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Il diritto di difesa come argine all’arbitrio punitivo

Estratto da "Il giusto processo criminale come teatro di verità e giustizia" - Filodiritto Editore - 2011 - www.filodirittoeditore.com
[Estratto da "Il giusto processo criminale come teatro di verità e giustizia" - Filodiritto Editore - 2011 - www.filodirittoeditore.com]

Si è detto che <<nello stato di mera natura, prima che gli uomini si vincolassero reciprocamente con dei patti, ciascuno poteva legittimamente fare qualsiasi cosa nei confronti di chiunque altro>> . Tuttavia, <<quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo>> . <<Da questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo consegue anche che niente può essere ingiusto. Le nozioni di diritto e torto, di giustizia e ingiustizia non vi hanno luogo. Laddove non esiste un potere comune, non esiste legge; dove non vi è legge non vi è ingiustizia>> . Ed un tale potere comune <<è istituito, quando gli uomini di una moltitudine concordano e stipulano – ciascuno singolarmente con ciascun altro – che qualunque sia l’uomo, o l’assemblea di uomini a cui verrà dato dalla maggioranza il diritto di incarnare la persona di tutti loro (cioè a dire il loro rappresentante) ognuno – che abbia votato a favore o che abbia votato contro – autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini della stessa maniera che se fossero propri, affinché possano vivere in pace fra di loro ed essere protetti contro gli altri uomini>> .

Se si concepisce, al di là delle sfumature teoriche politiche, che i sudditi abbiano abdicato o debbano abdicare alla pura volontà sovrana, come già notato, non vi può essere spazio perché la ragione abbia un senso all’interno del sistema giuridico. Ma – ed il punto è fondamentale – la soggezione totale al Principe, quand’anche scritta e sottoscritta, è solo un’opzione e non anche la necessaria conseguenza di tutte le forme di governo. È solo grazie ad una miope visione sul punto che è stato possibile affermare che il suddito, in conseguenza dell’istituzione dello Stato, è <<autore di tutte le azioni e di tutti i giudizi del sovrano costituito>>, così che <<qualsiasi cosa questi faccia non può costituire un torto verso alcuno dei suoi sudditi, e che il sovrano non deve essere accusato di ingiustizia da alcuno di loro>> . In una simile ottica, l’eventuale ingiustizia operata ai danni del singolo non viene considerata e si pone il suddito in una sorte di guerra impari e “naturale” con il proprio Stato: ma se ciò è, come si può dire e sostenere che il male che viene inflitto è previamente autorizzato dal cittadino?

Da millenni si domanda <<se lo Stato sia governato meglio da un ottimo re piuttosto che da un’ottima legge>> e non anche se una qualunque legge o un qualunque re possa governare lo Stato. E’ chiaro che <<se si dice che una legge positiva sta al di sopra di chi governa, ciò non è perché essa sia positiva, ma perché in essa si conserva la forza (virtus) del diritto naturale>> cioè è espressione di principi universali e, dunque, razionali. Porre freni universali all’esercizio della forza del potere, non conduce a contraddire il diritto e neppure il concetto di sovranità: semplicemente, con ciò si manifesta l’esigenza di non confondere il tutto con nebbie d’odio e legittimare ogni perversione nell’interesse del suddito stesso. Ciò che la scienza penale ed in special modo quella processuale non deve mai fare, è ammettere l’insensibilità morale per ogni forma dell’agire punitivo. Chi vuole trincerarsi sopra elementi puramente giuridici, del resto, non è in grado di spiegare e neppure comprendere le dinamiche ed i mutamenti dei diversi sistemi normativi. Per vedere, bisogna poter vedere: ma ciò non basta, poiché si può anche non voler vedere.

Il diritto di difesa, certamente, è un limite, ma è un limite all’esercizio della forza dello Stato contro l’uomo. Perché la punizione possa essere accettata o quanto meno accettabile, è indispensabile che lo Stato non si comporti come l’uomo ferino: diversamente, si dovrebbe ammettere che lo Stato, sorto per impedire che l’uomo diventi lupo dell’uomo, si trasformi esso stesso in feroce belva e, come tale, tratti da potenziale nemico o cibo ogni suo suddito. Lo Stato mira, nella sua idea, a permettere la felicità dei sudditi; ma ammettere che esso possa mangiare chi voglia, sol perché lo voglia, significa sostenere, in realtà, che lo stato civile è uno stato artificiale di guerra permanente dell’uomo contro l’uomo ovvero di classi di uomini. Che ciò possa essere, come la storia dimostra ancor oggi, è indubitabile: che ciò debba necessariamente essere, è cosa su cui mi permetto di dissentire.

Il pieno e assoluto riconoscimento del diritto di difesa del reo è un baluardo fondamentale del cittadino contro un arbitrario e concreto esercizio del potere punitivo sovrano; è, in altri termini, ciò che permette di frenare, grazie alla riflessione, l’applicazione di una sofferenza. Ciò a cui mira nella sostanza il diritto di difesa può allora essere così sintetizzato: far sì che ogni punizione sia in effetti oggetto di vero ragionamento, di modo che chi giudichi sopra un altro e permetta d’agire contro di lui per recargli un male o una sofferenza, giudichi secondo ragione e coscienza.

“La ragione”, a cui si riferisce, - si torna a ripetere - qui non rileva in quanto facoltà ineffabile capace di determinare ciò che è meritevole di punizione, ma in quanto criterio d’azione della punizione. Il diritto di difesa diviene universalizzabile, poiché può essere riconosciuto come elemento da tutelare ai fini di una corretta decisione. Ciò che è universale, insomma, non è la decisione, la quale per sua stessa natura è concreta e particolare, ma il modus procedendi. In un sistema nel quale tutti sono soggetti alla legge, tutti possono essere rei e, quindi, tutti possono godere di tale diritto. Uguaglianza e distinzione dei poteri sono, del resto, gli elementi costituzionali indispensabili perché si possa realizzare un “giusto” processo. Senza di essi, ogni discussione sul punto, avrebbe mera parvenza di discussione accademica. Ma se così è, allorché si miri a configurare quali possano essere i criteri razionali dell’azione punitiva, è inammissibile immaginare loro deroghe, quali che siano le esigenze sociali del momento e l’utilità collettiva posta a fondamento del potere politico.

[Estratto da "Il giusto processo criminale come teatro di verità e giustizia" - Filodiritto Editore - 2011 - www.filodirittoeditore.com]

Si è detto che <<nello stato di mera natura, prima che gli uomini si vincolassero reciprocamente con dei patti, ciascuno poteva legittimamente fare qualsiasi cosa nei confronti di chiunque altro>> . Tuttavia, <<quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo>> . <<Da questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo consegue anche che niente può essere ingiusto. Le nozioni di diritto e torto, di giustizia e ingiustizia non vi hanno luogo. Laddove non esiste un potere comune, non esiste legge; dove non vi è legge non vi è ingiustizia>> . Ed un tale potere comune <<è istituito, quando gli uomini di una moltitudine concordano e stipulano – ciascuno singolarmente con ciascun altro – che qualunque sia l’uomo, o l’assemblea di uomini a cui verrà dato dalla maggioranza il diritto di incarnare la persona di tutti loro (cioè a dire il loro rappresentante) ognuno – che abbia votato a favore o che abbia votato contro – autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini della stessa maniera che se fossero propri, affinché possano vivere in pace fra di loro ed essere protetti contro gli altri uomini>> .

Se si concepisce, al di là delle sfumature teoriche politiche, che i sudditi abbiano abdicato o debbano abdicare alla pura volontà sovrana, come già notato, non vi può essere spazio perché la ragione abbia un senso all’interno del sistema giuridico. Ma – ed il punto è fondamentale – la soggezione totale al Principe, quand’anche scritta e sottoscritta, è solo un’opzione e non anche la necessaria conseguenza di tutte le forme di governo. È solo grazie ad una miope visione sul punto che è stato possibile affermare che il suddito, in conseguenza dell’istituzione dello Stato, è <<autore di tutte le azioni e di tutti i giudizi del sovrano costituito>>, così che <<qualsiasi cosa questi faccia non può costituire un torto verso alcuno dei suoi sudditi, e che il sovrano non deve essere accusato di ingiustizia da alcuno di loro>> . In una simile ottica, l’eventuale ingiustizia operata ai danni del singolo non viene considerata e si pone il suddito in una sorte di guerra impari e “naturale” con il proprio Stato: ma se ciò è, come si può dire e sostenere che il male che viene inflitto è previamente autorizzato dal cittadino?

Da millenni si domanda <<se lo Stato sia governato meglio da un ottimo re piuttosto che da un’ottima legge>> e non anche se una qualunque legge o un qualunque re possa governare lo Stato. E’ chiaro che <<se si dice che una legge positiva sta al di sopra di chi governa, ciò non è perché essa sia positiva, ma perché in essa si conserva la forza (virtus) del diritto naturale>> cioè è espressione di principi universali e, dunque, razionali. Porre freni universali all’esercizio della forza del potere, non conduce a contraddire il diritto e neppure il concetto di sovranità: semplicemente, con ciò si manifesta l’esigenza di non confondere il tutto con nebbie d’odio e legittimare ogni perversione nell’interesse del suddito stesso. Ciò che la scienza penale ed in special modo quella processuale non deve mai fare, è ammettere l’insensibilità morale per ogni forma dell’agire punitivo. Chi vuole trincerarsi sopra elementi puramente giuridici, del resto, non è in grado di spiegare e neppure comprendere le dinamiche ed i mutamenti dei diversi sistemi normativi. Per vedere, bisogna poter vedere: ma ciò non basta, poiché si può anche non voler vedere.

Il diritto di difesa, certamente, è un limite, ma è un limite all’esercizio della forza dello Stato contro l’uomo. Perché la punizione possa essere accettata o quanto meno accettabile, è indispensabile che lo Stato non si comporti come l’uomo ferino: diversamente, si dovrebbe ammettere che lo Stato, sorto per impedire che l’uomo diventi lupo dell’uomo, si trasformi esso stesso in feroce belva e, come tale, tratti da potenziale nemico o cibo ogni suo suddito. Lo Stato mira, nella sua idea, a permettere la felicità dei sudditi; ma ammettere che esso possa mangiare chi voglia, sol perché lo voglia, significa sostenere, in realtà, che lo stato civile è uno stato artificiale di guerra permanente dell’uomo contro l’uomo ovvero di classi di uomini. Che ciò possa essere, come la storia dimostra ancor oggi, è indubitabile: che ciò debba necessariamente essere, è cosa su cui mi permetto di dissentire.

Il pieno e assoluto riconoscimento del diritto di difesa del reo è un baluardo fondamentale del cittadino contro un arbitrario e concreto esercizio del potere punitivo sovrano; è, in altri termini, ciò che permette di frenare, grazie alla riflessione, l’applicazione di una sofferenza. Ciò a cui mira nella sostanza il diritto di difesa può allora essere così sintetizzato: far sì che ogni punizione sia in effetti oggetto di vero ragionamento, di modo che chi giudichi sopra un altro e permetta d’agire contro di lui per recargli un male o una sofferenza, giudichi secondo ragione e coscienza.

“La ragione”, a cui si riferisce, - si torna a ripetere - qui non rileva in quanto facoltà ineffabile capace di determinare ciò che è meritevole di punizione, ma in quanto criterio d’azione della punizione. Il diritto di difesa diviene universalizzabile, poiché può essere riconosciuto come elemento da tutelare ai fini di una corretta decisione. Ciò che è universale, insomma, non è la decisione, la quale per sua stessa natura è concreta e particolare, ma il modus procedendi. In un sistema nel quale tutti sono soggetti alla legge, tutti possono essere rei e, quindi, tutti possono godere di tale diritto. Uguaglianza e distinzione dei poteri sono, del resto, gli elementi costituzionali indispensabili perché si possa realizzare un “giusto” processo. Senza di essi, ogni discussione sul punto, avrebbe mera parvenza di discussione accademica. Ma se così è, allorché si miri a configurare quali possano essere i criteri razionali dell’azione punitiva, è inammissibile immaginare loro deroghe, quali che siano le esigenze sociali del momento e l’utilità collettiva posta a fondamento del potere politico.