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Art. 377 - Intralcio alla giustizia (1)

1. Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell’attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi (2).

2. La stessa disposizione si applica qualora l’offerta o la promessa sia accettata, ma la falsità non sia commessa.

3. Chiunque usa violenza o minaccia ai fini indicati al primo comma, soggiace, qualora il fine non sia conseguito, alle pene stabilite in ordine ai reati di cui al medesimo primo comma, diminuite in misura non eccedente un terzo (3).

4. Le pene previste ai commi primo e terzo sono aumentate se concorrono le condizioni di cui all’articolo 339 (4).

5. La condanna importa l’interdizione dai pubblici uffici.

(1) Rubrica così sostituita dall’art. 14, L. 146/2006.

(2) Comma prima sostituito dall’art. 11, DL 306/1992 convertito in L. 356/1992, e poi così modificato dall’art. 22, L. 397/2000 e dall’art. 10, comma 8, L. 237/2012.

(3) Comma aggiunto dall’art. 14, L. 146/2006.

(4) Comma aggiunto dall’art. 14, L. 146/2006.

Rassegna di giurisprudenza

La fattispecie di “intralcio alla giustizia” ha sostituito la precedente figura di reato della subornazione, prevista dal previgente art. 377, modificandone il nomen juris e sottoponendo a pena, oltre all’ipotesi originaria della promessa o offerta di denaro o altra utilità, comportamenti di violenza o minaccia. È rimasta pertanto inalterata la struttura della fattispecie di reato di pericolo, ovvero a “consumazione anticipata” (di guisa da non consentire la configurabilità del tentativo) (SU, 37503/2002; Sez. 6, 34667/2016).

Ne consegue quindi, avendo riguardo anche all’ipotesi di cui al terzo comma dell’art. 377, che è irrilevante che l’azione realizzi o meno un effettivo condizionamento delle dichiarazioni del destinatario dell’azione aggressiva o intimidatoria, in quanto la norma intende realizzare una tutela anticipata del bene giuridico dell’amministrazione della giustizia.

Quel che rileva quindi è che la condotta al momento in cui fu resa sia potenzialmente “idonea” - in base ad un giudizio ex ante - a raggiungere il suo scopo. Va inoltre rammentato, ai fini della configurabilità del reato, che la qualità di “persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria” nel processo penale si assume nel momento dell’autorizzazione del giudice alla citazione della stessa in qualità di testimone, ai sensi dell’art. 468, comma 2 CPP (Sez. 6, 45002/2018).

La fattispecie disciplinata dall’art. 377 tutela il corretto svolgimento dell’attività processuale e però in relazione a condotte provenienti da soggetti sui quali grava l’obbligo di rispondere, condotte volte a pregiudicare  per effetto dei comportamenti a tal fine indicati dalla norma  la serena acquisizione delle dichiarazioni di costoro (v. la citata sentenza n. 40759/2016). La figura criminosa in esame richiede che la condotta del soggetto agente, pur non accettata dal destinatario, sia antecedente alle sue dichiarazioni (Sez. 6, 39280/2018).

Ricorre il delitto di intralcio alla giustizia nel caso di chi compie pressioni e minacce sulla persona che abbia reso dichiarazioni accusatorie nella fase delle indagini preliminari al fine di indurla alla ritrattazione nella medesima fase ovvero in prospettiva del successivo dibattimento (Sez. 6, 17665/2016).

Il reato di intralcio alla giustizia, introdotto dalla L. 146/2006, si perfeziona con il compimento dell’azione minacciosa o violenta, purché volta ad indurre il soggetto a compiere uno dei delitti di cui agli artt. 371-bis, 371-ter, 372 o 373, sempre che il fine non sia conseguito. Con riguardo a soggetto che abbia assunto veste di testimone il fine deve dunque aver ad oggetto il compimento del delitto di falsa testimonianza.

Si tratta di fattispecie che si sovrappone, con riguardo all’ipotesi dell’assunzione della veste di testimone e di quella ad essa connessa di pubblico ufficiale, all’ipotesi di reato di cui all’art. 336 in relazione alla violenza o minaccia esercitata per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai suoi doveri: peraltro il vigente art. 377, comma terzo, risulta connotato da elementi specializzanti e dalla previsione di una pena potenzialmente più elevata (la pena prevista per il reato consumato di falsa testimonianza deve essere ridotta in misura non eccedente un terzo, cosicché la pena massima per il reato in esame può essere di poco inferiore ad anni sei, mentre l’art. 336 prevede una pena massima di anni cinque), fermo restando che la previsione, come circostanza aggravante, delle condizioni di cui all’art. 339 conferma l’inquadramento della fattispecie all’interno della stessa materia, agli effetti dell’art. 15, con la conseguenza che all’art. 377, comma terzo, è ora necessario fare riferimento, anche nel caso in cui la condotta sia rivolta contro chi abbia assunto veste di testimone.

Sotto altro profilo deve osservarsi che rileva di per sé il momento in cui la minaccia o la violenza intervengano, purchè idonee a conseguire il fine perseguito: è perciò inconferente che la violenza o la minaccia, com’è fenomenicamente più frequente, siano poste in essere in modo riservato, prima della deposizione, ovvero che intervengano mentre questa è in corso. Va inoltre rimarcato che il delitto di falsa testimonianza non è integrato di per sé da dichiarazioni non corrispondenti al vero, bensì da dichiarazioni contrarie a ciò che forma oggetto della consapevolezza del testimone. Corrispondentemente, il reato di intralcio alla giustizia sussiste in quanto la condotta sia volta ad indurre il teste a rendere una deposizione diversa da quella che egli avverte come corrispondente al vero (Sez. 6, 27108/2017).

Il delitto di cui all’art. 377 è integrato da qualsiasi condotta minacciosa posta in essere al fine  non raggiunto  di far commettere al soggetto passivo uno dei reati indicati nel primo comma del predetto art. 377, indipendentemente dalla gravità della minaccia (Sez. 2, 14519/2018).

Il reato previsto dall’art. 377-bis è un reato di evento: la condotta deve infatti produrre il risultato che il soggetto indotto rinunci effettivamente a rendere dichiarazioni, ovvero renda effettivamente dichiarazioni mendaci all’attività giudiziaria. In particolare, quanto al risultato cui deve tendere la condotta, possono distinguersi un evento immediato, psicologico, cioè la induzione derivante dalla condotta in questione e un evento processuale, per così dire esterno, che manifesta e consuma il reato e che attiene al silenzio od alla falsa dichiarazione della persona chiamata davanti all’autorità giudiziaria.

L’evento, si è osservato in dottrina, costituisce il risultato di una fattispecie complessa, che non si esaurisce nella mera induzione del soggetto chiamato, in quanto è necessario anche che costui venga chiamato dall’autorità giudiziaria e, ottemperando alla condotta illecita, provochi la contaminazione processuale indotta con violenza o minaccia (o con la promessa o offerta di denaro o altra utilità).

Trattandosi di un reato d’evento, la giurisprudenza di legittimità non dubita della configurabilità del tentativo. Il tema attiene tuttavia alla necessità di individuare il momento minimo, penalmente rilevante ai sensi dell’art. 56, per la configurabilità del tentativo e cioè, se, ai fini anche della configurabilità della fattispecie tentata, sia necessario che la qualifica di soggetto “chiamato” sussista già al momento dell’induzione (quale effetto dei comportamenti tipizzati nella prima parte della norma in esame) ovvero assuma rilievo di per sé la condotta causale della induzione e si possa prescindere dalla qualità soggettiva “dinamica” di chiamato. In una fattispecie caratterizzata dall’abuso del diritto penale sostanziale a fini processuali, la Corte di cassazione ha in maniera condivisibile ritenuto di individuare il “minimum” perché la condotta delineata dall’art. 377-bis possa assurgere a rilevanza penale in quello che si è definito il momento dinamico della posizione soggettiva qualificata, vale a dire l’effettiva chiamata del soggetto a rendere dichiarazioni all’autorità giudiziaria.

In tal senso si spiega l’affermazione secondo cui quello previsto dall’art. 377-bis è un reato “proprio” con riferimento al destinatario della condotta; il reato si consuma solo in quanto – oltre che chiamato davanti all’autorità giudiziaria – tale soggetto – nei  cui confronti non grava l’obbligo di rispondere, ricorrendo altrimenti la fattispecie di cui all’art. 377 nel caso in cui si superi l’anticipata consumazione prevista da tale norma – sia in grado di rendere dichiarazioni utilizzabili nel procedimento.

Dunque, nella stessa norma incriminatrice (art. 377-bis) è strettamente tipizzata l’idoneità della condotta rispetto ad un evento di danno (il non rendere dichiarazioni o il rendere dichiarazioni mendaci) in relazione al quale la qualità soggettiva processuale di persona chiamata riveste un ruolo determinante, che diviene anzi condizione necessaria per l’ipotizzabilità stessa della fattispecie.

Dunque, l’uso del participio passato  persona chiamata  esclude dall’ambito di operatività della norma i dichiaranti con diritto al silenzio che al momento della condotta, sono in astratto chiamabili ma non chiamati, possono cioè solo in via eventuale essere chiamati a rendere dichiarazioni davanti all’AG; per le ipotesi di coazione del soggetto potenzialmente chiamato con facoltà di non rispondere, potrebbero infatti al più soccorrere, sussistendone i presupposti e fatta salva la rilevanza penalistica della reiterazione delle pressioni dopo la formale chiamata, le ipotesi di cui agli artt. 610 e 611.

Ad avallare tale interpretazione soccorre, sotto altro profilo, anche una lettura sistematica e comparativa dell’art. 377-bis in relazione al reato previsto dall’art. 377 la circostanza che nel delitto a consumazione anticipata sia richiesta la detta qualità soggettiva, appare la più significativa conferma che la fattispecie tentata di cui all’art. 377-bis debba dirigersi verso un soggetto che riveste quella qualità, giungendosi altrimenti alla contraddittoria conclusione che la previsione dell’art. 377, quale reato che si arresta molto al di là della soglia dell’evento (si è in presenza di un’ ipotesi di istigazione non accolta eccezionalmente punibile) resta designata dalla posizione qualificata, mentre la fattispecie di reato ad evento che si arresti alla forma tentata può prescindere dall’assunzione di tale qualità (Sez. 6, 991/2019).

Il reato di cui all’art. 377, comma 2 tutela il corretto svolgimento dell’attività processuale, in relazione a condotte volte a pregiudicare  mediante offerta o promessa di danaro o altra utilità, ovvero violenza o minaccia  la serena acquisizione delle dichiarazioni di soggetti sui quali grava l’obbligo di rispondere (Sez. 6, 10129/2015). L’intralcio alla giustizia presuppone che l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, volta al condizionamento delle dichiarazioni dei testimoni o delle attività dei soggetti muniti di competenze tecniche da sentire nel processo, «non sia accettata» (comma 1), ovvero che, «qualora l’offerta o la promessa sia accettata», «la falsità non sia commessa» (comma 2).

Alla luce del lineare dato normativo, la condotta è punita a condizione che l’attività di condizionamento  utilitaristico o coercitivo  non vada a buon fine: si tratta invero di un reato di pericolo teso a realizzare una tutela anticipata del bene giuridico dell’amministrazione della giustizia. Come hanno osservato anche le Sezioni unite, «sotto la rubrica di “intralcio alla giustizia”, l’art. 377 configura, al comma 1, come reato l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, non accettata, per commettere taluni delitti contro l’amministrazione della giustizia: derogando, con ciò, al generale principio per cui l’istigazione non accolta a commettere un reato non è punibile (art. 115)» (SU, 51824/2014). Diversamente, ricorre l’ipotesi sanzionata dagli artt. 319-ter e 321 allorquando l’agente abbia consegnato o promesso denaro o altre utilità «per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo».

Fattispecie pacificamente ravvisabile nel caso in cui la dazione sia rivolta al teste o al perito affinché questi renda una falsa testimonianza o una falsa perizia, in quanto il testimone o il perito, che partecipa alla formazione della volontà del giudice, riveste, sin dal momento della sua citazione, la qualità di pubblico ufficiale ex art. 357. Tirando le fila delle considerazioni sopra svolte, la linea di demarcazione fra le due fattispecie in parola dipende proprio dal fatto che la condotta induttiva sia andata o meno a buon fine e che il testimone o il perito siano stati in concreto condizionati nel loro operato (Sez. 6, 19496/2018).

La condotta volta a concordare versioni con persone da sentirsi dagli inquirenti, a prescindere dalla astratta configurabilità dei reati di cui agli art. 377 e 377-bis, che hanno sostituito la previgente fattispecie di subornazione, ben può assumere le caratteristiche del fatto gravemente colposo co-induttivo dell’autorità giudiziaria procedente in errore (Sez. 4, 22642/2017).