allora la soluzione del problema interpretativo, necessariamente orientata verso una riduzione degli spazi di indeterminatezza della fattispecie, in armonia con l’assetto costituzionale dei valori in gioco, possa essere trovata nel collegamento tra i vari elementi evocati dalla norma. Un collegamento utile ad assicurare, tra l’altro, la conformità della scelta legislativa ai termini essenziali del dibattito sull’offensività nei delitti di attentato, che ha largamente interessato anche la definizione giuridica del concetto di terrorismo (interno). Esiste anzitutto un finalismo tipico dell’azione, secondo lo schema del dolo eventuale, e dunque costruito su eventi che risiedono fuori della fattispecie. Come detto, qui interessa la «costrizione» del potere pubblico a tenere od omettere un determinato comportamento, ma lo stesso discorso potrebbe valere per i due scopi alternativi, come delineati dalla legge.

Al tempo stesso, poiché è avvertita la necessità, da più parti evidenziata, di assicurare la specifica offensività dei comportamenti terroristici, escludendo dalla previsione progettazioni deliranti o palesemente inadeguate, è fissato un evento di pericolo, cioè il rischio di un «grave danno» per il Paese. Può e deve guardarsi a quell’evento come alla definizione sintetica del rischio che tipicamente (e concretamente) il «terrorista» produce coltivando, con una qualunque azione delittuosa, una delle tre finalità indicate nel prosieguo della norma. Al tempo stesso, la motivazione individuale qualifica il fatto come terroristico proprio in quanto suscettibile di creare il rischio di una grave lesione degli interessi presi di mira (il sereno svolgimento della vita pubblica, il fisiologico esercizio del potere pubblico, la stabilità e l’esistenza stessa delle istituzioni di una società pluralistica e democratica). Privata del riferimento ai fini tipici del terrorismo, la nozione di danno, da riferire oltretutto ad ogni genere di possibile comportamento criminoso, resterebbe priva di adeguata parametrazione: non v’è nozione giuridicamente accettabile di «danno» sanzionabile se non rispetto ad un interesse giuridicamente protetto.

Sennonché il soggetto passivo del «danno» viene dalla legge indicato nel Paese, lasciando intendere l’irrilevanza dei patrimoni privati in quanto tali, e nel contempo definito «grave», assumendo quindi una dimensione di scala, la quale per un verso non potrebbe che essere enorme (finendo paradossalmente per restringere l’ambito della tutela), e per altro verso sembra incompatibile con la fisionomia patrimoniale dell’offesa, per la sua entità e per la stessa sua natura. È dunque il collegamento con il carattere lato sensu politico - istituzionale del finalismo terroristico a qualificare e rendere accettabilmente determinato il «grave danno per il Paese» che la condotta di volta in volta considerata deve rendere possibile. Una conferma della necessità di una relazione tipica ed attendibile tra finalismo dell’azione ed oggetto del danno viene dalla considerazione degli strumenti internazionali che regolano il contrasto ai fenomeni terroristici e che esplicano effetti diretti nell’ordinamento nazionale. La convenzione fatta a New York nel 1999 per la repressione del finanziamento del terrorismo, che contiene un vasto apparato definitorio, è stata resa esecutiva in Italia con la L. 7/2004.

Appartiene al diritto UE, al quale l’ordinamento interno deve conformarsi, la Decisione quadro n. 2002/475/GAI, per la cui attuazione l’art. 270-sexies è stato appositamente introdotto nel codice penale. E d’altra parte proprio quest’ultima norma nazionale contiene una clausola di chiusura, estendendo la nozione di terrorismo alle altre «condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia». Se appare chiaro come la clausola sia stata appunto concepita in chiave estensiva, altrettanto ovvia sembra la sua funzione di orientamento nell’interpretazione complessiva della fattispecie, sia per l’esigenza di una ermeneusi che assicuri coerenza interna alla disciplina, sia per evitare il rischio d’un disallineamento tra la nozione «nazionale» di terrorismo e quella internazionalmente accolta, la cui prevenzione costituisce uno degli scopi essenziali della normativa pattizia. Ora, la norma eurounitaria presenta una struttura ancora più complessa di quella interna, visto che  ferma restando la potenzialità di danno per un paese o un’organizzazione internazionale  il fine alternativo di intimidire, costringere o destabilizzare rileva solo se perseguito mediante specifiche tipologie di condotte criminose.

La relativa disamina evidenzia un criterio misto di selezione. Dagli attentati alla vita od alla libertà delle persone al sequestro di mezzi collettivi di trasporto ed alla disponibilità di armi pericolose, sono state in primo luogo individuate condotte storicamente proprie del terrorismo, a livello nazionale ed internazionale, e strutturalmente idonee a generare intimidazione a livello individuale e collettivo. In secondo luogo, ed avuto particolare riguardo al danneggiamento di cose, sono stati individuati solo comportamenti capaci di provocare conseguenze disastrose, e dunque, nuovamente, idonei nella stessa direzione sopra indicata («distruzioni di vasta portata», «diffusione di sostanze pericolose», «cagionare incendi, inondazioni, esplosioni», «manomissione o interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse naturali»). Il legislatore europeo, cioè, ha tarato l’offesa con un criterio misto di descrizione dell’evento di pericolo e di indicazione delle condotte in astratto idonee a provocarlo, confermando la gravità del fatto terroristico e la sua tipicità: terrore indiscriminato, costrizione («indebita») di un potere pubblico; destabilizzazione («grave») delle istituzioni.

È stato anche osservato come un ulteriore tratto comune fra le condotte indicate sia costituito dalla potenzialità lesiva per i beni primari dell’incolumità e della libertà personale: le ipotesi concernenti attacchi alle cose sarebbero conformate in guisa da creare tipicamente rischio per le persone, non foss’altro che per la scala dell’aggressione portata ai beni strumentali. Questa era del resto la cifra della Convenzione Onu del 1999, che costituisce per esplicito una delle matrici dalle quali è nata la Decisione del Consiglio europeo ed ha orientato le legislazioni nazionali e le relative interpretazioni (compresa quella della giurisprudenza italiana) prima del 2002 (anno della Direttiva) e del 2005 (anno della relativa trasposizione).

Ebbene, la tecnica definitoria adottata nella sede ONU è ben nota. Da un lato si era fatto ricorso alle definizioni contenute in una lunga serie di convenzioni e trattati aventi ad oggetto il terrorismo, elencati nell’allegato alla stessa Convenzione. Per altro verso, era dettata la norma di chiusura, che varrebbe ad illuminare il contenuto più essenziale della nozione comunemente accolta di terrorismo: «ogni altro atto destinato ad uccidere o a ferire gravemente un civile o ogni altra persona che non partecipa direttamente alle ostilità in una situazione di conflitto armato quando, per sua natura o contesto, tale atto sia finalizzato ad intimidire una popolazione o a costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere, un atto qualsiasi» (art. 2, comma 1, lettera a) della Convenzione).

Anche da questi rilievi, e senza trarre conclusioni radicali (che qui non sono necessarie) sulla rilevanza terroristica di attentati portati esclusivamente a beni materiali, si deduce agevolmente come detta rilevanza non possa che essere subordinata, comunque, alla capacità di determinare l’effetto di intimidazione o costrizione che normalmente si connette alla minaccia di pregiudizio per i beni più essenziali della persona e dunque della comunità civile. In definitiva, la norma in commento ha esplicitato come il finalismo terroristico non sia un fenomeno esclusivamente psicologico, ma si debba materializzare in un’azione seriamente capace di realizzare i fini tipici descritti nella norma medesima. In ogni caso  data la pressante esigenza di delimitare il fatto tipico evitando un effetto di dilatazione della nozione di terrorismo tale da includere ogni reato politicamente motivato, quale che sia la «scala» degli interessi in gioco  il legislatore ha espressamente introdotto la previsione di un evento di pericolo, di portata tale («grave») da incidere sugli interessi dell’intero Paese, e di natura corrispondente alla realizzazione del fine perseguito dall’agente.

Passando alle caratteristiche oggettive e soggettive dei delitti di attentato, conviene anticipare come, a parere della Corte, gli stessi siano segnati sul piano materiale dalla univoca direzione degli atti verso un evento determinato e dalla idoneità degli atti medesimi a produrre la relativa lesione, con la conseguenza che la loro integrazione, sul piano del dolo, resta esclusa nel caso di mera accettazione del rischio che il bene giuridico subisca l’offesa. In giurisprudenza, le questioni in esame sono state affrontate soprattutto con riguardo alla materia del tentativo.

Anche l’incriminazione del delitto non compiuto, in effetti, risponde ad una logica di avanzamento della tutela dei beni giuridici, fino a situazioni di mera creazione del rischio d’una lesione dei beni medesimi. Per il tentativo, in verità, la compatibilità con i principi di offensività e legalità è assicurata, già sul piano letterale, attraverso l’interazione tra le disposizioni degli artt. 56 e 49. Il carattere concreto ed effettivo del rischio, in particolare, è richiesto attraverso il parametro della idoneità, che la giurisprudenza definisce ancor oggi con qualche dissonanza, ma sempre cura di connettere alle caratteristiche del caso di specie, analizzato secondo un criterio ex ante ed in base alle circostanze conosciute dall’agente o conoscibili mediante l’esercizio di diligenza e competenza ordinarie (Sez. 1, 32851/2013).

Può escludersi certo la necessità che l’evento perseguito risulti all’analisi fortemente probabile, ma è sicuramente esigibile una seria esposizione a pericolo del bene. Il requisito di idoneità concorre anche a circoscrivere il fatto punibile secondo il principio di tassatività, poiché in sostanza inserisce nella previsione di legge il divieto di creare situazioni pericolose per un determinato interesse. Ma per lo stesso scopo è indispensabile che il criterio concorrente dell’univocità sia inteso quale essenza del fatto criminoso, e non semplicemente quale tema di prova o caratteristica dell’elemento psicologico.

Occorre cioè, sul piano obiettivo, che le condizioni in cui matura l’azione denuncino univocamente l’orientamento causale della condotta verso un evento dato, tipicamente previsto dalla legge penale e diverso da ogni altro. Solo a queste condizioni la tecnica di tipizzazione del tentativo si accosta ad altre, fondate appunto sull’orientamento e non sulla descrizione (è il caso ad esempio del reato concorsuale ex art. 110), e con esse condivide, secondo l’opinione ampiamente maggioritaria, uno status di compatibilità con l’art. 25 della Costituzione. La giurisprudenza conferma il cd. criterio di essenza sia quando ne desume la rilevanza dei soli atti esecutivi (Sez. 1, 9411/2010), sia quando nega l’efficacia della distinzione tra preparazione ed esecuzione, ma esige, appunto, che il fatto risulti oggettivamente diretto alla produzione di un evento dato (Sez. 2, 18196/2010).

Dal punto di vista pratico, del resto, la corrispondenza tra il fine concreto di un determinato agire e la congruenza allo scopo degli atti compiuti, secondo un criterio di comune apprezzamento, rappresenta la modalità di gran lunga più frequente di accertamento del dolo punibile. Se la univocità «obiettiva» è elemento costitutivo della fattispecie, l’atteggiamento della volontà non può che conformarsi sulla medesima. A maggior ragione, l’unidirezionalità del momento volitivo risulta indefettibile qualora il requisito dell’univocità venga invece concepito in termini essenzialmente soggettivi. È per queste ragioni che tutta la giurisprudenza recente, superando orientamenti più risalenti, ravvisa incompatibilità tra il delitto tentato ed il dolo eventuale (Sez. 6, 14342/2012).

E conviene subito mettere in evidenza il rilievo particolare che l’enunciato è destinato ad assumere nella prospettiva di un superamento della tradizionale nozione di dolo eventuale quale mera «accettazione del rischio». In particolare, nel “dolo eventuale”, che costituisce la figura di margine della fattispecie dolosa, un atteggiamento interiore assimilabile alla volizione dell’evento e quindi rimproverabile, si configura solo se l’agente prevede chiaramente la concreta, significativa possibilità di verificazione dell’evento e, ciò non ostante, si determina ad agire, aderendo a esso, per il caso in cui si verifichi. Occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta.

A tal fine è richiesto al giudice di cogliere e valutare analiticamente le caratteristiche della fattispecie, le peculiarità del fatto, lo sviluppo della condotta illecita al fine di ricostruire l’iter e l’esito del processo decisionale (SU, 24/4/2014). Si deve dunque ritenere che la categoria dei delitti di attentato proponga questioni del tutto analoghe a quelle che hanno dovuto essere affrontate e risolte in materia di tentativo. Tale categoria è segnata dalla tecnica normativa utilizzata per anticipare la soglia di tutela del bene preso in considerazione, punendo appunto condotte che mettano anche solo in pericolo il bene medesimo. La tecnica consiste nell’indicazione dell’evento posto sullo sfondo delle singole fattispecie, e nel rinvio a tutte le condotte «dirette a» provocarlo. Talvolta, si registra addirittura un ricorso diretto (ed ancor meno stringente) alla definizione di sintesi del modello («chiunque attenta»).

Nei delitti di attentato manca, in realtà, il riferimento esplicito a quei fattori tipizzanti che invece caratterizzano la previsione dell’art. 56, cioè l’idoneità e l’univocità degli atti. Se si guarda per altro al panorama dottrinale recente, è comune l’opinione che si tratti di requisiti necessari anche per le figure in questione. L’assunto, talvolta motivato in base ad una pretesa sovrapponibilità fra tentativo e attentato, è oggi generalmente giustificato quale implicazione essenziale del principio di offensività, e comunque quale condizione necessaria per la tassatività delle fattispecie.

Anche in giurisprudenza, poi, si è affermata stabilmente l’esigenza che la condotta di attentato presenti un connotato di idoneità, anche se le variazioni dovute alla pluralità delle fattispecie ed al correre del tempo varrebbero ad evidenziare, in esito ad un esame approfondito, concezioni non del tutto omogenee del relativo concetto. Il principio è stato affermato anche con specifico riguardo al delitto di cui all’art. 280: «trattasi di condotta che pone in essere un reato di pericolo attraverso una complessità di atti predisposti al fine, sicché il risultato è la conseguenza di una più o meno lunga serie di concatenate azioni umane, ognuna delle quali, se suffragata dall’indispensabile elemento soggettivo, concorre alla realizzazione della condotta tipica di attentato, pur se trattasi di un anello iniziale, sempreché l’azione nel suo complesso risulti idonea, giusta i principi generali sanciti nell’art. 49 cod. pen., da valutare diversamente rispetto ai reati di danno appunto perché si tratta di reato di pericolo e quindi tenendo conto  ai fini della idoneità  anche del concorso di fattori eventuali, atteso il fine della norma, mirata a prevenire non solo il danno bensì l’insorgenza di una semplice situazione di pericolo» (Sez. 1, 10233/1988).

Caratteristiche analoghe presenta il tema dell’univocità quale elemento essenziale del tipo nei reati in questione: «ai fini della configurabilità dei delitti di da rivelare in modo inequivoco nella sua oggettività l’intenzione dell’agente di raggiungere il fine che si è prefisso: in essi devono pertanto essere necessariamente presenti i requisiti di idoneità degli atti e di univocità della loro direzione teleologica» (così, in relazione al delitto di strage, Sez. 1, 3150/1991). Il concetto è stato espresso anche con specifico riguardo al delitto che direttamente interessa in questa sede: occorre che «gli atti, pur se meramente preparatori, siano tuttavia tali da dimostrarsi, in linea di fatto, come idonei ed inequivocabilmente diretti alla realizzazione di quello che, in assenza della specifica previsione, sarebbe il reato consumato» (Sez. 1, 11344/1993). Ciò detto, deve necessariamente concludersi, in armonia con l’opinione dottrinale più autorevole e prevalente, che la forma eventuale del dolo è incompatibile anche con i delitti di attentato.

Non si tratta di postulare una piena sovrapposizione tra tentativo ed attentato. Si è già visto come, in una prospettiva di apprezzamento «essenziale» dell’univocità, la forma del dolo non potrebbe che allinearsi sulla struttura oggettiva del fatto, e cioè sulla percezione e sulla volizione di una destinazione univoca del proprio agire verso la produzione di un evento dato. A maggior ragione, lo stesso risultato si imporrebbe nel contesto d’una considerazione del requisito in termini essenzialmente soggettivi. Per l’integrazione dei reati puniti agli artt. 280 e 280-bis è necessario il compimento, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (dunque costituzionale), di atti idonei diretti in modo non equivoco a provocare gli eventi posti sullo sfondo delle rispettive fattispecie, con un atteggiamento della volontà direttamente mirato alla produzione degli eventi medesimi. In particolare, il delitto di attentato con finalità terroristiche o di eversione è segnato, sul piano soggettivo, da un doppio finalismo dell’agente.

L’azione deve essere anzitutto ispirata dal fine di eversione dell’ordine democratico o da quello, qui rilevante, di terrorismo (che a sua volta si sostanzia nella consapevolezza di creare il rischio di un grave danno al Paese in conseguenza della possibile realizzazione di uno tra gli scopi tipici indicati nell’art. 270-sexies).

Al tempo stesso, l’azione deve mirare a provocare morte o lesioni in danno di una persona, quali avvenimenti strumentali allo scopo. La morte o le lesioni sono dunque gli eventi naturalistici verso i quali si orienta la condotta tipica. È rispetto a tali esiti che va misurata l’idoneità e la univocità degli atti compiuti dall’agente. Ed è rispetto a tali esiti, per tutto quanto si è detto, che deve direttamente (e non eventualmente) dirigersi la volontà dello stesso agente. Analoghe considerazioni vanno svolte, mutatis mutandis, quanto al delitto previsto e punito dall’art. 280-bis, cioè l’attentato di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi.

Qui l’evento che la condotta deve essere idonea a produrre, e verso il quale deve essere univocamente orientata, è il danneggiamento di cose mobili o immobili altrui. Sono infine necessarie alcune notazioni quanto al finalismo tipico dei fatti di detenzione e porto di armi ed esplosivi, previsti rispettivamente dagli artt. 21 e 29 L. 110/1975. Tale finalismo coincide con quello delle altre fattispecie solo in rapporto allo scopo di eversione dell’ordinamento costituzionale, che non rileva nel caso di specie. Le norme sono state quindi evocate ed applicate nella parte in cui puniscono l’intento «di mettere in pericolo la vita delle persone o la sicurezza della collettività mediante la commissione di attentati».

L’espressione generica «attentati» è contrapposta, nel testo di legge, ad un elenco di reati la cui commissione integra «comunque» l’elemento soggettivo tipico: si tratta infatti dei delitti di comune pericolo mediante violenza (artt. 422 e ss.), nonché delle fattispecie di cui agli artt. 284 (insurrezione armata), 285 (devastazione, saccheggio, strage), 286 (guerra civile) e 306 (banda armata). Subito si pone, su di un piano astratto, il problema di un’adeguata delimitazione (anche in chiave di tassatività) del riferimento a quegli «attentati» che costituiscono un fine idoneo a determinare la peculiare e gravissima qualificazione dei fatti concernenti le armi. Ma non si ritiene necessario affrontare il tema nei suoi termini generali. Sembra chiaro, infatti, come la contestazione dei delitti de quibus non possa prescindere dalla identificazione, in ciascun caso concreto, dei reati programmati dall’agente, almeno per tipologia, se non addirittura con riguardo ad un obiettivo determinato (Sez. 6, 28009/2014).

La circostanza aggravante di cui si tratta è stata introdotta dall’art. 1 DL 625/1979, convertito nella L. 15/1980 (con successive modifiche, ultima fra le quali quella apportata dall’art. 4 L. 34/2003), disciplina (relativa a misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica) al lume della quale “per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, punibili con pena diversa dall’ergastolo, la pena è sempre aumentata della metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato”. L’interpretazione di tale disposto ha consentito di puntualizzare che la circostanza aggravante della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico può inerire a qualunque condotta illecita, sempre che il fine perseguito dall’agente sia quello di destare panico nella popolazione, senza che essa debba ritenersi collegata all’appartenenza dell’agente ad associazione sovversiva, dovendo invece riscontrarsi per la sua sussistenza l’accertamento che il reato sia strumentalmente rivolto a perseguire la conservazione dei fini di terrorismo o di eversione.

Essa è stata, dunque, originariamente riconnessa ad una particolare connotazione del dolo e, quindi, non può dissociarsi dalla specifica finalità perseguita dall’autore del reato, anche quando l’illecito penale, nella sua struttura fisiologica, non esprime il pericolo dell’eversione dell’ordine democratico, né un’ontologica e naturale propensione a suscitare terrore tra le persone (Sez. 1, 10283/2006, nell’ambito delle affermazioni già svolte da SU, 2110/1996). Si è anche specificato che la nozione di eversione dell’ordine democratico va riferita all’ordinamento costituzionale, ossia a quei principi fondamentali che formano il nucleo intangibile destinato a contrassegnare la specie di organizzazione statale, secondo la Costituzione, per cui essa non può essere limitata al solo concetto di azione politica violenta, ma deve necessariamente identificarsi nel sovvertimento dell’assetto costituzionale esistente, od anche nell’uso di ogni mezzo di lotta politica che tenda a rovesciare il sistema democratico previsto dalla Costituzione nella disarticolazione delle strutture dello Stato, oppure ancora nella deviazione dai principi fondamentali che lo governano (Sez. 2, 39504/2008).

Tuttavia, la tematica in discorso deve essere affrontata anche con riferimento al disposto dell’art. 270-sexies, disposizione (introdotta dall’art. 15, comma 1, DL 144/2005, convertito nella L. 155/2005) che, rubricata con riferimento alle “condotte con finalità di terrorismo”, stabilisce che “sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”.

Sulla base di tale specifica disciplina, tesa a qualificare la finalità di terrorismo, si è ritenuto, con riferimento ad esempio al reato di cui all’art. 280, che per la configurabilità del delitto di attentato per finalità terroristiche o di eversione sanzionato dalla norma incriminatrice ora citata è necessario che la condotta di chi attenta alla vita o alla incolumità di una persona, finalizzata al terrorismo secondo le definizioni di cui all’art. 270-sexies, possa  per natura o contesto  arrecare grave danno al Paese ovvero che la stessa, tenuto conto del contesto oggettivo e soggettivo in cui si inserisce, sia volta alla sostanziale deviazione dai principi che regolano l’essenza della vita democratica (Sez. 6, 34782/2015).

La sopravvenienza costituita dall’art. 270-sexies ha, in definitiva, inciso sulla portata applicativa della circostanza aggravante di cui al DL 625/1979, richiedendo per la relativa integrazione, non soltanto il profilo dell’intenzione terroristica, ma anche e necessariamente l’idoneità della condotta allo scopo di intimidire la popolazione oppure di ingenerare effetti riflessi nell’ordinamento istituzionale o ad esporre a pericolo le strutture di un Paese o di un organismo internazionale.

Quindi l’idoneità a produrre l’effetto di intimidazione della popolazione o gli altri succitati effetti concorre all’integrazione del profilo strutturale della fattispecie (sull’argomento, in motivazione, Sez. 1, 29480/2011 pone l’accento, in altro ambito, ossia per l’integrazione della fattispecie di cui all’art. 270-bis, sulla primaria rilevanza, nonostante la formulazione letterale della norma, non dello scopo che caratterizza l’associazione, bensì della modalità adottata per realizzare la finalità eversiva che la stessa si prefigge, vale a dire il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l’intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri, la volontà di distruggere, o quantomeno di destabilizzare, gli assetti istituzionali nel Paese; ancora con riguardo al discrimen tra le fattispecie di cui all’art. 270 e di cui all’art. 270-bis, costituito dalla natura della violenza utilizzata per perseguire il fine per il quale l’associazione sia costituita, sussistendo la violenza generica nell’associazione ex art. 270 e la violenza terroristica in quella ex art. 270-bis, Sez. 5, 46340/2013, ha ribadito che il terrorismo, ancorché qualificato come finalità dall’art. 270-bis, non costituisce, in genere, un obiettivo ma un mezzo o una strategia che si caratterizza per l’uso indiscriminato della violenza, non solo perché accetta gli effetti collaterali della violenza diretta, ma anche perché essa può essere rivolta in incertam personam, allo scopo di generare panico, terrore, insicurezza e costringere chi ha il potere di prendere decisioni a fare o tollerare soluzioni che non avrebbe accettato in condizioni normali).

Per converso, una volta che i suddetti effetti ricorrano come esito della condotta, la circostanza aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale è configurabile anche se si connette con azioni dimostrative e non necessariamente cruente (Sez. 1, 8069/2010). In modo corrispondente, pur se concettualmente distinto, è anche da specificare che la circostanza aggravante dell’eversione dell’ordine democratico non può identificarsi nel concetto di una qualsiasi azione politica violenta, non potendo essa, d’altro canto, rappresentare un’endiadi della finalità di terrorismo, ma va necessariamente identificata nel sovvertimento del basilare assetto istituzionale e nello sconvolgimento del suo funzionamento, ovvero nell’uso di ogni mezzo di lotta politica  caratterizzato o meno dall’uso della tradizionale violenza  che sia in grado di rovesciare il sistema democratico previsto dalla Carta costituzionale, destabilizzando i pubblici poteri e minando le comuni regole di civile convivenza, sul piano strutturale e funzionale, anche qui con la rilevante precisazione che la finalizzazione dell’azione verso l’obiettivo eversivo risulti perseguita con mezzi oggettivamente idonei a mettere in pericolo la vita della democrazia e a ledere l’effettiva vigenza dei suoi principi (in questo senso, in particolare, Sez. 5,  25428/2012).

Lo sbocco coerente dell’analisi compiuta è che la circostanza aggravante, per essere comprovatamente sussistente, deve essere ancorata ad una condotta caratterizzata, anche per modalità attuative, dalla percepibile finalizzazione al terrorismo, ossia palesarsi come tale da poter arrecare, per la natura dell’azione e/o per il contesto in cui essa si inscriveva, grave danno al Paese, ovvero essere volta, sempre considerato il contesto oggettivo e soggettivo in cui si inseriva, alla sostanziale deviazione eversiva dai principi regolatori dell’essenza della vita democratica (Sez. 1, 7203/2018).