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In difesa dell’Archivio di Stato di Venezia

e a favore della ricerca storica
Venezia
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Una lettera al Ministro Franceschini

In questi ultimi giorni, a più riprese, un gruppo di oltre 300 persone ha scritto una “Lettera al Ministro Franceschini” (Link) sull’Archivio di Stato di Venezia, contenente una lamentela circa la scarsità del numero di utenti ammessi in Sala di studio, gli orari di apertura e alcune misure di prevenzione assunte durante il persistere dello stato di emergenza a causa della pandemia da Covid-19. Analoghe proteste sono pervenute anche ad altri Archivi.

La lettera, che ha raccolto firme a livello internazionale, trascura particolari imprescindibili e osserva gli effetti da vicino senza valutarne le cause da lontano.

 

Il “metodo” storico

È sempre opportuno evitare di esprimere giudizi senza possedere tutti gli elementi di valutazione e, soprattutto, senza andare alla fonte primaria. Sotto il profilo del metodo, infatti, nessuno dei sottoscrittori ha mai chiesto chiarimenti alla Direzione dell’Archivio di Stato, né incontri per affrontare con spirito costruttivo la situazione. Alcuni, interpellati direttamente, hanno candidamente ammesso di aver pensato di sottoscrivere un appello a favore dell’Archivio di Stato.

Inoltre, più di un terzo dei sottoscrittori non ha mai frequentato la Sala di Studio: quindi si lamenta di servizi di cui non ha mai usufruito almeno negli ultimi 20 anni (qui la pandemia, dunque, non rileva). Per restare alla legge dei freddi numeri, di due Università in cui si contano oltre 1.200 contatti via mail, hanno sottoscritto in una ventina.

Detto questo, è opportuno ricordare come le doglianze devono sempre essere costruttive e avere un quadro d’insieme per poter proporre elementi di rilievo.

Da ultimo, anche fossero 3.000 sottoscrittori, importa soprattutto il contenuto, che risulta in larga misura irricevibile, per la carenza di informazioni e per il tiro ad alzo zero che, come vedremo, ha sbagliato il bersaglio.

Gli archivisti, infatti, non sono antagonisti della ricerca storica, ma al contrario sono straordinari alleati per conoscenze mirate sui documenti e sulla storia istituzionale, attività di reference, suggestioni e per la messa a disposizione degli strumenti di accesso allo straordinario patrimonio culturale che conservano. Non sussiste – e non devono nemmeno crearsi le condizioni perché ciò accada – alcuna antitesi tra archivisti e storici, ma leale collaborazione e integrazione interprofessionale. Scrivere una lettera del genere è grave, soprattutto senza aver prima cercato un minimo di interazione.

Poco male e, in ogni caso, fosse anche solo uno il firmatario a protestare, conoscendo realmente la situazione, meriterebbe il rispetto di una risposta puntuale, come mi accingo a fare.

 

Sgomberare il campo da un equivoco di fondo

Nella percezione di alcuni frequentatori della Sala di studio, sembra che le restrizioni siano una sorta di “scudo punitivo” alzato dagli archivisti contro i frequentatori.

Per questa ragione, è importante scindere il problema in due filoni:

a) le prescrizioni a causa del Covid-19

b) le drammatiche carenze di organico in cui versano tutti gli Archivi di Stato italiani

 

Le prescrizioni anti-Covid-19

Per quanto possa sembrare strano, la pandemia ha danneggiato anche il personale dell’Istituto. Al di là dei cinque casi positivi Covid-19 tra i dipendenti, il lavoro – anche in modalità agile – è aumentato ed è stato affrontato da tutto il personale, che non smetterò mai di ringraziare, con grande spirito costruttivo. Ciò ha permesso la redazione nuovi inventari, la riproduzione digitale e la verifica di vecchi inventari; la scansione e la distribuzione telematica di antichi inventari manoscritti; aumento della banca dati leva e ruoli matricolari, una moltiplicazione degli accessi per corrispondenza, unitamente alla realizzazione del nuovo sito web e al nuovo portale della ricerca moreveneto.

Venendo alla lamentela circa il numero dei posti, è opportuno ricordare che ogni decisione circa il numero degli utenti ammessi è stata assunta in virtù di prescrizioni concertate con un organismo tecnico esterno, nominato dal Ministero (non dall’Istituto) e responsabile della sicurezza e della prevenzione, che ha agito anche con la collaborazione delle rappresentanze interne.

Nessuna decisione è stata presa in forma unilaterale, ma sempre con il confronto e il conforto degli esperti tecnici, ottemperando con diligenza a quanto prescritto dalle disposizioni in materia di pandemia da Covid-19.

Pochi ricordano che nei primi mesi vi era anche l’obbligo di indossare i guanti, adempimento inviso agli stessi archivisti, che poi i tecnici ministeriali hanno rimosso. Parimenti, si dimentica che il divieto di consultare gli schedari e gli inventari cartacei era esteso anche al personale interno. E, da ultimo, una questione che tutti i firmatari ignorano: gli esami della Scuola di archivistica, paleografia e diplomatica. Con una recente Circolare, infatti, il Ministero è stato costretto a imporre la riduzione dell’esame di paleografia da otto ore a un’ora soltanto e a cancellare del tutto la seconda prova scritta. Il motivo? Evitare di mantenere nella Sala di Studio (dove si svolgeranno gli esami) per più di un’ora una ventina di studenti, che entreranno distanziati. Se esiste un minimo di coerenza e in piena simmetria, sono gli stessi criteri che si applicano alle cinque ore (non una) di presenza contestuale della decina di studiosi ammessi, alla quale si aggiunge il personale al centralino, in distribuzione e in sala, mentre durante l’esame sarà presente solo la vigilanza.

 

Le “deroghe” secondo il miglior costume italico

In uno dei passaggi della lettera si chiede di trovare il modo di agevolare alcuni singoli utenti e di derogare al numero delle unità archivistiche quotidianamente consegnate in consultazione.

La “deroga”, cioè il piacere individuale a favore di qualcuno, è una questione tutta italiana che fa rabbrividire, soprattutto quando si legge che questo virus di italico costume ha colpito anche utenti a livello internazionale. Poi, scorrendo le firme, si scopre che pur lavorando in istituzioni estere, si tratta in molti casi di italiani. Ed ecco spiegato l’anelito alla deroga.

Quando sono arrivato a Venezia c’erano deroghe per tutto e per tutti. Ho stabilito – e credo bene che pochi utenti non lo abbiano ancora digerito – che tutti debbano avere lo stesso numero di materiali archivistici in consultazione. Non ci sono utenti di serie A e utenti di serie B. Se sussiste la possibilità di una deroga – dissi allora – deve valere per tutti, in modo tale da non essere più un’odiosa usanza italica.

Tutti lavorano meglio e conoscono perfettamente il perimetro entro il quale agire.

 

Gli Archivi di Stato durante la pandemia

Gli Archivi di Stato, fatti salvi i primi mesi del 2020, sono rimasti sempre aperti, compresi quelli che si trovavano in zona rossa. Anzi, mentre istituti e attività culturali chiudevano, gli Archivi restavano aperti. In zona rossa, come se fosse bianca in uno stato di emergenza, esattamente come ora. In definitiva, gli Archivi hanno anticipato il lavoro in zona bianca, pur persistendo la zona rossa: ora gli altri si adeguano e non viceversa!

Con lungimiranza, infatti, il Ministro Franceschini si è occupato non soltanto della ricerca storica, ma anche di tutti gli altri adempimenti in capo agli Archivi. Ad esempio, le ricerche sulle liste di leva per la cittadinanza, i fascicoli dei “cementi armati” per l’edilizia anti-sismica e, spesso, per usufruire del super-bonus 110% nell’edilizia.

 

La professione di archivista è a 360°

I servizi che svolge un Archivio di Stato, dunque, non si limitano soltanto alla ricerca storica, ma a una pluralità di servizi spesso poco noti, ma molto importanti. Essi riguardano le ricerche per corrispondenza, le ricerche amministrative, i servizi per il Nucleo di tutela dei Carabinieri, le commissioni di sorveglianza sugli archivi statali (Prefettura, Questura, Ragioneria provinciale, Avvocatura dello Stato, Tribunali etc.), i controlli sulle liste di leva della cittadinanza, il rilascio di copie per attività investigativa e giudiziaria, la redazione di strumenti di ricerca, la revisione dei mezzi di corredo, la didattica per la Scuola di archivistica, paleografia e diplomatica.

Molti professori – tra cui alcuni firmatari – si sono lamentati della didattica a distanza, ma la DAD l’hanno vissuta anche gli allievi e i docenti della nostra Scuola APD, continuando a svolgere il proprio lavoro di archivisti in Sala di studio.

Sono temi che i sottoscrittori dell’appello sembrano ignorare totalmente, perché hanno dimostrato di non conoscere la complessità della professione di archivista, che non assume rilievo esclusivo per la ricerca storica, bensì anche per i servizi amministrativi a favore di tutti i cittadini.

L’orario di apertura, tenendo presente che siamo a ranghi ridotti, anzi ridottissimi, è in linea con l’apertura a livello nazionale degli altri Archivi di Stato. Non solo. La carenza di personale è ben nota ed è purtroppo generalizzata fra tutti gli Istituti archivistici italiani. E la situazione è in un crinale verso il baratro se qualcuno non vi porrà efficace rimedio. Nessuno dei sottoscrittori ne fa cenno nella lettera di protesta e non si è ancora accorto che sezioni di Archivio hanno chiuso e che altri Archivi stanno chiudendo per mancanza del numero minimo di personale previsto dalla legge.

 

Il sistema di prenotazione

A Venezia, come in altri contesti, è stato scelto un sistema di prenotazione via mail, più “umano” e apprezzato da molti, anche nei confronti degli istituti che hanno scelto la prenotazione attraverso dei sistemi on-line. Ciò avviene nella massima trasparenza.

Alcuni degli utenti che hanno sottoscritto la lettera, tuttavia, sono gli stessi che hanno protestato in altri Archivi di Stato per la prenotazione dei posti on-line, anziché via mail. Quando si dice coerenza.

 

Zona bianca e zona rossa

Oggi, essendo in zona bianca, si sostiene che l’Istituto dovrebbe aumentare i posti per l’utenza. Qui l’abbaglio è tecnico. Pur in zona rossa, l’Archivio ha continuato a operare come se fosse in zona bianca con le prescrizioni in stato di emergenza.

In buona sostanza, sono gli altri che si sono adeguati alle aperture degli Archivi, che mai hanno smesso di operare mentre gli altri chiudevano. La percezione del mancato “aumento”, dunque, si basa su presupposti sbagliati: l’allineamento alle aperture già presenti negli Archivi riguardano chi è rimasto chiuso, mentre gli Archivi restavano diligentemente aperti, con il personale che entrava nei mezzi pubblici affollati con grave rischio per la salute. Come direttore, ho inteso dare sempre un esempio. Infatti, nei giorni della dichiarazione dello stato di emergenza fino a maggio 2020 non sono stato in lavoro agile per alcun giorno, ma sempre presente ai Frari. Da giugno 2020 a tutt’oggi opero in lavoro agile – neanche sempre – in un giorno a settimana. E così hanno fatto molti colleghi che operano negli Archivi di Stato.

Invece, a scorrere la lettera al Ministro, non esiste alcuna parola di apprezzamento per il grande sforzo, anche emotivo, di aver continuato ad aprire gli archivi al pubblico anche in zona rossa.

 

L’equivoco di fondo

Per coloro che rappresentano i dipendenti statali come “fannulloni” – e la lettera di protesta non fa che caricare questa distorta percezione collettiva – è opportuno ribadire che l’attuale apertura ridotta della Sala di studio non dipende dalle carenze di organico, ma dalle prescrizioni sanitarie che riguardano tutti gli Archivi di Stato, risultando inconferente il paragone con altre istituzioni.

Semmai il vero problema verrà alla luce quando, alla fine dello stato di emergenza, ci accorgeremo che negli ultimi due anni la riduzione del personale sarà risultata drastica al punto da non rendere possibile il ripristino dell’orario di apertura pre-pandemia, come ora mi accingo a illustrare.

Il virus non si è ancora fermato, al pari dell’autentica emorragia di personale, mai cauterizzata.

Infine, ci sono professori universitari che non sono andati al lavoro in Università per mesi per la mancanza di studenti e che sono stati vaccinati dall’Ateneo come datore di lavoro. Pur rimanendo in servizio in zona rossa, nessun archivista è stato vaccinato dal proprio datore di lavoro, né si è mai permesso anche solo il lusso di poter pensare di restare a casa in piena pandemia, se non per prescrizioni sanitarie individuali.

Altro che fannulloni!

 

Il rumore lieve di chi si è rifiutato di sottoscrivere

Tra coloro che non hanno sottoscritto la lettera vi sono numerosissimi studiosi e tutte le istituzioni di Venezia (tra cui Università Iuav, Università Ca’ Foscari, Istituto veneto di Scienze, Lettere e Arti, Deputazione di storia patria, Centro tedesco di studi veneziani, Comitati privati, solo per dirne alcune), e di grandi personalità della cultura veneziana, che ringrazio per la sensibilità.

Queste non hanno accolto l’appello degli “oltre 300”, che sembra scaturire da un rancore irrazionale accumulato in mesi di pandemia, senza comprendere che, per noi archivisti, vedere le sale semivuote o, in qualche mese, addirittura chiuse, ha rappresentato un colpo al cuore, frutto di scelte indipendenti da loro decisioni. Questo rancore deve solo dissiparsi, perché si non si tratta di regole imputabili a scelte individuali nelle sedi archivistiche.

Tra i firmatari, tuttavia, si rinviene anche un cittadino tedesco. Ricordo che il primo accesso al BundesArchiv di un’importante città della Germania è programmabile solo dal 1° giugno 2022. Proprio così, fra un anno esatto.

 

… e non rimase più nessuno: il dramma degli Archivi di Stato italiani (2011-2021)

Esattamente 10 anni fa, l’ANAI lanciò un appello accorato: “...  e non rimase più nessuno”: Link.

L’iniziativa denunciava, senza mezzi termini e con scientifica preveggenza, il progressivo e inesorabile depauperamento di risorse umane negli Archivi di Stato, che oggi risulta ancora più drammatico.

L’elemento più debole della “Lettera al Ministro Franceschini” è la mancanza di cura e di rispetto nei confronti del personale interno. In nessuno dei numerosi passaggi si ricorda che la dotazione organica è ormai prossima al collasso.

Evitando di parlare di altre situazioni, in alcuni casi addirittura più grave, posso agevolmente illustrare quella veneziana.

Nel 1996 l’Archivio di Stato di Venezia aveva 56 persone in organico. Orbene, attualmente ne ha 25 in costante diminuzione (erano 34 nel 2019, 1/3 trasferito o pensionato; saranno 21 a dicembre).

Ciò significa che con meno della metà del personale di allora, in regime di pandemia con ferie e malattie, ci si trova ad aprire con circa 15 persone. Non è tutto. A dicembre 2021 saranno presenti 21 persone, a fronte di una dotazione organica teorica di 42. La metà esatta, dunque. Su questo, fortunatamente, qualcosa si sta muovendo anche a livello parlamentare.

E vogliamo parlare del numero di amministrativi (coloro che seguono appalti, contratti, contabilità e finanza)? Erano due nell’aprile 2021, saranno zero nell’ottobre 2021. Sì, proprio così: zero. Entrambi, infatti, saranno in meritata quiescenza.

Oppure vogliamo parlare dei fotografi della celebre Sezione di fotoriproduzione, legatoria e restauro, quella che ha fotografato tutto il catasto napoleonico e altre 40.000 mappe storiche? Anche l’ultimo fotografo è andato in pensione ed è la prima volta nella storia dei Frari che non esiste alcun fotografo in servizio.

E non è finita. Il lavoro dei custodi, che prelevano materiale archivistico su 2 ettari di superficie, in un percorso lungo 80 km. di scaffali, è particolarmente oneroso. Dei 6 custodi attualmente in organico, tutti con un’età media molto elevata, una è in maternità, tre hanno prescrizioni e una andrà in quiescenza a dicembre 2021.

Tradotto dal freddo burocratese, significa che a dicembre 2021 avremo 4 custodi, di cui una sola in grado di movimentare i pezzi e di essere pienamente operativa tra le tre sedi dell’Istituto. Dei due aggiuntivi di Ales, la collega che sostituisce una seconda maternità ha il contratto in scadenza fra qualche settimana.

Dunque, da un lato il personale dell’Archivio di Stato di Venezia contribuisce alla crescita demografica del Paese, dall’altra l’Archivio ha sempre meno dipendenti in servizio.

Su questo tema, il silenzio dei sottoscrittori della lettera al Ministro è quantomeno imbarazzante.

 

L’Archivio di Stato di Venezia nel 1996 e nel 2021

C’è di più.

Nel 1996 l’Archivio disponeva di 21 custodi e il 23 dicembre di quell’anno il Direttore chiudeva l’Istituto per carenza di personale. Al proposito, ecco l’articolo de “Il Gazzettino” del 23 dicembre 1996 (Link).

A fronte di un organico di 12, i custodi oggi in servizio sono 5, di cui 3 con prescrizioni!!! E a dicembre resteranno in 4, con tre sedi da gestire (Frari, Giudecca e Mestre), cioè 1/3.

Ciò significa che l’Istituto si troverà con lo stesso numero di dipendenti per il quale nel 1996 un grande Direttore scelse la strada della chiusura, non tenendo conto che oggi i servizi sono aumentati.

In buona sostanza, nel 1996 l’Archivio chiudeva con più del doppio del personale di oggi e, anziché ricevere un apprezzamento per mantenere gli attuali servizi pur con una pattuglia esigua di persone, ma preparatissime e motivate, devo leggere proteste prive di fondamento e soprattutto toni denigratori, con il sospetto dell’opacità, anziché della trasparenza.

Per fortuna, dopo la lettera, sono pervenuti commenti lusinghieri sull’operato dell’Istituto da parte di molti per aver sempre svolto attività di eccellenza con risorse scarsissime, sia umane che finanziarie.

Tuttavia, il mio dovere di dirigente dello Stato è quello di cercare sempre soluzioni a favore di tutti i cittadini, cercando anche nelle parti critiche la dose di positività sempre presente.

 

Scegliere sempre la strada costruttiva

In una nota ufficiale di un mese fa, lo stesso Ministero ha riconosciuto «la grave carenza di personale che affligge l’Archivio di Stato di Venezia». E, d’altronde, anche il Ministero deve fare i conti con un numero scarsissimo di personale da distribuire alle sedi archivistiche.

Perché i sottoscrittori hanno scelto di scrivere al Ministro senza un confronto preliminare, anziché far fronte comune? Perché gli archivisti devono ancor oggi faticare per far comprendere la grande attività multidimensionale dietro alla professione di archivista? E, soprattutto, perché dei sottoscrittori chiedono e ottengono accordi di collaborazione scientifica che firmano con una mano, mentre utilizzano l’altra per firmare lettere contro l’Istituto, senza ritenere un atto di mera cortesia farne minimamente cenno? (è il caso della docente che ha trasmesso la lettera al Ministro).

L’appello che rivolgo dal cuore dei Frari è di ritirare quella “Lettera al Ministro” e di firmarne una congiunta – archivisti, storici e utenti – diretta al Governo affinché comprenda, in una visione interprofessionale, che gli Archivi di Stato hanno drammatico bisogno di risorse umane e non di scontri con gli utenti, perché gli Archivi sono un patrimonio culturale vivente che appartiene a tutti i cittadini del mondo.

Nel cuneo di processo del farsi storia, le professioni di archivista e di storico sono sicuramente distinte, ma devono essere perfettamente integrate. Ed è antistorico pensare ancora alla perenne battaglia dell’archivistica come scienza ausiliaria (addetti che aprono la Sala di studio), perché non di solo storia vive il mondo degli Archivi. Finché i frequentatori non comprenderanno l’errore strategico di sentirsi “altera pars” rispetto agli archivisti, evitando di far fronte comune contro chi considera gli archivi indegni di ricevere risorse umane e di attrezzarli adeguatamente, avremo una dimensione distorta della situazione drammatica degli Archivi di Stato italiani.

Per fortuna, gli archivisti e gli storici hanno un grande senso di responsabilità che, unito all’amore per la professione, fa superare anche le sfide più difficili.

Insieme, con entusiasmo. Ed è la stessa cosa che mi permetto di chiedere ancora a tutta la comunità scientifica: il ritiro della lettera e la sottoscrizione di una insieme agli archivisti in difesa degli Archivi di Stato e a favore della ricerca storica.