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Gli istituti della rinuncia e della decadenza al tempo delle “università-aziende”

Per una prospettiva umanistico-manageriale del procedimento amministrativo
Piazza Maggiore
Ph. Paolo Panzacchi / Piazza Maggiore

1. Il concetto di “università azienda”

Prima di addentrarci sugli istituti della rinuncia agli studi e della decadenza dagli studi occorre premettere una serie di considerazioni per uno sguardo d’insieme sulla problematica.

Nel contesto accademico contemporaneo, definito a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 240/2010 di riforma del sistema universitario e dei successivi decreti delegati che ne hanno garantito una quasi piena attuazione, grande risalto è stato attribuito al concetto di “aziendalizzazione” delle istituzioni universitarie[1].

Nello specifico, è stata data particolare evidenza al fatto che, a decorrere dalle date indicate nei provvedimenti normativi di riforma, gli atenei italiani avevano l’obbligo di transitare dal precedente sistema di contabilità finanziaria, ritenuto inadeguato a rilevare in maniera efficace i fatti economici connessi alla gestione, a un sistema di contabilità economico-patrimoniale, del tutto simile a quello già esistente nelle aziende private, con l’obiettivo dichiarato di attuare un accurato controllo dei ricavi e, soprattutto, dei costi dell’apparato amministrativo, finalizzato alla primaria funzione istituzionale consistente nella produzione del capitale umano.

 

2. Il “capitalismo umano”: da beni e servizi alla formazione della persona

Come già suggerito in un precedente contributo[2], l’estensione tout court di un sistema pensato per il controllo della produzione di beni e di servizi palesa tuttavia la corda nel momento in cui lo si tenta di applicare a un contesto così complesso e articolato come l’istituzione universitaria.

In particolare, si tratta di una fusione a freddo in un’organizzazione molto complessa che ha, come mission, prima di tutto la formazione di capitale umano, attraverso la traduzione in didattica dei risultati della ricerca svolta a vario livello e nei diversi settori scientifico-disciplinari.

Il limite di questa applicazione, a ben guardare, nasce dal concetto stesso di azienda, così come descritto all’articolo 2555 del Codice civile, secondo il quale: «l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa».

Da tale definizione, concisa ma esaustiva, emergono almeno due corollari fondamentali, tanto pregnanti al diritto commerciale quanto, invece, di difficile estensione all’apparato amministrativo universitario:

  1. l’azienda è e si identifica completamente in tutto ciò che la compone: i macchinari impiegati, il personale, gli strumenti utilizzati come i sistemi informativi o gli indirizzi e-mail, la sede fisica, gli ambienti di lavoro, ma anche le conoscenze, il patrimonio, la cassa e i suoi asset in generale;
  2. l’azienda è un contesto del tutto funzionale all’esercizio dell’attività di impresa, ragione per cui è un concetto complementare all’impresa stessa.

Dunque, in un tentativo di applicazione all’istituzione universitaria, che sin da subito si riconosce come volutamente estremizzato, dei due corollari appena citati e che conseguono alla definizione codicistica di azienda, ci troveremmo di fronte al paradosso per cui il Rettore si identificherebbe nell’imprenditore che gestisce il business della formazione del capitale umano, attraverso un complesso sistema aziendale che in ogni caso, per gli atenei pubblici (è bene ricordarlo), è garantito in massima parte da finanziamenti pubblici.

Eppure, la prospettiva di analisi propria dell’umanesimo manageriale che sta lentamente, ma efficacemente, contaminando il mondo accademico che si occupa quotidianamente di implementazione delle norme e di attività amministrativa, sta riuscendo a mitigare il tentativo di ridurre gli atenei alla stregua di “aziende-imprese” attraverso la rilettura in chiave produttiva degli istituti quotidianamente in uso[3].

 

3. Abolizione dell’aziendalismo di maniera

Se è vero che l’università può in qualche modo essere associata, seppur impropriamente e dal solo lato di un qualche incremento efficientista dell’azione, ad un’azienda, allora è altrettanto legittimo il tentativo di individuarne gli elementi costitutivi standard, cioè rintracciabili in qualsiasi modello organizzativo definibile come università, che andrebbero a formare l’elenco che segue, tendenzialmente esaustivo e, soprattutto, rifuggendo dall’aziendalismo di maniera:

  1. il personale assunto;
  2. i percorsi formativi del personale assunto;
  3. le sedi fisiche;
  4. gli ambienti di lavoro;
  5. gli strumenti di lavoro utilizzati, come la rete, i telefoni, i sistemi informativi, le stampanti e gli indirizzi e-mail istituzionali;
  6. il patrimonio;
  7. la cassa;
  8. il suo core business imprescindibile: gli studenti.

Da questo elenco emerge immediatamente l’elemento della presenza degli studenti, che costituiscono l’utenza istituzionale di riferimento dell’ateneo: un elemento peculiare e, in un certo senso, straniante rispetto alla concezione tradizionale commercialistica dell’azienda (l’azienda, nel sistema privatistico, è di per sé funzionale al perseguimento del solo obiettivo della massimizzazione del profitto dell’imprenditore, senza possibilità alcuna di rinvenire missioni ulteriori da assolvere, specialmente se attinenti a beneficiari estranei all’impresa). Ebbene, tale elemento in effetti costringe a ripensare il concetto stesso di azienda declinato sulle università e impone il rovesciamento dell’elencazione, perché non può esserci azienda universitaria se non c’è capitale umano da formare, ossia se non ci sono studenti, dal momento che l’apparato amministrativo ha un suo diritto di cittadinanza solo laddove esista una comunità di soggetti verso cui indirizzare l’azione didattico-scientifica; in alternativa sarebbe una meravigliosa, quanto inutile, cattedrale nel deserto.

Il focus delle governance nazionali delle università pubbliche a seguito della legge Gelmini si è incentrato, giustamente e per larga parte, sulla metodologia di riparto del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) basato sul costo standard per studente, dando per acclarato il presupposto dell’esistenza degli studenti. La logica è stata più che corretta perché, con il passare degli anni, la disciplina di settore precisava la prospettiva di un incremento percentuale del peso del costo standard per studente ai fini del riparto del FFO, ma è una logica quantitativa e non qualitativa che, sulla distanza, inizia a mostrare i propri limiti operativi e costringe gli atenei a una migliore, e più puntuale, tenuta delle proprie “scritture aziendali”.

Qui non si parla di scritture contabili, prettamente aziendalistiche, su cui già svolge un controllo certosino e accurato l’organo preposto, impersonificato dal Collegio dei revisori dei conti che risulta anch’esso, per volontà legislativa[4], costituito su base privatistica (perché ricalca quanto previsto dall’articolo 2397[5] del c.c.), quanto piuttosto sulla cogente necessità di profilare correttamente nel sistema informativo preposto la popolazione studentesca, sia con riguardo al rendimento accademico, funzionale al fine della determinazione del costo standard da parte del Ministero, sia con riguardo alla tipologia di studenti e agli “accidenti amministrativi” che possono condizionarne la carriera, o cursus studiorum se si preferisce, con evidenti e problematiche esternalità anche negative in sede di trasmissione dei flussi all’Anagrafe Nazionale degli Studenti e dei laureati (ANS)[6], da cui il Ministero è libero di attingere per avere informazioni quantitative aggiornate in merito alle popolazioni studentesche che abitano i diversi atenei italiani[7].

 

4. Conoscere prima di deliberare (Einaudi)

Con riferimento all’ultimo punto del paragrafo precedente è bene quindi aprire una breve digressione. In ogni moderna organizzazione le informazioni costituiscono il presupposto fondamentale per supportare i processi decisionali perché disporre di giuste informazioni consente di compiere le giuste scelte per orientare e ottimizzare la gestione manageriale. Le stesse informazioni, quando tradotte in dati (parola che deriva dal latino “datum” ovvero fatto), necessitano di un costante aggiornamento, affinché la fonte, o base dei dati (data base) sia unica e soprattutto attendibile.

Ne consegue, a stretto rigore di logica, che le scritture informative della carriera degli studenti devono essere tenute in ordine non tanto come obbligo ministeriale (derivante dall’invio dei dati in ANS) quanto per ragioni di opportunità strategica: il fine ultimo della registrazione e della conservazione dei dati deve essere quello di estrarre informazioni di valore da essi, onde evitare che esso rappresenti, in termini economico-aziendalistici, solo uno sterile costo di gestione, o un mero adempimento se si preferisce la logica burocratica.

Per gli atenei disporre di una base di dati relativa alle carriere dei propri studenti completa ed affidabile è infatti una delle premesse necessarie per assicurare l’efficacia dei software di reportistica, di statistica e dei sistemi di cruscotti direzionali[8], come pure rappresenta il fondamento imprescindibile per sviluppare opportunità innovative come ad esempio la possibilità di dotarsi di sistemi di analisi predittiva e prescrittiva[9]. Registrando puntualmente e costantemente nel sistema informativo preposto alla gestione delle carriere degli studenti ogni evento significativo della vita accademica (di cui rinuncia e decadenza sono una fattispecie tipica e ricorrente) è possibile determinare la probabilità di abbandono per ogni studente e, conseguentemente, adottare contromisure appropriate per controllare e limitare il fenomeno dai parte dei manager preposti ai diversi servizi, la cui azione amministrativa diventa sempre più “data driven” rivelando il grande valore, anche se tanto intangibile quanto determinante, che dati e informazioni rivestono nell’assetto organizzativo delle università contemporanee.

Da quanto sopra consegue la necessità di una valorizzazione tecnico-amministrativa di quegli istituti (la rinuncia e la decadenza dagli studi universitari) che si riferiscono direttamente alla carriera dello studente, introdotti addirittura dalla legislazione degli anni trenta del secolo passato (il riferimento è al Regio decreto 31 agosto 1933 n. 1592), che con il trascorrere del tempo, le riforme ordinamentali, l’istituzione dell’autonomia universitaria sono stati per diversi aspetti un po’ sottovalutati (quando non oggetto, addirittura, di una larvata quanto illegittima abrogazione per desuetudine).

Di contro, al tempo in cui si scrive, riacquistano viceversa centralità e importanza per il semplice fatto che contribuiscono a tenere in ordine, ove correttamente impiegati, i dati della popolazione studentesca di ciascun ateneo, facendo chiarezza anche nei confronti delle cosiddette carriere che presentano anomalie amministrative.

Non solo. Per quanto possa apparire a prima vista un paradosso storico, l’austero diritto amministrativo autoritativo può, qualora applicato con criterio e oculatezza, correre efficacemente in soccorso di quei processi di aziendalizzazione e managerializzazione delle istituzioni pubbliche universitarie che sembrerebbero guardarlo con un contegno un po’ altezzoso, quale vecchio arnese da riporre ormai in soffitta a godersi un meritato riposo.

Questi istituti dal fascino un po’ retrò tendono, nella prassi ordinaria, a essere confusi o peggio ancora dimenticati in forma attiva, ragione per la quale, al fine di proporre una compiuta esposizione, sembra utile procedere attraverso una rappresentazione sinottica, simile alle voci enciclopediche. In questa maniera, idonea a coglierne a prima vista similitudini e differenze in un’ottica di analisi comparativa, si può tendere a un corretto impiego dell’uno o dell’altro istituto nell’uso quotidiano.

 

La rinuncia agli studi universitari

La decadenza dagli studi universitari

 

Fonte normativa: l’articolo 142 del r.d. 31 agosto 1933 n. 1592 (“Approvazione del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore”) recita testualmente che:

Nelle Università e negli Istituti superiori si può ottenere l’iscrizione solo in qualità di studenti.

[…] è vietata l’iscrizione contemporanea a diverse Università e a diversi Istituti d’istruzione superiore, a diverse Facoltà o Scuole della stessa Università o dello stesso Istituto e a diversi corsi di laurea o di diploma della stessa Facoltà o Scuola”.

 

 

 

 

 

 

Analisi interpretativa: l’istituto della rinuncia, che peraltro costituisce un istituto di carattere generale del nostro ordinamento, sia nell’ambito del diritto privato che in quello del diritto pubblico, nel settore universitario non è regolato da una specifica e autonoma base normativa (come invece avviene per la decadenza), ma nasce precipuamente dalla prassi amministrativa, quale strumento necessario, in particolare, a evitare che si verifichi in capo allo studente l’ipotesi di una doppia contemporanea iscrizione ai corsi, situazione allo stato vietata dall’articolo 142 comma 2 del richiamato regio decreto n. 1592/1933[10].

 

Con la rinuncia (che ovviamente può essere posta in essere dallo studente anche nell’ipotesi in cui egli intenda interrompere i propri studi universitari in via definitiva, senza dunque avviare una nuova carriera presso la medesima università o altro ateneo) lo studente, mediante un atto scritto[11], chiaro ed esplicito, senza alcuna condizione e senza termini o clausole che ne restringano l’efficacia, manifesta la propria volontà di abbandonare i propri studi universitari, non intendendo esercitare più i diritti derivanti dalla sua iscrizione.[12]

 

Con la rinuncia agli studi l’interessato pone fine alla propria carriera accademica, che dunque viene sostanzialmente azzerata; in base ai nuovi principi recati dal d.m. n. 509/1999 e dal successivo d.m. n. 270/2004 in materia di valutazione della non obsolescenza dei contenuti conoscitivi, all’atto dell’iscrizione a un nuovo corso di studio lo studente può domandare il riconoscimento degli esami sostenuti durante la carriera precedente, conclusasi con la rinuncia: tuttavia detto riconoscimento non è mai automatico, in quanto rimesso alla valutazione discrezionale della struttura didattica competente.

 

 

 

La rinuncia è un atto unilaterale volontaristico dello studente e irrevocabile, in quanto determina la caducazione dello status giuridico di studente che può essere rinnovato solo mediante la reiterazione dell’iscrizione a seguito di un’autonoma domanda, la quale comporta la ripetizione integrale dell’intero corso di studio.

Il rapporto universitario è, dunque, condizionato alla volontà dell’interessato, ma l’interesse pubblico a un disciplinato ordine degli studi e al corretto funzionamento dell’istruzione superiore impone di considerare la rinuncia irretrattabile.

 

 

Infine, dal punto di vista patrimoniale, l’opinione più diffusa e preferibile è quella che afferma che la rinuncia determina la caducazione dei diritti connessi allo stato giuridico di studente, ma anche dei relativi obblighi: dunque, ferme restando eventuali pendenze debitorie connesse ad anni accademici in cui l’iscrizione si sia effettivamente perfezionata, la rinuncia elimina l’obbligo di pagare qualsivoglia tassa universitaria.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La giurisprudenza formatasi sull’istituto della rinuncia non è particolarmente ricca, è spesso associata all’istituto della decadenza e comunque a tutti gli eventi che determinano, in qualche modo, l’interruzione della carriera dello studente, ma è assolutamente univoca.

La rinuncia agli studi comporta l’annullamento di tutta la carriera universitaria, ovvero l’inefficacia della carriera scolastica svolta nel corso di laurea a suo tempo intrapreso e ha natura irretrattabile, in quanto l’interesse pubblico sotteso alla disciplina del rapporto universitario richiede costante riconoscibilità e piena certezza delle situazioni che lo concernono e ciò preclude al privato di ricostituire un rapporto che volontariamente ha concluso (T.A.R. Toscana, Firenze, 1 dicembre 2015 n. 1609; T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 4 dicembre 1989 n. 496).

Il T.A.R. Abruzzo, con sentenza 7 maggio 1985 n. 200, ha chiarito che “lo status di studente universitario perdura finché non lo si perde col conseguimento del diploma finale, oppure per rinunzia, ovvero per decadenza, che si verifica nell’ipotesi prevista dall’articolo 149 del t.u. 31 agosto 1933 n. 1592 per inattività scolastica protrattasi per otto anni consecutivi; pertanto, gli studenti fuori corso, in quanto ancora studenti, sono tenuti all’osservanza della norma che vieta la duplicazione di iscrizione a più corsi di laurea (art. 142 comma 2 del t.u. cit)”.

La stessa sentenza precisa inoltre che “il provvedimento di annullamento d’ufficio della carriera di uno studente universitario risultato contemporaneamente iscritto anche a un diverso corso di laurea, pur essendo in linea di massima doveroso per l’amministrazione, tenuta a far osservare il divieto di duplicazione di iscrizione contenuto nell’articolo 142 comma 2 del t.u. 31 agosto 1933 n. 1592, al pari degli altri atti con i quali la p.a. esercita il potere di autotutela, deve contenere una motivazione che non può esaurirsi nella necessità di ripristinare la legalità violata, ma deve anche dimostrare l’esistenza di uno specifico interesse pubblico alla rimozione degli atti precedenti, che risulti prevalente rispetto all’interesse ormai consolidato dei privati alla loro conservazione (nella specie: l’atto di annullamento era intervenuto due anni dopo l’accertamento dell’irregolarità dell’iscrizione all’ISEF).

 

Dal punto di vista procedimentale, la rinuncia agli studi è attivata a istanza di parte, con una domanda, dalla quale deve desumersi con incontrovertibile chiarezza l’intenzione dello studente di non voler proseguire gli studi, al fine di evitare di incorrere, come detto, in caso di rinuncia tacita, nel divieto della contemporanea doppia iscrizione ai corsi di studio di cui al più volte richiamato articolo 142 comma 2 del r.d. n. 1592/1933.

Come tutti i procedimenti amministrativi sembra corretto ritenere che anche questo dovrebbe concludersi con un provvedimento espresso (di contenuto peraltro vincolato, a titolo di presa d’atto) che in molti atenei assume la forma del decreto del Rettore a cui, per esigenze di precisione, dovrebbe essere allegato l’estratto degli esami sostenuti alla data della rinuncia (il cui dies a quo è la data di acquisizione della domanda al sistema informativo che gestisce il protocollo dell’ente) derivante dal data base di gestione della carriera dello studente.

 

Fonte normativa: l’articolo 149 del r.d. n. 1592 del 31 agosto 1933 (“Approvazione del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore”) prevede che:

Coloro i quali abbiano compiuto l’intero corso degli studi universitari senza conseguire la laurea o il diploma, o che, per qualsiasi motivo abbiano interrotto gli studi stessi, qualora intendano esercitare i diritti derivanti dalla iscrizione, sono tenuti a chiedere ogni anno all’Università o Istituto la ricognizione della loro qualità di studenti e a pagare la speciale tassa di cui alla tabella H.

Coloro i quali, pure avendo adempiuto a tale obbligo, non sostengano esami per otto anni consecutivi, debbono rinnovare l’iscrizione ai corsi e ripetere le prove già superate”.

 

 

Analisi interpretativa: la norma sopra riportata reca in sé, in realtà, due fattispecie autonome, entrambe fondamentali per la carriera della studente: da un lato l’obbligo di ricongiunzione della carriera, a fronte del pagamento di una specifica tassazione, al fine di poter esercitare i diritti derivanti dall’iscrizione; dall’altra la necessità di iscriversi a una nuova carriera, nonostante il regolare pagamento della contribuzione, a fronte di una perdurante inattività nello studio, certificata dalla circostanza di non sostenere gli esami per otto anni consecutivi, con l’obbligo di ripetere anche le prove già superate.

 

 

Quest’ultimo istituto, anche se mai espressamente menzionato, definisce in maniera molto chiara la decadenza dagli studi universitari e precorre l’esigenza dell’adeguamento formativo, per perdurante inattività, espresso attualmente dalle logiche di passaggio dai “vecchi” ai “nuovi” ordinamenti.

 

 

 

 

 

 

Come invero accade con la rinuncia agli studi, anche con la declaratoria di decadenza la carriera accademica dell’interessato subisce un sostanziale azzeramento, sebbene in questo caso tale effetto discenda da un’iniziativa unilaterale d’ufficio e non a seguito di una manifestazione di volontà dello studente; parimenti, come nell’ipotesi di carriera annullata a seguito della rinuncia agli studi, in conformità ai principi contenuti nel d.m. n. 509/1999 e nel d.m. n. 270/2004 vi è la possibilità di un riconoscimento degli esami sostenuti, nel caso di iscrizione a un nuovo corso, ma senza alcun automatismo e sempre a seguito di una valutazione della struttura didattica.

 

Dal punto di vista procedimentale, la decadenza consegue a un provvedimento amministrativo avviato d’ufficio, unilaterale e avente carattere ricognitivo, in quanto diretto unicamente ad accertare l’avvenuto verificarsi dei presupposti di legge (inerzia per otto anni consecutivi), provvedimento che, si ritiene, ben potrebbe avere la forma di un decreto del Rettore.

Pare evidente che tale attività d’ufficio debba avere un carattere periodico, al fine di individuare, a scadenze predeterminate, le eventuali intervenute situazioni che impongono l’adozione dei provvedimenti decadenziali.

 

 

Nella gerarchia delle fonti in materia di ordinamento universitario, pur essendo notevolmente datata, la norma in parola ricopre il ruolo di fonte primaria, corrispondente alla legge dello Stato, nonostante si palesi sotto la propria veste rétro di Regio decreto, tuttora vigente in quanto mai abrogata dalle numerose leggi susseguitesi nel tempo, e dal suo rango discendono almeno due corollari fondamentali:
1) i decreti ministeriali che hanno riformato gli ordinamenti didattici (si pensi ai decreti ministeriali n. 509/1999 e n. 270/2004) hanno natura di regolamenti ministeriali (ai sensi dell’articolo 17 comma 3 del d.P.R. n.  400/1988) e pertanto si collocano in posizione subordinata rispetto al Regio decreto, dovendone rispettare il contenuto;
2) i regolamenti didattici di Ateneo, nonostante siano manifestazione dell’autonomia regolamentare delle università, non possono mai andare in deroga alla norma generale, né riformandola in pejus (ossia abbreviando il numero degli anni che determinano la decadenza dagli studi), né tantomeno ritenendo superato l’istituto che, viceversa, continua ad essere assolutamente vigente nonostante le modifiche ordinamentali.

 

La giurisprudenza formatasi in ordine all’istituto della decadenza è (diversamente dalla rinuncia agli studi) piuttosto nutrita e anche piuttosto recente, facendosi latrice di alcuni indirizzi di rilevante importanza.

In ordine ai contorni generali e alla stessa ratio dell’istituto, T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 9 novembre 2011 n. 1809 ha evidenziato come l’articolo 149 del r.d. n. 1592/1933 non esibisce una connotazione sanzionatoria, ma si correla semplicemente all’esigenza di garantire la continuità dell’approfondimento scientifico, con il che deve ritenersi per definizione non consentito alcun apprezzamento dei motivi che abbiano in concreto determinato l’interruzione degli studi, rilevando esclusivamente l’intercorrere di un lasso di tempo corrispondente a quello indicato dalla legge fra l’ultimo esame e la ripresa degli studi.

Per quanto riguarda il corretto computo di tali anni di inerzia, che determinano la decadenza, la recente Cassazione civile, sez. III, 26 giugno 2019 n. 17052 ha precisato (riprendendo peraltro quanto già chiarito sul punto dalla giurisprudenza amministrativa) che in tema di inerzia universitaria dello studente, ai fini del computo degli otto anni necessari al maturarsi della decadenza deve aversi riguardo agli anni accademici e non a quelli solari.

Relativamente, poi, al concetto di inattività dello studente, tale da imporre la declaratoria di decadenza, la decisione del T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 5 novembre 2015 n. 750, ha chiarito che ai sensi dell’articolo 149 del r.d. n. 1592/1933 il rilievo degli esami sostenuti – ai fini del calcolo dei periodi di inerzia universitaria dello studente – prescinde dall’esito fruttuoso o infruttuoso degli esami stessi, i quali, quand’anche valutati in modo negativo, non sono comunque tamquam non esset nella considerazione della richiesta continuità degli studi intrapresi (conforme T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV, 22 dicembre 2010 n. 27979).

Dal canto suo il Consiglio di Stato, sez. IV, 27 dicembre 2011 n. 6850 aveva statuito che l’articolo 149 del r.d. 31 agosto 1933 n. 1592 assume a presupposto della declaratoria di decadenza dalla qualità di studente universitario — a garanzia della continuità degli studi e dell’approfondimento scientifico — la condizione di inerzia a sostenere esami (indipendentemente dall’esito degli stessi) per "otto anni consecutivi" (nel caso di specie, veniva sostenuta una prova scritta preliminare all’ultimo esame prima del compimento degli otto anni previsti dal citato articolo 149, che era comunque espressione dell’intento di proseguire gli studi, così sottraendosi ad ogni comminatoria di decadenza).

In materia di rapporti tra la norma primaria dell’articolo 149 in esame e l’autonomia regolamentare delle istituzioni universitarie, a conferma di quanto esposto in tema di supremazia della prima sulla seconda, il T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV, 15 marzo 2012 n. 1290 ha dichiarato l’illegittimità di un regolamento universitario che aveva previsto la comminatoria della decadenza dalla qualità di studente universitario nell’ipotesi in cui lo stesso non avesse sostenuto esami nell’arco temporale di cinque anni (anziché gli otto anni stabiliti dalla fonte primaria), dettando dunque una disciplina peggiorativa a carico dello studente; il regolamento in tal caso deve essere disapplicato senza necessità di una sua impugnativa, trattandosi di contrasto tra differenti fonti normative di diverso livello.

Sulla tematica dei margini di apprezzamento discrezionale delle amministrazioni universitarie nella declaratoria di decadenza, il Consiglio di Stato, sez. VI, 14 novembre 2011 n. 6004 ha chiarito che la norma che prevede la decadenza dalla qualità di studente universitario di coloro che non sostengono esami per otto anni consecutivi non consente interpretazioni discrezionali per l’amministrazione in ordine all’apprezzamento e alla valutazione di eventuali motivazioni determinanti l’interruzione dell’attività universitaria, costituendo quindi fonte di attività amministrativa vincolata.

In realtà, sul termine abbreviato dei cinque anni occorre osservare come abbia contribuito a creare alcune incertezze interpretative il CUN (Consiglio Universitario Nazionale, organo consultivo del sistema universitario istituito con legge n. 18 del 16 gennaio 2006) che, con la propria raccomandazione prot. n. 1848 del 14 novembre 2012 rubricata “Raccomandazione CUN in merito a decadenza dallo status di studente e obsolescenza dei crediti acquisiti”[13] ha rappresentato che “Il Consiglio Universitario Nazionale, nell’esaminare la parte generale dei regolamenti didattici di ateneo (RAD), ha riscontrato che gli Atenei adottano criteri tra loro molto diversificati, sia nell’affrontare il tema della decadenza dallo status di studente per coloro che non conseguono il titolo di studio entro intervalli temporali predeterminati, sia per quanto riguarda l’obsolescenza dei CFU acquisiti.[…] Ordinamenti previsti dal d.m. n. 509/99 e dal d.m. n. 270/04.

Le carriere degli studenti iscritti a corsi di studio istituiti ai sensi del d.m. n. 509/99 o del d.m. n. 270/04 sono soggette a quanto disposto dai decreti stessi e in particolare, per quanto attiene all’obsolescenza dei CFU acquisiti, dall’articolo 5 comma 6 di entrambi i decreti. Con l’introduzione di questa previsione anche l’istituto della decadenza, così come disciplinato dal regio decreto 31 agosto 1933 n. 1592, non risulta applicabile agli ordinamenti ex dd.mm. n. 509/99 e 270/04, e la relativa disciplina diventa materia di regolamento didattico di Ateneo.

Sulla base della normativa vigente, gli Atenei possono stabilire nel proprio regolamento didattico norme per la decadenza dello status di studente o per l’obsolescenza dei crediti acquisiti in tempi determinati (status di studente part time). In ogni caso, qualora l’Ateneo intenda stabilire numeri minimi di crediti da acquisire in tempi determinati, è necessario che tali requisiti siano diversificati per studenti impegnati a tempo pieno negli studi universitari o contestualmente impegnati in attività lavorative”.

Tale orientamento, volto ad avvalorare la tesi di una abrogazione implicita dell’istituto della decadenza ad opera dei decreti ministeriali in materia di autonomia didattica delle istituzioni universitarie, anche alla luce delle pronunce del Giudice amministrativo intervenute sul punto, non appare in effetti meritevole di condivisione.

Infine, un tema non del tutto pacifico è quello che concerne gli adempimenti prodromici all’adozione di un provvedimento di decadenza, per quanto attiene, in particolare, alla necessità o meno di effettuare la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 241/1990: in realtà, sebbene la giurisprudenza costante abbia riconosciuto come attività amministrativa vincolata la dichiarazione di decadenza di colui che non sostiene esami per otto anni consecutivi (cfr. le già citate Consiglio di Stato, sez. VI, 14 novembre 2011 n. 6004 e T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 9 novembre 2011 n. 1809), alcune pronunce hanno evidenziato come la comunicazione di avvio del procedimento, proprio nel caso di attività vincolata, può avere una sua utilità (con la conseguenza che la sua mancanza rende illegittimo il provvedimento finale) quando il contraddittorio procedimentale con il privato interessato avrebbe potuto fornire all’amministrazione elementi utili ai fini della decisione; così, Consiglio di Stato, sez. VI, 15 marzo 2010 n. 1476 ha dichiarato illegittimo il provvedimento con il quale un ateneo ha dichiarato la decadenza di un soggetto dalla qualità di studente non preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento nel caso in cui risulti che, nonostante la natura vincolata di tale dichiarazione di decadenza, il confronto con l’interessato avrebbe consegnato all’amministrazione elementi utili in vista della determinazione finale, ad esempio in ordine alla ricostruzione dei fatti o all’esatta interpretazione della norma da applicare.

 

 

5. Riflessioni conclusive

Da questa disamina comparativa emerge, in maniera cristallina, l’importanza del ruolo svolto dagli uffici preposti alla gestione della carriera degli studenti nel trattamento delle informazioni e nella cura delle carriere. Si tratta di un’attività che deve essere costantemente assicurata per garantire, da un lato, conti in ordine sotto il profilo della reale dimensione e consistenza delle popolazioni studentesche degli atenei italiani e, dall’altro, per consegnare allo studente informazioni certe e ordinate in merito alla propria carriera e agli eventi, anche accidentali, che potrebbero in qualche modo condizionarla.

Emerge anche, in tutta l’importanza, il dovere di ricondurre con rigore gli istituti descritti all’interno della categoria concettuale dell’interruzione della carriera, affinché non si ingenerino interpretazioni erronee in merito al corretto uso degli stessi.

Il supporto fornito dall’interpretazione esegetica dei testi di legge, coniugata all’ordinaria implementazione tecnica degli stessi, mostra infatti che spesso la prassi amministrativa “scavalca” i prescritti e confina in angoli di desuetudine o di marginalità alcuni istituti fondamentali. Ad esempio, la decadenza, posta a presidio di superiori esigenze di natura pubblicistica.

Orbene, è evidente che il contesto attuale in cui le istituzioni universitarie operano, ormai segnato da una natura concorrenziale, che costringe le accademie a presentarsi sul mercato come accoglienti e amichevoli a ogni costo nei confronti dello studente-cliente, finisce sovente per oscurare e snaturare quella cura concreta dell’interesse pubblico che deve comunque accompagnarsi alla gestione delle carriere studentesche nel settore dell’istruzione superiore, anche attraverso l’utilizzo corretto degli istituti oggetto di indagine nel presente contributo.

Pare, viceversa, particolarmente adeguato al tempo in cui si scrive, caratterizzato dalla pandemia da COVID-19, che le parole d’ordine degli atenei siano ordine ed efficienza al fine di garantire ai propri studenti i più alti standard di servizi possibili, nonostante l’eliminazione temporanea di alcune tra le caratteristiche proprie della vita universitaria: il contatto sociale, lo scambio di opinioni e di punti di vista, il dialogo con gli operatori.

E l’ordine nella gestione delle carriere degli studenti è il dato fondamentale per presentarsi credibili nei confronti del Ministero e degli utenti principali: studenti, famiglie unitamente al contesto sociale legato alla terza missione.

 

[1] Il riferimento è, più precisamente, al d. lgs. n. 18/2012 “Introduzione di un sistema di contabilità economico-patrimoniale e analitica, del bilancio unico e del bilancio consolidato nelle università, a norma dell’articolo 5 comma 1 lettera b) e 4 lettera a) della legge 30 dicembre 2010 n. 240”;

[2] cfr. “Burocrazia buona: processo e procedimento, una dichiarazione d’amore al diritto amministrativo” – a cura di Giorgia Canella e Gianni Penzo Doria, 8 giugno 2020 – pubblicato in Filodiritto: Burocrazia buona: processo e procedimento, una dichiarazione d’amore al diritto amministrativo.

[3] Per una rapida disamina, rinviamo alla rubrica in questa rivista: https://www.filodiritto.com/rubriche/umanesimo-manageriale e al progetto vero e proprio: https://www.umanesimomanageriale.it.

[4] cfr. legge n. 240/2010 “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”, articolo 2 comma 1 lettera p): composizione del collegio dei revisori dei conti in numero di tre componenti effettivi e due supplenti, di cui un membro effettivo, con funzioni di presidente, scelto tra i magistrati amministrativi  e contabili e gli avvocati dello Stato; uno effettivo e uno  supplente, designati dal Ministero dell'economia e delle finanze; uno  effettivo e uno supplente designati dal Ministero; nomina  dei  componenti  con decreto rettorale; durata del mandato per un massimo di quattro anni; rinnovabilità  dell’incarico  per  una  sola  volta  e  divieto di conferimento dello stesso a personale  dipendente della medesima università; iscrizione di almeno due componenti al registro dei revisori contabili”.

[5] cfr. art. 2397 del Codice civile: “Il collegio sindacale si compone di tre o cinque membri effettivi, soci o non soci. Devono inoltre essere nominati due sindaci supplenti. Almeno un membro effettivo ed uno supplente devono essere scelti tra i revisori iscritti nell’apposito registro. I restanti membri, se non iscritti in tale registro, devono essere scelti fra gli iscritti negli albi professionali individuati con decreto del Ministro della Giustizia, o fra i professori universitari di ruolo in materie economiche o giuridiche”.

[6] ANS – L’Anagrafe Nazionale degli Studenti e dei laureati è una banca dati, gestita dal MUR, che nasce con lo scopo di censire tutti gli studenti universitari iscritti ai corsi di studio istituiti a seguito del Decreto ministeriale n. 509 del 1999 (e successive modifiche). È stata istituita dalla Legge n.170 del 2003 e resa operativa dal Decreto ministeriale n. 9 del 2004.

In un’ottica “dato-centrica” ANS costituisce per ogni ateneo un importante strumento di monitoraggio della qualità delle informazioni in proprio possesso, grazie alle procedure di controllo della congruenza e della coerenza dei dati inoltrati e alla verifica incrociata con i dati che provengono da tutte le università italiane.

[7] cfr. decreto ministeriale n. 435 del 06/08/2020, relativo all’integrazione delle Linee generali di indirizzo della programmazione delle università 2019-2021 (DM 989/2019), adottate a seguito dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 con particolare riguardo all’articolo 2 - Piano Lauree Scientifiche e Piani per l’Orientamento e il Tutorato 2019-2020 – laddove si legge che “1. Per le medesime motivazioni di cui all’articolo 1, le risorse relative agli anni 2019 e 2020 destinate alle università statali per il Piano Lauree Scientifiche e per i Piani per l'Orientamento e il Tutorato, di cui all’art. 4 del d.m. 989/2019, sono utilizzate dagli atenei per il sostegno di progetti di orientamento autonomamente elaborati, anche congiuntamente tra più sedi, al fine di promuovere le immatricolazioni al prossimo anno accademico 2020/2021 e al 2021/2022, tenuto conto degli obiettivi indicati nell’allegato 2, punto 2, del d.m. n. 989/2019. 2. Le risorse di cui al comma 1, pari rispettivamente a 3 milioni di euro per il Piano Lauree Scientifiche e a 5 milioni di euro per Piani per l’Orientamento e il Tutorato, per ciascuno degli anni 2019 e 2020, sono ripartite tra le Università statali in proporzione al numero degli immatricolati ai corsi di laurea nell’anno accademico 2019/2020. Entro il mese di dicembre 2021, si provvede al monitoraggio dell’utilizzo delle predette risorse e dei risultati raggiunti, anche avvalendosi dei dati inseriti nell’anagrafe nazionale degli studenti. Le somme eventualmente non utilizzate sono recuperate a valere sulle assegnazioni del FFO relative all’anno successivo”.

[8] Il cruscotto direzionale è uno strumento informatico per l’analisi e il monitoraggio della gestione di un’organizzazione in grado di misurare il livello di raggiungimento dei target stabiliti attraverso opportuni indicatori di performance (KPIs: Key Performance Indicators), che sono calcolati utilizzando i dati provenienti da più fonti (sistemi contabili, sistemi gestionali, sistemi di controllo e di programmazione economica, banche dati, etc.).

[9] I sistemi di analisi predittiva, utilizzando meccanismi data mining e di machine learning, sono in grado di determinare la probabilità con cui un evento si verificherà nel futuro sulla base dell’analisi della sua occorrenza storica; i sistemi di analisi prescrittiva vanno oltre alle previsioni e, grazie tecniche di machine learning e intelligenza artificiale, sono in grado di riconoscere le cause di avvenimenti specifici e di individuare raccomandazioni utili sulle decisioni da prendere per raggiungere determinati risultati.

[10] Si veda peraltro sul punto, sia pure in una prospettiva de jure condendo, il progetto di legge (C. 43 Schullian, C. 1350  Ascani, C. 1573 Minardo, C. 1649 Sasso, C. 1924 CNEL e C. 2069 Lattanzio), di recente (17 dicembre 2020) esaminato in sede referente dalla Camera dei deputati e diretto a superare il divieto di contemporanea iscrizione a più università o corsi di studio universitari contenuto nell’articolo 142 comma 2 del r.d. n. 1592/1933, che viene conseguentemente abrogato, al fine (così si legge nella relazione illustrativa) di tutelare il diritto allo studio e il valore legale dei titoli, nonché di favorire l’osmosi tra ambiti universitari diversi, incrementare le opportunità di apprendimento, adeguare la preparazione degli studenti a  standard più elevati, come richiesto dal mercato del lavoro, e offrire opportunità analoghe a  quelle di altri Paesi (https://documenti.camera.it/leg18/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2020/12/17/leg.18.bol0495.data20201217.com07.pdf). 

[11] Il Consiglio di Stato in sede consultiva, sia pure in tempi ormai remoti (C.d.S., Ad. gen., parere del 26 maggio 1966 n. 66), ha chiarito che la volontà dello studente di abbandonare l’iscrizione deve necessariamente essere calata in un documento formale (dunque per iscritto), stante anche il carattere recettizio della rinuncia, che esplica i propri effetti una volta che pervenga all’università interessata; la c.d. rinuncia tacita, per comportamento negativo concludente, che pure può essere astrattamente ipotizzabile, non può trovare concreto riscontro nella pratica soprattutto alla luce della considerazione che da una condotta meramente negativa non si può desumere con sufficiente sicurezza la volontà di abbandonare la precedente iscrizione e dunque la semplice inerzia dello studente è inidonea a dimostrare la volontà di rinunciare (così anche C.d.S., Ad. gen., parere del 8 novembre 1962 n. 729 e C.d.S., sez. VI, 10 novembre 1964 n. 800). Addirittura, secondo il Supremo organo di giustizia amministrativa, non implicano necessariamente la volontà di rinunciare sia l’omesso versamento delle tasse universitarie, sia, addirittura, la circostanza che lo studente, dopo essersi allontanato, per un tempo più o meno lungo, dalle lezioni e dagli esami, senza pagare le tasse relative, si iscriva poi ad altro ateneo o istituto; la semplice nuova iscrizione, infatti, si aggiunge alla precedente e non produce alcun effetto estintivo del pregresso status giuridico universitario, mancando dunque, in tale ipotesi, un sicuro indice rivelatore dal quale possa desumersi che lo studente abbia, in effetti, inteso rinunciare alla precedente iscrizione anziché porre in essere il cumulo vietato dall’articolo 142 comma 2 del r.d. n. 1592/1933.

[12] cfr. la (ormai risalente) circolare ministeriale n. 2569 del 4 luglio 1966.

[13] cfr. il testo integrale della raccomandazione: DECADENZASTATUSTUDENTI7NOVEMBRE2012.