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Cossiga: politica e la mafia

Pertini e Cossiga
Pertini e Cossiga

[Sono trascorsi 10 anni dalla morte di Francesco Cossiga: vale la pena di ripercorrere alcune sue riflessioni tratte da “La versione di K. Sessant’anni di controstoria”, Rizzoli, 2009, estratto e grassetti scelti da Avv. Riccardo Radi]

 

Tra gli effetti della Guerra Fredda bisogna aggiungere anche il complicato rapporto tra la Dc e la mafia siciliana. Di questo rapporto, molto si è detto e molto si è immaginato. Forse troppo. Inchieste, romanzi, film, sceneggiati televisivi: quale vicenda collettiva ha conosciuto un racconto tanto ampio quanto ancora confuso nelle nebbie del dubbio e del sospetto?

Ciò nonostante, proverò ora a dire la mia sulla mafia, per quanto si possa comprendere un fenomeno che affonda le sue radici nella storia e nella cultura di un popolo; nella tradizione e ovviamente nel mito. Radici che ci riportino ai Beati Paoli, la setta medioevale di cui parlò anche il pentito Tommaso Buscetta: Abbiamo gli stessi giuramenti, gli stessi doveri»; oppure alla rivolta antifrancese dei (Vespri siciliani); o ancora più indietro nel tempo.

Un giorno Giovanni Falcone mi disse: «Anche la mafia è un fenomeno umano e in quanto tale riusciremo a sconfiggerla». Poi fu ammazzato. E il prefetto Emanuele de Francesco, nominato alto commissario tre giorni dopo la strage di Carini, dove furono ammazzati il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie e un agente di scorta, già mi apparve più scettico: <Se ci riusciremo non sarà prima di cinquant’anni».

A dimostrazione di quanto incerto possa essere anche il mio sapere sull’argomento, allora, farò subito una premessa. Nel giugno del 1979 si tennero le prime elezioni dirette del Parlamento europeo e il mio partito, la Dc, mi propose una candidatura nel collegio Sicilia-Sardegna. Ora, a parte il fatto che ho sempre ritenuto una bizzarria unire in un unico collegio elettorale due realtà tanto diverse, e prova ne è, detto in confidenza, che ancora oggi è assai difficile trovare un sardo che decida di andare in vacanza a Palermo o ad Agrigento; a parte questo, dicevo, la proposta non mi allettava affatto. Tanto più che era venuto a illustrarmela un tizio che mi fece uno strano discorso. Era un democristiano notoriamente contiguo alla mafia e si ostinava a darmi del tu. «Tu non devi preoccuparti di nulla» disse.

«Dovrai solo fare un comizio a Catania e uno a Messina, poi al resto pensiamo noi.» Al resto? Quale resto? Non mi era difficile immaginarlo. Ero già molto incerto se accettare o meno quella proposta, ma l’idea di vedermi impantanato in vicende poco chiare mi indusse subito a sciogliere la riserva in modo negativo. «Grazie, non mi interessa» risposi.

E infatti non se ne fece nulla.

Anche in questa complessa storia del rapporto tra la Dc e la mafia, comunque, c’è un inizio ben determinato. Un momento in cui la matassa comincia a ingarbugliarsi. E io credo di poterlo ricondurre al tempo dello sbarco degli americani. Vicenda nota, e dunque inutile da ripercorrere in tutti i dettagli. Basterà ricordare, però, che approdarono in Sicilia nel luglio del 1943 si servirono dei mafiosi: ne trassero, tanto per dirne una, informazioni utili sia per le operazioni militari sia, dopo, per quelle di governo del territorio. In un certo senso, i mafiosi ebbero una legittimazione a stelle e strisce. Ma a ben vedere gli Usa, così facendo, non inventarono nulla di nuovo, perché lo stesso avevano fatto prima di loro i garibaldini quando sbarcarono a Marsala: anche le camicie rosse si servirono dei picciotti. E chi erano i picciotti se non i mafiosi degli anni a venire?

Tutto ebbe inizio, allora, sul finire della guerra. A quel tempo la mafia era apertamente antifascista, perché il Fascismo le aveva inferto colpi durissimi, costringendola a rintanarsi per lungo tempo. Chi non ha sentito parlare di Cesare Mori, il prefetto di ferro? Mussolini si affidò in tutto e per tutto a lui. «Vostra Eccellenza ha carta bianca» gli telegrafò. Almeno così si racconta. Aggiungendo che se, per ristabilire l’autorità dello Stato, le leggi in vigore gli fossero state di impaccio, lui, Mussolini ne avrebbe fatte di nuove. Mori cominciò ritirando tutti i permessi di porto d’arma e continuò reprimendo e infittendo i controlli. Senza, tuttavia, riuscire a estirpare il male una volta per tutte.

In quanto antifascista, alle prime elezioni amministrative la mafia fece convergere i propri voti sulla più antifascista delle forze politiche in campo, vale a dire sul Partito comunista. E ciò provocò non pochi allarmi tra i moderati. Era la Sicilia di Vittorio Emanuele Orlando, ma sia chiaro: quegli allarmi erano dettati più dalla perdita del consenso che dalla tenuta democratica; più da ragioni di bottega che dall’ansia di costruire uno Stato libero da ogni forma di condizionamento.

Fu il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, a mettere in guardia la Dc. «Se volete i voti dovete andare a cercare quelli lì» disse. E con quelli lì’ intendeva i mafiosi.

L’ingrato compito toccò a Bernardo Mattarella, vicepresidente dell’Azione cattolica, sposato con una signora di Trapani, città che costituiva il vero e proprio quartier generale della mafia. La moglie di Mattarella non era di famiglia mafiosa, ma di famiglia rispettata dalla mafia. Una differenza non di poco conto, su cui tornerò. Il povero Mattarella si mise dunque in cerca. E qualcosa trovò. Ma poi il giorno dell’Epifania del 1980, gli uccisero un figlio, da due anni presidente della Regione Sicilia. Piersanti Mattarella era appena entrato in auto, e stava per andare a messa con i figli e la moglie. Quest’ultima si accorse di un uomo armato che si stava avvicinando, lo supplicò di non sparare, ma il killer fu spietato e preciso: colpì ripetutamente la vittima designata e nessun altro. Allora la macabra contabilità della mafia non ammetteva sprechi nelle esecuzioni. Fu così anche con Salvo Lima: anche in quel caso i killer aspettarono che uscisse dall’auto, lo pedinarono fino a quando, scopertosi braccato, cominciò a fuggire e, infine, lo uccisero senza torcere un capello agli uomini che lo accompagnavano. Per quell’omicidio furono poi accusati, tra gli altri, Valerio ‘Giusva’ Fioravanti e un gruppo di terroristi dell’estrema destra.

In realtà, Piersanti fu ammazzato perché le cosche non potevano sopportare che il presidente della Regione Sicilia fosse non solo lontano dai loro interessi, ma addirittura ostile. Avvicinata dal padre, la mafia ora chiedeva contropartite. Chiedeva e non otteneva. Ecco perché si risolse a sparare. Anche a Lima fu chiesto troppo, tanto da non poter essere concesso. Forse aveva promesso qualcosa e si ritrovò tra i piedi, invece, una serie di leggi sul carcere duro che il governo nazionale aveva appena varato: provvedimenti dal contenuto diametralmente opposto alle aspettative criminali.

Lima era un uomo spregiudicato, politicamente spregiudicato. Ricordo che fu lui a varare la prima collaborazione con i comunisti in Sicilia. Anticipò di molto il suo capo corrente, Giulio Andreotti, che al tempo, di fronte a simili alleanze, ancora parlava di ‘incastri e connubi’.

Ora volendo continuare a riflettere su questo delicato fronte del ‘colloquio’ tra democristiani e mafiosi, non posso non chiarire, preliminarmente, un paio di cose per me molto importanti.

La prima. Nella Dc ci sono stati e io li ho conosciuti, uomini che hanno combattuto la mafia in modo aperto e costante, con intelligenza e senza vuota retorica: penso a Franco Restivo, più volte ministro; a Giuseppe La Loggia, il padre di Enrico, uomo di punta della destra berlusconiana; e a Pippo Alessi, morto a centotré anni povero com’era nato.

La seconda. Come altri hanno già detto, anch’io sono convinto che non esistono politici mafiosi. Politici di rilievo, intendo, che abbiano prestato giuramento ai boss, che si siano punti il dito con lo spillo e che nell’oscurità liturgica di un anfratto segreto abbiano sigillato con il sangue la loro appartenenza alla Famiglia. Esistono, invece, uomini vicini alla mafia, uomini collusi. Ma non mafiosi. E questo per una regione molto semplice: perché la mafia può ammettere al suo interno professionisti, medici e avvocati, ma non politici, rappresentanti cioè di un altro potere organizzato. È questo un concetto che ha espresso molto bene, e sicuramente prima e meglio di me, Giovanni Falcone, quando, in un memorabile e contestatissimo, a sinistra, discorso sulla mafia, disse che «al di sopra dei vertici organizzativi non esistono terzi livelli di alcun genere, che determinino e influenzino gli indirizzi di Cosa Nostra». «Lo stesso dimostrato coinvolgimento di personaggi di spicco di Cosa Nostra in vicende torbide e inquietanti come il golpe Borghese e il falso sequestro Sindona» continuava Falcone, «non costituisce un argomento a contrario, perché tutte queste vicende hanno una propria specificità e una peculiare giustificazione in armonia con le finalità dell’organizzazione mafiosa».

E queste furono le sue conclusioni: «E se è vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di Cosa Nostra, è pur vero che in seno all’organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica. Insomma, Cosa Nostra ha tale forza, compattezza e autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia, mai però in posizioni di subalternità».

Il ragionamento di Falcone è recentemente tornato d’attualità con il caso Ciancimino. Sindaco di Palermo, tra i più potenti leader democristiani che la Dc abbia mai avuto, Vito Ciancimino fu letteralmente allevato in casa Mattarella, e ciò avvenne proprio negli anni in cui, come aveva consigliato il cardinale Ruffini, bisognava andare alla ricerca di ‘quelli lì’. Bernardo svelò non solo i segreti della politica, ma anche la difficile arte del compromesso con le famiglie di Cosa Nostra…