x

x

I buoni esempi

scuola
scuola

I buoni esempi

La scuola e la vita, ecco un solenne soggetto da Italia umbertina che neppure il più arretrato dei maestri s’azzarderebbe a proporre ai suoi scolari senza temere l’accusa di oscurantista. Eppure, una gran dama moderna e scrittrice di successo come Susanna Agnelli non ha temuto di riaprire il vecchio librone abbandonato per scriverci la sua sentenza. E’ accaduto ad Affori, che le antiche guide descrivono “un villaggio di Lombardia, tre miglia a nord di Milano, sulla strada postale che va a Como”. Il suo territorio, che fu “ubertoso in cereali, gelsi e viti”, s’è riempito di un’edilizia di periferia industriale che mal si concilia con l’amena memoria della banda paesana, col suo “tamburo principale che comanda a centocinquanta pifferi”, come diceva una canzonetta, che si cantava sotto le bombe della seconda guerra mondiale.

In una scuola media di Affori è scesa Susanna Agnelli, sorella del più celebre avvocato nazionale, scrittrice e sindaco, ravvivando quelle periferie desolate con quel soffio esotico e protettivo, che ai nostri tempi circondava le apparizioni della principessa di Piemonte. Lasciato a casa l’impegnativo vestito alla marinara, s’è presentata in camicetta aperta, gonna e golfino, una mise semplice e alla mano, adattissima per mostrare a questi umili figli del popolo che i grandi e i ricchi sono, dopotutto, proprio come loro. Una semplicità scevra di quelle ostentazioni di dovizia che confondono i meno fortunati, e li offendono: l’avrebbe approvata una coorte di educatori ottocenteschi schierata dietro l’ombra austera di Pietro Thouar.

“Come ha passato l’infanzia?”, le chiese un frugoletto, vispo figlio d’operai. E la signora, saviamente deludendo ogni aspettativa d’ignoti paradisi: “Educata in modo severo, con una governante inglese. Mai soldi in tasca”. Il piccolo uditorio plebeo rabbrividì all’evocazione della despota britanna; ma dovettero pur fremere d’orgoglio i piccini che, seppur meno fortunati, qualche soldarello se lo sentivano battere nelle taschine. “Un’infanzia abbastanza triste. Di libertà si parlava poco”, insistè lei, grave, che quei ragazzi non provassero il corrosivo sentimento dell’invidia. Di liberà, loro, ne avranno fin troppa in quelle giornate non afflitte da governanti inglesi ma neppure dalla presenza dei genitori, occupati a lavorare fuori. Fin qui, m’immagino che il preside, professor Condemi De Felice, gongolasse per quel suo discorso succoso, così sociale e pieno di garbo. Poi, uno domandò: “Senta, signora, quali voti prendeva a scuola?”, e Susanna Agnelli non resistè alla tentazione di inforcare il vecchio metaforico ronzino della retorica antiscolastica, che i più bravi a scuola riescono a poco nella vita: “Non ho mai fatto una tema che ha avuto la sufficienza”, disse: e rafforzò il concetto giustiziando il congiuntivo, borbonico e passatista, che forse il preside avrebbe adoperato. Pensate l’esultanza dei meno favoriti dalla pagelle, all’udire questa versione rinnovata di un apologo coniato in tempi lontani per il cruccio degli sgobboni e la rivalsa dei michelacci, scaldabanchi e ripetenti, come si chiamavano allora.

L’anno scorso, un autore tedesco, Gerhard Prause, volle verificare il detto (che cosa non si verifica oggi? Che cosa non verificano i tedeschi?) e spulciò le carriere scolastiche di cento personaggi famosi. Edison non sopportò la scuola più di tre mesi, poi dette della zucca al maestro e se ne andò per sempre, il che non gl’impedì d’accumulare duemila e cinquecento brevetti e diventar celebre e ricco. Marconi non andò a scuola, Winston Churchill, Thomas Manne e Federico il Grande furono pessimi scolari. Ma scoprì anche, il Prause, che il vecchio adagio è falso, e i cattivi scolari col successo nella vita sono rare eccezioni.

L’intervista finì con un giuoco, che la signora Susanna ha imparato in America: le parti s’invertono, e sono i ragazzi a dare il voto ai maestri. “Quanto gli dareste voi, bambini?” Le piccole mani, dapprima trattenute dagli atavici terrori della repressione medievale, si sciolsero alla graziosa istigazione, e levandosi in alto indicarono i primi numeri dell’abaco: un, due, tre. Ci fu uno, di spirito piattamente moderato, che osò un quattro. Ma per fortuna, rimediò alla piaggeria un altro che compose, col pollice e l’indice uniti, un bello zero. Salutare inversione di sorti, oggi a me, domani a te. Un piccolo massacro giocoso, che non mancherà di dare i suoi frutti. Come tutti i buoni esempi.

Da “Il Giornale”, 21 novembre 1975