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Concorso esterno in associazione mafiosa: le più recenti puntualizzazioni giurisprudenziali

Parte seconda
Lecce
Ph. Antonio Capodieci / Lecce

2.4. Il procedimento Dell’Utri: “l’imputazione che non c’è”[1]

Nel 2012, a distanza di sette anni dalla sentenza Mannino, la Corte di cassazione[2] giudicò il ricorso di Marcello Dell’Utri e del PG di Palermo contro la sentenza della Corte di appello palermitana che aveva riconosciuto l’imputato responsabile di concorso esterno (in associazione a delinquere fino al 28 settembre 1982 e in associazione mafiosa da quella data in avanti.

Il collegio, dopo aver ritenuto dimostrata la responsabilità dell’imputato a titolo di concorso esterno in associazione a delinquere fino al 1977 (con conseguente formazione del giudicato interno sul punto), dichiarò inammissibile il ricorso del PG e annullò con rinvio la sentenza impugnata, demandando al giudice del nuovo giudizio di verificare se a Dell’Utri potesse addebitarsi il concorso esterno per il periodo tra il 1978 e il 1982 (periodo in cui non aveva lavorato per il gruppo FININVEST) e se lo stesso reato potesse ravvisarsi nel periodo successivo sotto il profilo soggettivo.

Non è tuttavia il contenuto della decisione di legittimità che interessa osservare quanto piuttosto la requisitoria scritta del PG di udienza.

È un atto confezionato in modo insolito, certamente assai distante dalla prassi abituale.

È un flusso di pensieri - rigorosamente formulati, s’intende – ma insieme una rivendicazione di libertà dalle tante costrizioni che un giudizio del genere (nel quale ogni elemento, l’imputato e il suo referente politico, un’imputazione così simbolica e identitaria, l’esigenza della lotta al crimine organizzato mafioso, ha un’elevata capacità di catalizzazione mediatica) potrebbe indurre in coscienze meno disposte ad abbandonare i rassicuranti percorsi già tracciati.

Il PG si scrollò di dosso ognuna di quelle costrizioni e disse ciò che pensava[3].

Parlò di molte cose.

Di un’imputazione che non c’era per quanto la si cercasse, costruita come elencazione di elementi acquisiti nelle indagini e non come testo linguistico.

Dell’alterazione insanabile che una simile tecnica aveva implicato al giudizio, impedendo ai decisori di seguire l’ordine fisiologico di ogni sentenza (imputazione>motivazione>decisione) e costringendoli a creare essi stessi l’imputazione come conseguenza della motivazione la quale, a sua volta, non essendo nutrita di fatti sintetizzati in un’imputazione, diventava liquida e vanamente assertiva (e quindi motivazione>imputazione>decisione o addirittura, in ipotesi estreme, decisione>motivazione>imputazione).

Di un concorrente esterno accusato di essere tale per avere agevolato l’estorsione al suo dominus ma non chiamato a rispondere della stessa estorsione, così determinandosi un’accusa indeterminata e un deficit di tipizzazione della condotta contestata.

Di una fattispecie, quella del concorso esterno in associazione mafiosa, “intrinsecamente vaga” e dalla “tipicità sfuggente”, “di fatto una creazione giurisprudenziale”, “un reato autonomo creato dalla giurisprudenza. Che prima lo ha creato, usato e dilatato. E ora lo sta progressivamente restringendo fino a casi marginali.  In cassazione sono ormai rare le condanne definitive per concorso esterno. Dall’entusiasmo allo scetticismo. Ormai non ci si crede più”, che proprio per questo non poteva tollerare l’ulteriore compromissione derivante da una contestazione in fatto.

Delle tante e confliggenti e spesso non riscontrate interpretazioni offerte dalla sentenza impugnata circa il contenuto concreto asseritamente offerto dall’imputato.

Dell’insostenibilità della configurazione del concorso come reato permanente.

Della conseguente necessità di annullare con rinvio la sentenza impugnata per vizio di motivazione.

Tutto questo si poté leggere nella requisitoria del PG d’udienza che, del resto, non era nuovo a épater le bourgeois[4].

Il giudizio si concluse come detto.

Seguì il nuovo dibattimento di secondo grado imposto dal rinvio e il 25 marzo 2013 la Corte di appello di Palermo condannò Dell’Utri a sette anni di reclusione, confermando il verdetto che era stato annullato nel 2012.

L’imputato fece nuovamente ricorso per cassazione ma questa volta l’esito fu il rigetto[5].

Per ciò che qui interessa, i giudici di legittimità aderirono all’impostazione della sentenza Mannino ed esclusero che il concorso esterno fosse ipotizzabile solo nelle fasi di fibrillazione della vita associativa.

 

2.5. L’incursione della Corte europea dei diritti umani: Contrada c. Italia[6]

Il 14 aprile 2015 la quarta sezione della Corte europea dei diritti dell'uomo (di seguito Corte EDU) emise la sentenza[7] che decideva la questione giuridica posta dal ricorrente Bruno Contrada.

Questi aveva rappresentato di essere stato condannato nel 1996 dal Tribunale di Palermo alla pena di dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, per avere, strumentalizzando la sua qualità di alto dirigente della Polizia di Stato e capo di gabinetto dell'alto commissario per la lotta alla mafia, contribuito alla realizzazione degli scopi illeciti di Cosa nostra.

Il giudizio di secondo grado, provocato dall'impugnazione dell'imputato e della pubblica accusa, fu definito a maggio del 2001 dalla Corte di appello di Palermo con esito favorevole per il Contrada che fu assolto per insussistenza del fatto.

Adita dal ricorso del Procuratore generale competente, la Corte di cassazione con sentenza del 12 dicembre 2002 annullò con rinvio la sentenza d'appello.

Con sentenza del 25 febbraio 2006 la Corte di appello di Palermo, giudice del rinvio, confermò la decisione di condanna emessa in primo grado.

Il Contrada ricorse e la sua impugnazione fu respinta dalla Corte di Cassazione con sentenza dell'8 gennaio 2008.

L'interessato non desistette e si rivolse alla Corte di appello di Caltanissetta chiedendo la revisione del processo.

La Corte respinse l'istanza con sentenza del 24 settembre 2011 e uguale esito negativo, con sentenza del 25 giugno 2012, ebbe pure il successivo ricorso per cassazione contro la decisione giudici nisseni.

Esaurito ogni possibile mezzo di impugnazione interno, il Contrada si rivolse ai giudici europei dei diritti umani, lamentando di essere stato condannato per una condotta la cui qualificazione in termini di concorso esterno non era prevedibile al momento in cui fu tenuta, poiché solo in un periodo successivo la giurisprudenza nazionale era giunta a un'interpretazione stabile su quella fattispecie.

La Corte EDU respinse anzitutto tutte le eccezioni di irricevibilità formulate dagli agenti dello Stato convenuto.

Iniziato l'esame delle proposizioni di merito, precisò che il proprio compito nel caso di specie era di stabilire se la normativa vigente all'epoca dei fatti contestati al Contrada definisse con chiarezza il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e se quindi il ricorrente potesse conoscere le conseguenze penali della sua condotta.

La Corte constatò di seguito, confutando sul punto la tesi contraria degli agenti del Governo italiano, che solo a partire dal 5 ottobre 1994, in conseguenza della sentenza Demitry delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione, era stata ammessa esplicitamente l'esistenza del reato per il quale il Contrada era stato condannato.

Rilevò di conseguenza che nel periodo in cui il ricorrente aveva tenuto la condotta incriminata (1979/1988) la giurisprudenza nazionale, pur avendo in più occasioni avallato la legittimità di quella fattispecie incriminatrice, non era ancora giunta al riguardo a un indirizzo interpretativo che soddisfacesse gli indispensabili requisiti di chiarezza e prevedibilità del precetto e dei suoi effetti.

La Corte affermò conclusivamente che lo Stato italiano aveva violato in danno di Bruno Contrada l'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Si sottolinea, per l’estrema pertinenza del dato all’oggetto di questo scritto, che nel paragrafo 66 della sentenza la Corte constatò che “non è oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale”.

 

2.6. La rocciosa resistenza nazionale alla decisione di Strasburgo: Italia c. Contrada e Italia c. “fratelli” di Contrada

La sentenza strasburghese non era di quelle destinate a passare inosservate.

Una vicenda giudiziaria altalenante, un protagonista che aveva rivestito ruoli pubblici di grande rilievo, una fattispecie incriminatrice controversa.

C'era dunque da attendersi un confronto non facile e neanche scontato tra la visione europea da cui è scaturita la sentenza Contrada e quella che avrebbe manifestato la giurisprudenza interna.

Chi avesse voluto azzardare una previsione poteva contare su elementi tutt'altro che univoci.

C'era un florilegio di sentenze e di posizioni dottrinali espressive di un ossequio formale all'idea di un nuovo ius commune europeo fondato su tutele avanzate, su sofisticati standard garantistici e sulla priorità assoluta da riconoscere alle libertà umane essenziali.

Così si legge ad esempio nell'analisi di fine 2011, curata dall'ufficio del massimario della Corte di cassazione, del rapporto tra la nostra giurisprudenza di legittimità e quella della Corte EDU:

Un continuo intrecciarsi di “rimandi” interni sembra connotare, in particolare, i rapporti fra la Corte Suprema di Cassazione e la Corte europea dei diritti dell’uomo, alimentandone così intensamente le possibilità di “dialogo”, sino a ritenere oramai non più revocabile in dubbio “che sia patrimonio comune della scienza giuridica, della giurisprudenza costituzionale e di legittimità la “forza vincolante” delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo, sancita dall’articolo 46 della Convenzione, là dove prevede che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti.

Un'idea, quella del dialogo e della serena coesistenza delle tutele, condivisa da autorevoli studiosi:

La logica del diritto internazionale dei diritti umani è sempre quella della massimizzazione delle tutele: come recita a chiare lettere l’art. 53 CEDU “nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciute in base alle leggi di ogni Parte contraente o in base a ogni altro accordo al quale essa partecipi”. Se, dunque, l’ordinamento italiano prevede che soltanto la lex parlamentaria – o atti aventi forza equiparata – siano legittimati a porre in essere norme penali, questa garanzia resta impregiudicata dall’art. 7 CEDU, che semplicemente si aggiunge alle garanzie costituzionali[8].

Non si trattava peraltro soltanto di parole.

L’11 dicembre 2015, infatti, si incontrarono a Strasburgo Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di Cassazione, e Guido Raimondi, presidente della Corte EDU.

Nell’occasione fu stipulato un protocollo di intesa finalizzato a diffondere e favorire lo scambio della giurisprudenza anche ai fini di una migliore e costante attuazione della CEDU e una più agevole inclusione della giurisprudenza della Corte dei diritti umani nell’ordinamento nazionale.

Al protocollo seguì, nelle giornate del 26 e 27 maggio 2016, un incontro di verifica e aggiornamento tra una delegazione della Corte di Cassazione e una della Corte di Strasburgo.

Dal report redatto dopo l'incontro, disponibile sul sito web istituzionale della Corte Suprema, si ricava che fu oggetto di discussione anche la sentenza Contrada.

Una discussione che servì tuttavia a metterne in luce la problematicità più che le concrete prospettive applicative.

Si legge infatti nel documento che

Il tema [il riferimento va inteso alla ragionevolezza dell'interpretazione della legge penale – NDA], riproposto in sede europea dalla decisione 14 aprile 2015 della Corte europea, Contrada c. Italia, purtroppo non trova in questa sentenza adeguata soluzione, dal momento che essa (par. 66), a torto o a ragione, muove dal presupposto che il concorso esterno nel delitto di cui all'art. 416-bis sia "un reato di origine giurisprudenziale". Cogliendo la fonte dell'incriminazione nella giurisprudenza, la sentenza allora non affronta direttamente i temi collegati alle ordinarie oscillazioni dell'interpretazione del dato normativo che pure sia ragionevolmente suscettibile di ricevere la lettura poi magari accolta, in sede di composizione del contrasto giurisprudenziale, dalle Sezioni Unite. Pare dunque che laddove la lettera della legge consenta di prevedere, secondo razionali criteri di interpretazione del significato, l'esito sfavorevole per l'imputato, questi non possa ragionevolmente avvantaggiarsi di diverse valutazioni operate in altri casi”.

Accanto agli ossequi formali, al “continuo intrecciarsi di rimandi” e “alla forza vincolante delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti umani”, si collocarono dunque, sia prima che dopo la sentenza Contrada, tutti i distinguo di cui il nostro dibattito giuridico è capace e, sullo sfondo, la tradizionale difficoltà a cedere anche solo in minima parte la nostra “sovranità giurisprudenziale”.

L'aspettativa del confronto difficoltoso non fu dunque smentita e anzi non sembra esagerato descrivere la reazione degli interpreti nazionali in termini di scarso entusiasmo o addirittura di aperta contestazione: Italia c. Contrada, viene da dire.

Un rapido excursus giurisprudenziale ne darà la conferma.

A distanza di appena sei giorni dalla sentenza Contrada, la Corte di cassazione[9] rigettò per manifesta infondatezza una questione di legittimità costituzionale degli artt.  110 e 416-bis c.p. per asserito contrasto con gli artt. 25, comma 2, e 117, Cost., in connessione all’art. 7 CEDU.

Il collegio, chiamato a verificare l’impatto nella giurisdizione interna dei principi affermati nella pronuncia di Strasburgo, dissentì esplicitamente dalla premessa della Corte EDU, secondo la quale il reato di concorso esterno si risolveva in una creazione giurisprudenziale.

Si disse al contrario convinto, rifacendosi all’opinione manifestata dalla Consulta nella sentenza 48/2015, che tale fattispecie incriminatrice era semplicemente il frutto dell’uso congiunto di una norma incriminatrice di parte speciale con la norma che regola il concorso di persone sicché non era dato rilevare alcuna violazione del principio di legalità e, ancor prima, non ricorreva un esempio di creazione giurisprudenziale.

Le cose non cambiarono nel 2016 ed anzi il principio della derivazione legislativa del concorso esterno trovò nuove conferme[10].

Risposta ugualmente negativa ebbe un quesito collaterale, se cioè la sentenza Contrada fosse idonea a mutare la sorte di procedimenti definiti con sentenza irrevocabile per fatti assimilabili a quelli attribuiti al Contrada stesso e, in ipotesi, quale fosse lo strumento più opportuno per ottenere l’effetto perseguito.

Il caso probabilmente più noto fu quello riguardante Marcello Dell’Utri[11]

L’interessato, dopo la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti commessi prima del 1994, inoltrò alla Corte un ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p. chiedendo la revoca della sentenza in applicazione dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo. Il ricorso fu dichiarato inammissibile per difetto dei presupposti legittimanti, non essendo stato riscontrato e neanche dedotto alcun errore di fatto nella sentenza impugnata. Non fu quindi necessario che il collegio decidente si confrontasse con la questione centrale degli effetti prodotti nell’ordinamento interno dalla sentenza Contrada.

Il Dell'Utri insistette, tentando in seconda istanza la carta dell’incidente di esecuzione ma non ebbe miglior sorte. Sia la Corte territoriale che la Corte suprema[12] conclusero nel senso dell’inammissibilità.

Fu ammessa senza tentennamenti la rilevanza delle decisioni della Corte EDU anche per situazioni esterne identiche a quella decisa, sempre che fossero state affermate, esplicitamente (in applicazione dell’art. 61 del Regolamento della Corte) o implicitamente, la natura generale della fonte della violazione e la necessità di misure riparatorie collettive.

Si ritenne comunque indispensabile, ove la violazione fosse stata invocata da soggetti diversi dal ricorrente in sede europea e dipendesse dall’applicazione di una norma di legge, stimolare un incidente di legittimità costituzionale della medesima per violazione dell’art. 117 Cost.

Solo di seguito, se la questione fosse stata accolta e la norma dichiarata incostituzionale, sarebbe stato possibile chiedere la revisione del giudicato, ove occorresse una nuova cognizione di merito, o proporre un incidente di esecuzione negli altri casi.

Nel caso di specie, il collegio di legittimità ritenne che le condizioni presupposte per l’ammissibilità dell’incidente di esecuzione difettassero: la decisione di Strasburgo non poteva essere considerata un leading case di portata generale, le vicende processuali non erano identiche, la questione non poteva essere risolta in sede esecutiva poiché richiedeva scelte discrezionali tra differenti possibili opzioni, come tali precluse al giudice dell’esecuzione.

Dal canto suo Bruno Contrada ebbe sì una sorte più favorevole del Dell'Utri, ma solo dopo aver superato ostacoli di non poco conto.

Dopo l’esito positivo del ricorso a Strasburgo, si rivolse al giudice interno, nella specie la Corte di appello di Caltanissetta, chiedendo la revisione del processo.

Il giudice adito, con sentenza del 18 novembre 2015, respinse la richiesta.

Questa, testualmente, è la premessa da cui partì la Corte nissena:

al di là […] delle suggestioni polemiche e delle esigenze di rafforzamento argomentativo che tali formulazioni possono esprimere, parlare di ‘inesistenza del reato’ e di ‘mera creazione giurisprudenziale’ del concorso esterno, per sintetizzare i contenuti della decisione della Corte EDU, costituisce se non un vero e proprio errore giuridico quantomeno una disinvolta forzatura tecnica.

La Corte identificò quindi un solo profilo valutabile ai fini della revisione e cioè

se Contrada all’epoca in cui attuava le condotte accertate a suo carico poteva conoscere dell’esistenza di tale reato. Ciò appare sufficiente perché nella medesima vicenda oggetto della sentenza della Corte EDU ad essa ci si conformi.

La conclusione, negativa per l’interessato, dipese dalla constatazione che costui

per il suo particolare ruolo, non poteva certo avere bisogno di attendere le sezioni unite Demitry, visto che il c.d. maxiprocesso di Palermo […] celebrato nel corso degli anni ’80 del secolo scorso subito dopo l’introduzione della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., aveva affrontato la questione della configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa; e nei confronti di diversi imputati era stata elevata una tale contestazione anche sulla scorta delle indagini degli uffici di cui Contrada faceva parte.

Contrada ricorse per cassazione contro la decisione nissena e il suo ricorso venne dichiarato inammissibile per rinuncia dell'interessato[13].

Nel frattempo aveva anche promosso un incidente di esecuzione dinanzi la Corte di appello di Palermo, definito l'11 ottobre 2016 con un'ordinanza di rigetto.

Seguì un nuovo ricorso per cassazione e questa volta i giudici di legittimità misero la parola fine alla lunga vicenda giudiziaria dichiarando ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna stigmatizzata da Strasburgo, dopo aver riconosciuto che l'incidente di esecuzione era lo strumento correttamente azionabile per rimuovere gli effetti negativi derivanti da una sentenza definitiva emessa in violazione dell'art. 7 CEDU[14].

Altro fuoco covava tuttavia sotto la cenere e il dibattito giurisprudenziale era tutt’altro che cessato.

Si negò ancora[15] l’origine giurisprudenziale del concorso esterno in associazione mafiosa.

Fu respinta[16] la domanda di revisione europea proposta da Marcello Dell’Utri, essendosi ritenuto che la decisione Contrada c. Italia non avesse valenza generale e non esprimesse una linea interpretativa consolidata.

Fu rigettato per la stessa ragione il ricorso[17] presentato da tale Stefano Genco contro il provvedimento del giudice dell'esecuzione che aveva respinto la sua richiesta di revoca del giudicato di condanna.

Da ultimo, nell’ambito di un giudizio riguardante lo stesso Genco, la sesta sezione penale della Corte suprema, ai sensi dell'art. 618 c.p.p., ha rimesso alle Sezioni unite il quesito che segue:

se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna; e, conseguentemente, laddove sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile[18].

La vicenda sottostante al giudizio può essere così sinteticamente descritta: il ricorrente era stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti esauritisi all'inizio di febbraio del 1994; si era di seguito rivolto alla Corte di appello competente chiedendo la revisione del processo sulla base della sentenza 113/2011 della Consulta la quale aveva dichiarato incostituzionale l'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva la possibilità di revisione della sentenza di condanna e quindi la riapertura del processo quando fossero necessarie per la conformazione del giudizio ad una sentenza definitiva della Corte EDU; aveva richiamato a tal fine la sentenza Contrada che, a suo dire, era applicabile in via generale anche a chi non si fosse rivolto alla Corte europea; in via subordinata il ricorrente aveva chiesto che il giudice adito sollevasse la questione di legittimità costituzionale del citato art. 630 nella parte in cui non legittimava a chiedere la revisione per conformazione alle pronunce definitive della Corte EDU anche coloro che fossero rimasti estranei al procedimento in sede europea; la Corte nissena rigettò la domanda, escludendo in particolare che la sentenza Contrada avesse la portata generale prospettata dal ricorrente; l'interessato ricorse per cassazione, proponendo le medesime argomentazioni alla base dell'istanza di revisione, arricchendole di ulteriori punti e chiedendo la rimessione della questione alle Sezioni unite così da disporre di un orientamento univoco al riguardo.

Il collegio rimettente ha ritenuto anzitutto necessario verificare la misura dell'adeguamento interno alla sentenza Contrada.

Ha così rilevato che il Dipartimento per l'esecuzione delle sentenze della Corte EDU, insediato presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, classifica la pronuncia come un leading case, cioè un caso che rivela l'esistenza di problemi strutturali o sistemici e che richiede pertanto l'adozione di misure generali tali da prevenire analoghe violazioni future e da esporre il nostro Paese a ricorsi seriali.

Ha inoltre accertato l'esistenza di un documento ufficiale del Governo italiano che esclude la necessità di tali misure poiché la sentenza Contrada non può essere considerata una pronuncia pilota, l'assunto ivi contenuto della creazione giurisprudenziale del reato di concorso esterno non è sostenibile, l'ordinamento nazionale prevede rimedi adeguati (l'istanza di revisione e l'incidente di esecuzione) a favore di chi si trovi in una condizione identica a quella del Contrada.

Da quel documento si ricava dunque che, a parere del Governo, la sentenza Contrada è il frutto di un duplice errore: di fatto (non rispondendo al vero che nel giudizio l'agente italiano avesse prestato acquiescenza alla tesi della derivazione giurisprudenziale del concorso esterno) e di diritto (non essendo vero che la fattispecie abbia tale derivazione).

Il collegio di legittimità ha a questo punto esposto le più significative tappe del percorso interpretativo pertinente alla questione sub iudice, ivi compreso quello ascrivibile alla Corte costituzionale.

Si è soffermato con particolare attenzione sui requisiti necessari, descritti proprio dalla Consulta, necessari per classificare come “diritto consolidato” o come caso pilota l'interpretazione contenuta nelle decisioni dei giudici di Strasburgo ed obbligare quindi il giudice nazionale a tenerne conto. Requisiti che non ricorrono quando vi sia il dubbio che la Corte EDU non abbia avuto a sua disposizione tutti gli elementi indispensabili per apprezzare i caratteri peculiari dell'ordinamento giuridico nazionale oppure quando emerga che l'orientamento espresso in una decisione non appartenga a un'interpretazione condivisa.

Analoga attenzione è stata riservata agli strumenti che l'ordinamento offre ai cosiddetti “figli minori” dei ricorrenti vittoriosi in sede europea, cioè a coloro che si trovino nella stessa condizione di questi ultimi ma senza avere promosso essi stessi ricorso.

Dopo quest'ampia premessa ricognitiva, il collegio ha affrontato il cuore della questione sollecitata dal ricorrente, rilevando a tal proposito l'esistenza di un conflitto inconciliabile.

Esso riguarda in primo luogo l'individuazione del parametro di base su cui si è fondata la sentenza Contrada e nasce dalla contrapposizione tra decisioni che lo individuano nella fonte del precetto penale, fatta per di più erroneamente coincidere con la giurisprudenza (tra le altre, la sentenza Esti) ed altre che invece lo riferiscono alla qualità della base legale (tra queste, la sentenza Dell'Utri).

Il collegio non nasconde di condividere questo secondo assunto ma al tempo stesso critica la sentenza che lo ha formulato perché, anziché limitarsi a prendere atto e trarne le dovute conseguenze, ha preferito collegare la prevedibilità della rilevanza penale del fatto a un profilo eminentemente soggettivo, addentrandosi per ciò stesso in temi che, se rilevanti per l'ordinamento interno, erano invece irrilevanti ai fini dell'applicazione estensiva della sentenza Contrada.

Il che è come dire che la sentenza dei giudici europei aveva evidenziato un deficit oggettivo della base legale della fattispecie incriminatrice e il giudice nazionale lo ha disperso in vane considerazioni sulla colpevolezza.

Nelle battute finali il collegio esplicita una proposta interpretativa:

Si prospetta quindi una terza opzione interpretativa, più vicina al dictum della Corte EDU, secondo cui la sentenza sul caso Contrada ha inteso censurare tout court la qualità della base legale della norma incriminatrice e della pena. Accedendo a tale interpretazione, ai cosiddetti "fratelli minori" di Contrada, sempre che si ritenga non necessario investire della questione la Corte costituzionale, si dovrebbe estendere il principio, secondo cui la fattispecie di concorso esterno delineata dagli artt. 110 e 416-bis cod. pen. non potrebbe più trovare applicazione per i fatti commessi prima del cristallizzarsi dell'interpretazione consolidata delle Sezioni Unite in materia, risalente al 1994.

Non nasconde tuttavia una precisa, forse anche preoccupata, consapevolezza:

Le ricadute della impostazione assunta dalla Corte EDU nel caso Contrada appaiono molto rilevanti, in quanto si prestano ad essere "esportate" ogni qualvolta sia presente un contrasto giurisprudenziale, poi risolto dalle Sezioni Unite (quale espressione del "diritto vivente"), dovendosi pertanto ritenere ragionevolmente imprevedibile qualunque condanna per fatti commessi prima del "consolidamento" della giurisprudenza sfavorevole al reo. E ciò indipendentemente dalla obiettiva oscurità o equivocità del precetto derivante dalla contrastante interpretazione giurisprudenziale che giustifichi la mancata rimproverabilità all'agente”.

La motivazione dell'ordinanza di rimessione si conclude con una riflessione sui rimedi più adatti per la conformazione alle sentenze della Corte EDU:

Dalla diversa ampiezza della portata della sentenza della Corte EDU sul caso Contrada discendono implicazioni non irrilevanti anche in ordine alla tipologia di rimedio utilizzabile per conformarsi ad essa. Infatti, aderendo all'orientamento "intermedio" accolto dalla sentenza Dell'Utri, resterebbe aperta la questione della esperibilità della revisione "europea" al di fuori dei casi direttamente esaminati dal giudice europeo, risultando l'opzione seguita dalla suddetta pronunzia anch'essa controversa e problematica, come si è esposto in precedenza. La sentenza Dell'Utri ha ritenuto che l'obbligo di introdurre strumenti di "riapertura" o di "riesame" delle sentenze definitive interne sia applicabile a tutti i casi in cui possa risultare necessario, nel caso concreto, il superamento del giudicato, per adeguarsi ad una violazione sostanziale accertata dalla Corte EDU, anche al di fuori dell'esecuzione specifica richiesta dalla sentenza europea”.

Le Sezioni unite[19] hanno risolto la questione chiarendo che

I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata”.

Al di là delle ragioni tecniche che sorreggono il punto di diritto, merita di essere rimarcata la straordinaria puntigliosità delle critiche che il massimo organo nomofilattico ha indirizzato alla pronuncia della Corte EDU.

Si esprime sorpresa per l’inedito rigore della sentenza e si intravede il ben diverso esito che il ricorso di Contrada avrebbe potuto avere se solo si fosse riconosciuta la giusta importanza alla funzione evolutiva dell’interpretazione giurisprudenziale:

Nel panorama delle decisioni della Corte dei diritti fondamentali l'inedito rigore col quale è stata risolta la vicenda  Contrada, che avrebbe conseguito un ben diverso epilogo, se soltanto fosse stata apprezzata alla luce del criterio soggettivo o di quello basato sulla considerazione sociale, si contraddistingue, oltre che per il metro di apprezzamento della prevedibilità, anche per il fatto di avere superato i rilievi in precedenza ed anche in seguito espressi sul necessario ruolo evolutivo e specificativo da assegnare all'interpretazione giurisprudenziale, quale fattore ineliminabile di progressiva chiarificazione delle regole legislative e di possibile violazione dell'art. 7 CEDU soltanto quando non congruente con l'essenza del reato e sviluppo non conoscibile rispetto alla linea interpretativa già affermata”.

Si critica come inadeguato e frutto di scorrette percezioni

il carattere peculiare della decisione in esame, condivisibilmente definito atipico o anomalo da parte della dottrina e meritevole di più attenta rielaborazione, anche perché basato su presupposti di fatto non correttamente percepiti: essa si inserisce in un contesto in cui, per la vocazione naturalmente casistica delle decisioni, risulta mutevole e di volta in volta diverso il criterio adottato per riconoscere la prevedibilità dell'esito giudiziario”.

Si affronta il cuore della questione e si sceglie la contrapposizione frontale con la decisione dei giudici europei dei diritti umani:

è singolare e non rispondente al reale contenuto delle decisioni adottate nel panorama giurisprudenziale interno sul tema del concorso esterno in associazione mafiosa, intervenute prima del 1994, l'affermazione circa la «creazione giurisprudenziale» della fattispecie. L'errore che vi si annida, indotto dalla concorde deduzione delle parti, non riguarda tanto l'individuazione del formante della regola applicata, pronuncia giudiziale in luogo di atto legislativo, che di per sé non si concilia col principio, proprio dell'ordinamento nazionale, di riserva di legge di cui all'art. 25, comma 2, Cost. e crea insormontabili difficoltà di adattamento al sistema di legalità interno, in cui la giurisprudenza ha soltanto una funzione dichiarativa (Corte cost., sent. n. 25 del 2019) e di cui la Corte europea pare non essersi avveduta, quanto piuttosto la totale pretermissione della considerazione della base legislativa dalla quale muoveva l'interpretazione poi accolta dalle Sezioni Unite Demitry. La configurabilità come reato del concorso esterno in associazione mafiosa non è stato l'esito di operazioni ermeneutiche originali e svincolate dal dato normativo, operate dalla giurisprudenza di legittimità ex abrupto in termini innovativi rispetto allo spettro delle soluzioni praticabili già affermate; al contrario, discende dall'applicazione in combinazione di due disposizioni già esistenti nel sistema codicistico della legge scritta, pubblicata ed accessibile a chiunque, ossia degli artt. 110 e 416-bis cod. pen”.

Si afferma che, qualunque orientamento fosse riuscito a prevalere, non sarebbero comunque venute meno l’incriminazione e la punizione di condotte come quella tenuta da Contrada:

Nella sentenza della Corte EDU non si rinviene nemmeno una posizione coerente con i suoi precedenti pronunciamenti quanto all'incidenza del contrasto interpretativo, attinente al solo profilo della qualificazione giuridica del fatto illecito, sulla reale capacità di previsione dell'esito giudiziario da parte del cittadino. Si è osservato da parte della dottrina, e si condivide il rilievo, che le divergenti definizioni giuridiche date al contributo dell'extraneus ed il numero limitato di opzioni alternative, individuate in giurisprudenza, rendevano conoscibile in via anticipata al momento del compimento della condotta la possibile adozione di una delle soluzioni in discussione, conducenti in ogni caso all'incriminazione ed alla punizione, senza che la stessa potesse manifestarsi quale effetto a sorpresa, quale risposta giudiziaria postuma, improvvisa ed inedita, tale da sorprendere l'affidamento del soggetto agente come formatosi al momento del compimento dei fatti, in cui erano già presenti segnali discernibili, anticipatori del realizzarsi dell'incriminazione e della punizione”.

Si esprime preoccupazione per le conseguenze negative che un’accentuazione del requisito della prevedibilità potrebbe generare a danno della libertà interpretativa del giudice di legittimità: 

un eccessivo irrigidimento del criterio della prevedibilità dell'esito processuale in senso oggettivo finirebbe per precludere alla Corte di cassazione, cui questa attività compete istituzionalmente, di individuare una nuova soluzione esegetica sfavorevole all'imputato, ma rispettosa dell'essenza del reato tipizzato dalla legge, quindi perfettamente ragionevole e coerente con il testo normativo, ciò solo per il suo carattere innovativo, per l'assenza di casi precedenti già risolti, o perché preceduta da contrasti sulla corretta lettura del testo stesso. Tanto comporterebbe una limitazione dei poteri decisori del giudice di legittimità”.

Preoccupazione tanto più legittima se si considera che occorre riconoscere al giudice

un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente 'creativa' della interpretazione, la quale, senza varcare la 'linea di rottura' col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima”.

Si completa così la demolizione della sentenza dei giudici europei dei diritti umani: Italia c. “fratelli” di Contrada.

Resta solo da dire, per completezza informativa, che qualche mese fa la Corte EDU ha dichiarato ammissibile il ricorso di Vincenzo Inzerillo, ex parlamentare democristiano condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti al 1994.[20]

Se i giudici europei adottassero anche in questo caso gli stessi parametri del 2015, la resistenza nazionale ad oltranza sarebbe di certo più complicata.

 

2.7. La sentenza Chioccini[21]: il ritorno all’antica

Di recente, le Sezioni unite penali sono state chiamate a chiarire se l’aggravante dell’associazione mafiosa inserita nell’art. 416-bis.1 c.p. abbia natura soggettiva o oggettiva.

Il collegio ha optato per la prima soluzione, inquadrando l’aggravante tra quelle inerenti ai motivi a delinquere.

La parte di interesse della sentenza Chioccini è quella, definita “delicata”, riservata alla ricostruzione dello spazio di autonomia tra la fattispecie aggravata dalla finalità agevolatrice ed il concorso esterno in associazione mafiosa”.

Il collegio argomenta così:

quel che caratterizza il concorrente esterno rispetto all'autore dell'illecito aggravato è che solo il primo ha un rapporto effettivo e strutturale con il gruppo, della cui natura e funzione ha una conoscenza complessiva, che gli consente di cogliere l'assoluta funzionalità del proprio intervento, ancorché unico, alla sopravvivenza o vitalità del gruppo. Inoltre perché possa dirsi realizzata la fattispecie delittuosa si richiede che si verifichi il risultato positivo per l'organizzazione illecita, conseguente a tale intervento esterno, che si caratterizza per la sua infungibilità. Non a caso elemento differenziale della condotta è l'intervento non tipico dell'attività associativa, ma maturato in condizioni particolari (la cd. fibrillazione o altrimenti definita situazione di potenziale capacità di crisi della struttura), che rendono ineludibile un intervento esterno, per la prosecuzione dell'attività. Rispetto allo sviluppo dello scopo sociale l'azione del concorrente esterno si contraddistingue da elementi di atipicità ed al contempo di necessarietà in quel particolare ambito temporale. Gli elementi costitutivi appena richiamati sono estranei alla figura aggravata, con cui condivide solo la necessità dell'esistenza dell'associazione mafiosa, mentre nella forma circostanziale l'utilità dell'intervento può essere anche valutata astrattamente solo da uno degli agenti, senza estensione ai componenti del gruppo, e del tutto estemporanea e fungibile rispetto all'attività delinquenziale programmata e, soprattutto, non necessariamente produttiva di effetti di concreta agevolazione”.

Queste argomentazioni non sono incluse nel punto di diritto strettamente inteso ma certo non se ne può sottovalutare l’importanza, non foss’altro che per la funzione dell’organo da cui provengono.

Spicca il ritorno all’antica, alla sentenza Demitry per l’esattezza, con la riproposizione della necessità del collegamento tra il contributo del concorrente esterno e la situazione di fibrillazione o crisi dell’associazione criminale.

 

[1] L’espressione virgolettata dà il titolo al paragrafo 2 dello schema della requisitoria scritta redatta dal PG d’udienza F. M. Iacoviello (pubblicata su Diritto Penale Contemporaneo il 9 marzo 2012). Il PG sintetizzò così le sue censure alla tecnica usata dalla pubblica accusa nella formulazione del capo di imputazione. È innegabile tuttavia che la frase abbia una valenza suggestiva più ampia, riferibile tout court alla fattispecie del concorso esterno come lo stesso PG rese chiaro in passaggi successivi della requisitoria, ed è in questo senso che la si ricorda qui.

[2] Cass. pen., Sez. V, 15727/2012.

[3] La singolarità della requisitoria e l’interesse delle sue argomentazioni attirarono l’attenzione di molti studiosi. Si segnalano tra questi G. Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, D. Pulitanò, La requisitoria di Iacoviello: problemi da prendere sul serio, V. Maiello, Luci e ombre nella cultura giudiziaria del concorso esterno,           P. Morosini, Il “concorso esterno” oltre le aule di giustizia, e C. Visconti, Sulla requisitoria del P.G. nel processo Dell’Utri: un vero e proprio atto di fede nel concorso esterno, tutti in Diritto Penale Contemporaneo, rivista trimestrale, 1/2012.

[4] È sempre di Iacoviello, in Il concorso esterno in associazione mafiosa, in Criminalia, 2008, p. 281, la frase “ora in questo Paese non sappiamo se non se ne può più della mafia o dei processi di mafia”.

[5] Cass. pen., Sez. I, 28225/2014.

[6] Il contenuto di questo paragrafo e di quello successivo è ricavato in massima parte da V. Giglio, Contrada e i suoi “fratelli”: le Sezioni unite chiamate a chiarire l’estensione applicativa della pronuncia di Strasburgo, in Filodiritto, 29 maggio 2019.

[7] Corte EDU, Sez. IV, Contrada c. Italia (n. 3), (Ricorso n. 66655/13), 14 aprile 2015.

[8] F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, pag. 13, in Diritto Penale Contemporaneo, 19 dicembre 2016.

[9] Cass. pen., Sez. II, 34147/2015.

[10] Cass. pen., Sez. II, 18132/2016.

[11] Cass. pen., Sez. V, 28676/2016.

[12] Cass. pen., Sez. I, 44193/2016.

[13] Cass. pen., Sez. V, 9439/2017.

[14] Cass. pen., Sez. I, 43112/2017.

[15] Cass, pen., Sez. I, 8661/2018.

[16] Cass. pen., Sez. IV, 27308/2019.

[17] Cass. pen. Sez. I, 13856/2019.

[18] Cass. pen., Sez. VI, 21767/2019.

[19] Sezioni unite penali, 8544/2020.

[20] La notizia è stata data tra gli altri da D. Aliprandi, Ok della CEDU al ricorso di un “fratello minore” di Bruno Contrada, in Il Dubbio News, 9 ottobre 2020.

[21] Sezioni unite penali, 8545/2020.