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Gli inibitori delle proteasi curano Covid-19?

Capitolo 2 - L'origine del virus SARS-cov-2
Covid-19
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Leggi la prima parte: Link

 

Inibitori delle proteasi virali e cellulari bloccano l’infezione e la malattia

Un secondo dato molto importante è stato ottenuto e divulgato a fine 2021. Vari gruppi di ricerca si sono focalizzati proprio sulle attività proteasiche del virus SARS2: le proteasi sono enzimi che tagliano una proteina all’altezza di aminoacidi specifici. La Furina –che abbiamo discusso precedentemente- è una proteasi cellulare che SARS2 sfrutta, utilizza a suo vantaggio. Il virus produce però anche una sua proteasi, la proteasi 3CLpro ed è anche su questa che si sono concentrati gli sforzi dei ricercatori, per ottenere degli inibitori specifici. La nomenclatura può apparire un po’ ostica o potrebbe generare confusione, anche perché vengono usati nomi diversi: il più utilizzato è 3-chymotrypsin-like protease, cioè proteasi simile alla chimotripsina-3, appunto 3CLpro. Viene alternativamente chiamata Mpro, cioè main protease = proteasi principale di Coronavirus, ma anche altri termini sono stati utilizzati.

La caratteristica principale di 3CLpro, è appunto quella di effettuare tagli su siti specifici presenti nel polipeptide virale, che viene prodotto inizialmente come un unico blocco e che deve essere pertanto processato. I siti specifici sono la glutammina a monte ed un piccolo aminoacido a valle (o serina o alanina o glicina). Poiché 3CLpro taglia 11 volte il polipeptide precursore di SARS2, inibirla significa inibire l’intero processamento di 12 proteine virali: quindi di fatto bloccare la produzione di nuovo virus. Questa è stata appunto la strategia utilizzata dal gruppo di ricerca della Pfizer, che aveva già ricercato ed ottenuto in passato inibitori specifici per 3CLpro. Subito dopo l’epidemia SARS-1 nel 2002-2003, questo tipo di molecole erano state intensamente ricercate e trovate.

Poi come sappiamo la SARS-1 si è autonomamente estinta, dopo vari episodi distinti di zoonosi o spill-over, e quindi le molecole inibitrici inizialmente identificate sono state lasciate “nel cassetto”. Per dare un’idea degli sforzi effettuati dalla comunità scientifica per ottenere nuovi inibitori efficaci delle proteasi associate all’infezione COVID-19, basti ricordare che recentemente è stata utilizzata una vasta libreria (questa è una raccolta di composti con strutture diverse, che possono venir saggiati in laboratorio) contente 1 miliardo e 300 milioni di molecole diverse. La libreria, chiamata ZINC15, ha permesso di identificare circa mille diverse molecole con potenziale attività inibitrice della proteasi virale, che vengono adesso studiate dalla comunità scientifica internazionale, per poterle eventualmente utilizzare a scopo terapeutico.

Il successo di questo approccio è stato decretato da una serie di studi della Pfizer che hanno dimostrato che il loro composto, isolato nel 2003 (per SARS1) e chiamato inizialmente PF-07,321,332 (o Nirmatrelvir), funzionava egregiamente anche per SARS2 bloccando il virus in cellule in coltura ed in animali. Alla Pfizer hanno poi reso la molecola solubile: inizialmente infatti ai pazienti doveva venire somministrata tramite infusione, mentre ora viene data oralmente.

La pillola della Pfizer si chiama Paxlovid ed è in realtà in cocktail dell’inibitore iniziale (Nirmatrelvir) con l’aggiunta di Ritonavir (un inibitore già utilizzato anche per HIV-1 e HIV-2). Quali sono i risultati che hanno decretato il grande successo terapeutico di Paxlovid con titoli sulle prime pagine della stampa internazionale? A 3 giorni dalla diagnosi, su 389 pazienti trattati solo 3 sono statii ricoverati e nessuno è morto. Al contrario, su 385 pazienti trattati con un placebo, 27 sono stati ricoverati e 10 sono morti. A 5 giorni dalla diagnosi, su 607 pazienti trattati con il farmaco, solamente 6 sono stati ricoverati (1%) mentre 41 su 612 (6.7%) di quelli trattati con placebo. Da un punto di vista statistico, si può calcolare una riduzione dell’89% nei ricoveri a 3 giorni dalla diagnosi e valori simili per quelli a 5 giorni o per i dati di mortalità.

 

Cocktails di inibitori di proteasi potrebbero eradicare COVID-19

Questi dati sono assai incoraggianti e certamente migliori di quelli ottenuti dalla Merck con la prima pillola anti-COVID-19: Molnupiravir , che attestavano una riduzione dei ricoveri di solo il 30%. Questo farmaco è costituito da un analogo della base Citidina che, una volta incorporato all’interno del genoma SARS2, ne blocca l’ulteriore replicazione. Una strategia simile è stata utilizzata negli anni per i pazienti affetti da AIDS, quindi per bloccare la replicazione del virus HIV-1 ed HIV-2. Bisogna ricordare che, prima di queste molecole, gli unici altri farmaci utilizzabili per pazienti COVID-19 ricoverati erano il Remdesivir (un’inibitore della polimerasi) e gli anticorpi monoclonali.

Cosa possiamo oggi prevedere, quale sarà il futuro di Paxlovid e farmaci simili per il trattamento della malattia? L’approccio con inibitori di proteasi è stato già utilizzato con successo (salvando moltissime vite umane) nei pazienti AIDS con la cosiddetta terapia HAART (Higly Active Anti-retroviral Therapy o terapia anti-retrovirale estremamente efficace). Come nella HAART vari farmaci sono uniti in un cocktail terapeutico, così nella terapia anti-COVID-19 si arriverà ad unire insieme –verosimilmente- vari inibitori delle proteasi.

A questo proposito, il sito precedentemente descritto dal lavoro di Menachery ed altri e cioè quello di taglio per la furina è stato definito come un bersaglio essenziale da importanti lavori di gruppi tedeschi, francesi e di Taiwan. In Germania, il gruppo di Poehlmann ha dimostrato che FCS è essenziale e che la sua inibizione, come anche quella di un’altra proteasi –la TMPRSS2- blocca la sua patogenicità. Similmente, in Francia il gruppo di Olivier Schwartz al Pasteur di Parigi, ha dimostrato che il taglio da Furina aumenta molto la fusione fra membrane, non solo fra virus e cellula, ma anche e soprattutto fra cellula e cellula.

Questo spiegherebbe anche uno dei dati più frequenti (e più agghiaccianti) dalle autopsie di pazienti morti di COVID-19. I polmoni di questi pazienti contengono quasi sempre degli aggregati di 10-20 cellule fuse insieme, chiamate cellule multinucleate. Come si formano? In questi pazienti, il taglio da Furina fa produrre ingenti quantità di polipeptidi S1 e S2 che permettono appunto non solo l’attracco di SARS2 al recettore cellulare ACE2, ma anche la sua fusione alla membrana. L’eccesso di S2 fa sì che le membrane cellulari si coprano, riempiano di peptidi virali che mediano appunto la fusione anche con le cellule vicine a formare questi grandi aggregati. Queste cellule polinucleate ottenute dalla fusione di 10-20 cellule infette, non faranno poi altro che produrre ingentissime quantità di virus, diventano delle vere e proprie mega-fabbriche cellulari per la produzione di SARS2. Il virus utilizza questo meccanismo anche come strategia darwiniana per eludere la risposta immunitaria: la sua produzione intra-cellulare impedisce infatti il riconoscimento dal sistema immune.

Il lavoro poi del gruppo di Taiwan, guidato dalla validissima ricercatrice Shiou-Hwei Yeh, ha infine dimostrato che inibendo proprio l’enzima Furina con una molecola che definiamo qui con la sigla CMK ovvero con una serie di molecole derivate dalla naftofluoresceina si può bloccare la produzione di virus ed i suoi effetti citopatici. Cosa ci dicono questi dati ancora sperimentali ma senz’altro molto promettenti?

Che SARS2 sembra avere una funzione-chiave, che ne spiega la sua alta patogenicità: questa è la FCS (sito di taglio per Furina) che fa aumentare enormemente il processa mento di peptidi virali (in particolare, S1 e S2). Al contempo, che proprio questa funzione-chiave diventa poi il punto debole, il cosiddetto tallone di Achille del virus SARS2. Inibendo infatti questo processamento proteolitico, si abolisce sia produzione di virus che patogenicità, come è stato adesso dimostrato dal trial cliinico della Pfizer. È chiaro che si può però già prevedere –e moltissime ricerche e trials clinici stanno andando in questa direzione- che si arriverà a controllare e debellare SARS2 e quindi COVID-19 con una serie di inibitori, dei cocktails che blocchino non solo l’enzima virale 3CLpro ma anche la Furina e potenzialmente il TMPRSS2.

Saranno quindi trattamenti molecolarmente mirati ad un bersaglio specifico del ciclo virale, certamente meno tossici dei trattamenti tipo HAART che sono stati utilizzati per i pazienti AIDS o anche dei chemioterapici utilizzati nei pazienti oncologici.

Concludendo questa carrellata velocissima sui successi terapeutici preliminari e prevedibili per il prossimo futuro per SARS2, mentre da un lato i dati sono molto incoraggianti per una terapia a bersaglio, dall’altro confermano ancora una volta i dati di Menachery che avevo già presentato nel Capitolo 1. Dimostrano anche che la patogenicità del virus è fortemente aumentata dalla presenza del sito FCS, un sito assente in tutti gli altri membri della stessa famiglia di SARS (Sarbecoviruses). Tutte queste considerazioni ci torneranno utili nei prossimi capitoli, quando andremo ad analizzare il ruolo di FCS per derimere la questione dell’origine di SARS2, se lab-leak (LL) ovvero zoonosi-naturale (ZN).

Vedasi anche: (Hoffmann, Kleine-Weber et al. 2020) (Buchrieser, Dufloo et al. 2020) (Cheng, Chao et al. 2020)

Buchrieser, J., J. r. m. Dufloo, et al. (2020). "Syncytia formation by SARS-CoV-2-infected cells." The EMBO Journal 39(23): e106267.

Cheng, Y. W., T. L. Chao, et al. (2020). "Furin Inhibitors Block SARS-CoV-2 Spike Protein Cleavage to Suppress Virus Production and Cytopathic Effects." Cell Rep 33(2): 23.

Hoffmann, M., H. Kleine-Weber, et al. (2020). "A Multibasic Cleavage Site in the Spike Protein of SARS-CoV-2 Is Essential for Infection of Human Lung Cells." Molecular Cell 78(4): 779-784.e5.