Diffamazione - Cassazione Penale: condanna per diffamazione aggravata per chi posta sulla propria pagina Facebook un commento lesivo di terzi, ma attenzione alla prova!

La condotta di postare un commento a contenuto diffamatorio sulla bacheca Facebook realizza la fattispecie aggravata di cui all’articolo 595 Codice Penale (“Diffamazione”), comma terzo, per l’idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, apprezzabile per composizione numerica. È quanto ha deciso la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza depositata lo scorso primo marzo.

Francesco Rocca, Commissario Straordinario della Croce Rossa Italiana (CRI) denunciava di essere stato diffamato da vari soggetti, nell’ambito di un dibattito fra utenti web, avviato sulle pagine del social network Facebook. Il dibattito aveva travalicato i limiti dell’ordinario diritto di critica ed era sfociato in espressioni lesive della sua reputazione, quali“parassita del sistema clientelare” e “quando i cialtroni diventano parassiti”.

I dati immessi nella rete risultavano provenire da profili Facebook di soggetti da lui conosciuti, in quanto componenti della CRI, tra cui quello dell’imputato. A tale riprova, la parte offesa allegava copia da lui stesso stampata del sito web, in cui erano inserite le predette offese. Nell’ambito del processo veniva, inoltre, disposta CTU, che accertava la titolarità dell’account Facebook dal quale erano stati diramati in rete i messaggi a contenuto diffamatorio.

Nel 2013 il G.U.P. del Tribunale di Palermo condannava l’imputato alla pena di euro 1500 di multa per il reato di cui all’articolo 595 Codice Penale e dichiarava che le espressioni di cui sopra erano “oggettivamente lesive della reputazione della parte offesa, trasmodando in una gratuita ed immotivata aggressione delle sue qualità personali.”

Avverso tale sentenza, ricorre per Cassazione l’imputato, adducendo la mancanza di elementi probatori univoci e concordanti dai quali trarre la certezza dell’attribuzione dei fatti di reato all’imputato. Infatti, la copia cartacea che riproduceva la pagina facebook, presentata dalla parte offesa, era stata recuperata senza il rispetto delle procedure standard che ne garantiscono la corretta acquisizione, potendo quindi essere il risultato di operazioni di adattamento o rielaborazione di pagine effettivamente esistenti, ma di contenuto differente.

Nell’analisi dell’argomentazione di rigetto del ricorso da parte della Suprema Corte, è necessario tenere in considerazione due aspetti. Innanzitutto, per quanto gli accertamenti tecnici svolti dal CTU fossero inidonei a comprovare, singolarmente considerati, l’effettiva corrispondenza tra tali messaggi e quanto rilevabile in rete sull’account del ricorrente, ad avviso della Corte questi non escludevano in via definitiva e preclusiva che quanto lamentato dalla parte offesa si fosse effettivamente verificato. In secondo luogo, il fato che il ricorrente non avesse sporto denuncia o segnalato abusi da parte di ignoti rispetto ai predetti messaggi dal contenuto illecito sulla propria pagina Facebook.

Per queste ragioni, i giudici del Palazzaccio, nel rigettare il ricorso, confermavano la sentenza del Gup di Palermo, ribadendo che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’articolo 595 Codice Penale, comma terzo, poiché la diffusione di un messaggio secondo le modalità offerte dal social network in questione ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato, ma apprezzabile di persone.

(Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, Sentenza 1 marzo 2016, n. 8328)

Fonte:http://www.laleggepertutti.it/113451_offese-su-facebook-parassita-e-cialtrone-sono-diffamazione;

La condotta di postare un commento a contenuto diffamatorio sulla bacheca Facebook realizza la fattispecie aggravata di cui all’articolo 595 Codice Penale (“Diffamazione”), comma terzo, per l’idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, apprezzabile per composizione numerica. È quanto ha deciso la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza depositata lo scorso primo marzo.

Francesco Rocca, Commissario Straordinario della Croce Rossa Italiana (CRI) denunciava di essere stato diffamato da vari soggetti, nell’ambito di un dibattito fra utenti web, avviato sulle pagine del social network Facebook. Il dibattito aveva travalicato i limiti dell’ordinario diritto di critica ed era sfociato in espressioni lesive della sua reputazione, quali“parassita del sistema clientelare” e “quando i cialtroni diventano parassiti”.

I dati immessi nella rete risultavano provenire da profili Facebook di soggetti da lui conosciuti, in quanto componenti della CRI, tra cui quello dell’imputato. A tale riprova, la parte offesa allegava copia da lui stesso stampata del sito web, in cui erano inserite le predette offese. Nell’ambito del processo veniva, inoltre, disposta CTU, che accertava la titolarità dell’account Facebook dal quale erano stati diramati in rete i messaggi a contenuto diffamatorio.

Nel 2013 il G.U.P. del Tribunale di Palermo condannava l’imputato alla pena di euro 1500 di multa per il reato di cui all’articolo 595 Codice Penale e dichiarava che le espressioni di cui sopra erano “oggettivamente lesive della reputazione della parte offesa, trasmodando in una gratuita ed immotivata aggressione delle sue qualità personali.”

Avverso tale sentenza, ricorre per Cassazione l’imputato, adducendo la mancanza di elementi probatori univoci e concordanti dai quali trarre la certezza dell’attribuzione dei fatti di reato all’imputato. Infatti, la copia cartacea che riproduceva la pagina facebook, presentata dalla parte offesa, era stata recuperata senza il rispetto delle procedure standard che ne garantiscono la corretta acquisizione, potendo quindi essere il risultato di operazioni di adattamento o rielaborazione di pagine effettivamente esistenti, ma di contenuto differente.

Nell’analisi dell’argomentazione di rigetto del ricorso da parte della Suprema Corte, è necessario tenere in considerazione due aspetti. Innanzitutto, per quanto gli accertamenti tecnici svolti dal CTU fossero inidonei a comprovare, singolarmente considerati, l’effettiva corrispondenza tra tali messaggi e quanto rilevabile in rete sull’account del ricorrente, ad avviso della Corte questi non escludevano in via definitiva e preclusiva che quanto lamentato dalla parte offesa si fosse effettivamente verificato. In secondo luogo, il fato che il ricorrente non avesse sporto denuncia o segnalato abusi da parte di ignoti rispetto ai predetti messaggi dal contenuto illecito sulla propria pagina Facebook.

Per queste ragioni, i giudici del Palazzaccio, nel rigettare il ricorso, confermavano la sentenza del Gup di Palermo, ribadendo che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’articolo 595 Codice Penale, comma terzo, poiché la diffusione di un messaggio secondo le modalità offerte dal social network in questione ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato, ma apprezzabile di persone.

(Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, Sentenza 1 marzo 2016, n. 8328)

Fonte:http://www.laleggepertutti.it/113451_offese-su-facebook-parassita-e-cialtrone-sono-diffamazione;