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La coabitazione occasionale non configura il reato di maltrattamenti in famiglia

Ex articolo 572 Codice Penale: la giurisprudenza chiarisce cosa si intende per “convivenza”
convivenza more uxorio
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Indice:

1. I motivi del ricorso per Cassazione

2. La decisione della Corte di Cassazione

3. Il commento

4. La concezione giuridica di “famiglia” e di “convivenza”

5. Il rilievo della stabilità delle relazioni affettive

6. Conclusioni

 

1. I motivi del ricorso per Cassazione

Il ricorrente, imputato dei reati di maltrattamenti e lesioni personali aggravati, oltreché di violenza sessuale commessi ai danni della convivente, impugnava la sentenza del giudice di secondo grado, lamentando sostanzialmente due doglianze.

In primo luogo, la difesa asseriva che la Corte territoriale aveva omesso di valutare gli elementi di prova dalla stessa dedotti, atti invece a comprovare l’insussistenza del delitto di violenza sessuale tanto ex se, quanto in relazione alla relativa collocazione temporale individuata dal giudice di prime cure.

Il ricorrente, inoltre, deduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione al delitto di maltrattamenti contestatogli, denunciando, in particolare, l’assenza dell’elemento costitutivo della convivenza, assunto invece indispensabile ai fini della configurabilità del reato ex articolo 572 Codice Penale contestatogli.

A sostegno di detta tesi, invero, l’imputato sottolineava come la relazione sentimentale intercorrente tra lui e la compagna si fondasse su una frequentazione domestica meramente sporadica, non riconducibile, pertanto, né a un rapporto di coniugio, né tanto meno ad una situazione di c.d. “famiglia di fatto”.

 

2. La decisione della Corte di Cassazione

In ordine al primo dei motivi esposti dal ricorrente, la Corte premetteva che l’accertamento dei reati sessuali deve essere sempre fondato sulle dichiarazioni rese rispettivamente dall’imputato e dalla persona offesa, specie se in assenza di riscontri certi e oggettivi.

In virtù di tale principio, il Collegio dava atto di come sia il giudice di primo grado che quello del gravame avessero valutato attentamente le dichiarazioni e i dati fattuali offerti da ambo le parti, concludendo correttamente tanto per la sussistenza del delitto, quanto per la relativa collocazione temporale.

Per quanto riguarda, invece, la seconda censura, la Corte riteneva che il giudice di secondo grado avesse reso una motivazione non idonea ad accertare la sussistenza della convivenza in esame, osservando, piuttosto, come nel caso di specie mancassero totalmente i presupposti necessari per comprovarla.

Sul punto, infatti, la Corte ribadiva che il reato di maltrattamenti può configurarsi certamente anche in una situazione relazionale, purché la stessa, però, risulti comunque basata “su un’assidua frequentazione della abitazione della persona offesa tale da far sorgere sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale, o di un rapporto familiare di mero fatto in assenza di una stabile convivenza ma con un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza”.

Richiamato detto principio, i giudici davano conseguentemente atto di come la relazione tra il ricorrente e l’offesa si fosse instaurata in tempi appena recenti, durante i quali, invero, la coabitazione si era limitata a pochi giorni consecutivi, oltreché in un’abitazione diversa da quella in cui l’imputato era regolarmente domiciliato.

Sulla base di dette argomentazioni, pertanto, la Corte pronunciava l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla condanna per il reato di maltrattamenti a danno dei conviventi o familiari, rigettando il ricorso nel resto.

 

3. Il commento

Come poc’anzi esposto, il giudice di legittimità non ha riconosciuto la sussistenza della convivenza, assunta invece ad elemento costitutivo ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi di cui all’articolo 572 Codice Penale.

A ben vedere, la ratio sottesa al giudizio della Corte si fonda proprio sulla rilevata assenza di una comunione di intenti pensata dalle parti ai fini di rendere la loro relazione affettiva stabile e duratura, esprimendo così una visione ben marcata rispetto a ciò che debba concretamente intendersi per “famiglia” e/o “convivenza”.

Ciò posto, dunque, occorre verificare se l’opinione offerta dal giudice di legittimità risulti effettivamente conforme al concetto di “famiglia” e “convivenza” come tutelato dalla legislazione vigente, oltreché correlativamente a quanto inteso e percepito dall’attuale società civile.

 

4. La concezione giuridica di “famiglia” e di “convivenza”

Sin dagli albori della società, la famiglia costituisce l’istituzione sociale per eccellenza, fondamentale per la continuazione della specie umana e per l’interrelazione tra i singoli soggetti.

Nel corso nei secoli, l’istituto della famiglia si è visto al centro di un vero e proprio dinamismo culturale che ha comportato il graduale mutamento della relativa concezione, inducendo così i vari legislatori del tempo ad intervenire normativamente al fine di regolarne la struttura in risposta alle esigenze prospettate nelle rispettive epoche di riferimento.

Con particolare riguardo all’Italia, il complesso degli avvenimenti verificatisi nel secolo scorso ha contribuito a un’evoluzione estremamente significativa dell’istituto della famiglia, riconoscendo ai relativi componenti molteplici diritti e doveri ritenuti per molto tempo inesistenti e che, allo stato, giocano un ruolo fortemente sensibile, specialmente se posti in relazione alle generazioni future, ancorché demandate alla gestione e alla costruzione di una sempre più fiorente società civile.

Per comprendere l’entità di detto progresso, basti pensare a quelle prescrizioni tipiche dell’Italia del primo Novecento, che oggi definiremmo senza dubbio arcaiche – rectius, illegittime - , come la tassa sul celibato imposta dal regime fascista degli anni ’30, finalizzata ad incentivare la continuità del popolo italiano, o il ruolo passivo tipicamente attribuito alla donna, quale moglie e madre, demandata esclusivamente a custodire il c.d. “focolare domestico”, oppure ancora alla differenziazione normativa tra “figli legittimi” o “illegittimi”, e via dicendo.

Argomentazioni e assunti che, nei tempi attuali, non possono che suscitare riflessioni di rilievo, tanto a livello personale, quanto giuridico-sociale, poiché incentrate su una fondamentale caratteristica di vita che riguarda da vicino ogni singolo individuo, quale appunto l’unione famigliare.

L’avvento della Carta Costituzionale del 1948, poi, sulla base di un evidente sviluppo ideologico-politico, ha introdotto una concezione di “famiglia” intesa come nucleo sociale principale, riconoscendo l’inviolabilità dei diritti di tutti i suoi componenti, tanto con riferimento alle donne (quali madri e mogli), quanto ai figli, rimettendo loro reciproci diritti e obblighi finalizzati alla conservazione e alla tutela di questa così preziosa e importante istituzione.

Sul punto, però, pare opportuno evidenziare come la predetta evoluzione sociale, ancor più accentuata dall’entrata nel nuovo secolo, abbia sconfinato ulteriormente le garanzie primarie offerte dalla Costituzione, tanto che, a giudizio dei più, occorrerebbe quanto prima apportare dovute modifiche ai relativi articoli 29 e 30, dato il riferimento alla famiglia circoscritta a società fondata esclusivamente sul matrimonio, oltre che alla discrasia letterale tra famiglia legittima e illegittima.

Ciò poiché, come preannunciato, la portata garantista del complesso di norme attualmente in vigore e il conseguente mutamento di indirizzo assunto dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte Costituzionale hanno senza dubbio trasceso il tenore letterale delle disposizioni citate, intendendo così per “famiglia” una società meramente naturale, costituita da spontanee e libere relazioni affettive finalizzate a perdurare nel tempo, in quanto intese al reciproco rispetto e alla comune assistenza. 

La nuova concezione di famiglia, pertanto, ha indotto il nostro legislatore a constatare nella realtà odierna l’esistenza di molteplici modelli familiari, offrendo loro puntuale tutela a seconda che essi si connotino per la nascita di figli, anche al di fuori del vincolo matrimoniale, ovvero per il solo elemento peculiare della convivenza.

Più specificamente, ai sensi dell’articolo 143 c.c., la coabitazione costituisce uno dei doveri reciprocamente assunti in capo ai coniugi a seguito della contrazione del matrimonio, in ossequio all’adempimento degli ulteriori obblighi di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione e sostegno alla famiglia.

A ben vedere, però, la convivenza concerne allo stato anche un modello di unione alternativo al vincolo matrimoniale, ancorché assunta idonea a dar vita a una vera e propria “unione parafamiliare”, sia essa “di fatto” ovvero “more uxorio” (c.d. “non registrata), e riconosciuta a tutti gli effetti dal legislatore mediante la L. 76/2016 (c.d. “Legge Cirinnà”), istituendo una vasta gamma di disposizioni atte a tutelare e a regolamentare la vita della coppia convivente, proprio perché integrante un nucleo familiare a tutti gli effetti.

A tale proposito, giova sottolineare ancora una volta la portata straordinaria dell’evoluzione del concetto di famiglia legato anche alla mera convivenza, considerato che le disposizioni di cui alla “Legge Cirinnà” trovano applicazione tanto per le coppie eterosessuali, quanto per quelle omosessuali.

Di conseguenza, traspare con una certa evidenza quanto il quadro giuridico attuale abbia riconosciuto retta dignità ad ogni forma naturale dei rapporti di coppia, anche se di sesso opposto e se diversi dalla struttura giuridica tipica del matrimonio (così Corte Costituzione, sent. 310/1989), posto che la fisiologia valoriale logicamente connaturata alla “famiglia” ex se precede ogni potere pubblico costituito a salvaguardia del relativo e imprescindibile rilievo personale e sociale. 

Tuttavia, in detta sede si assume doveroso effettuare ulteriori chiarimenti.

 

5. Il rilievo della stabilità delle relazioni affettive

Le considerazioni sin qui illustrate in relazione al riconoscimento di modelli familiari alternativi al matrimonio valgono soltanto se postulate a talune caratteristiche la cui sussistenza deve incontrovertibilmente rilevarsi in capo alla coppia convivente.

Assodata l’evidente diversità formale tra l’istituzione matrimoniale e la situazione della convivenza di fatto o more uxorio, infatti, la ratio legis sottesa alla tutela legalmente disposta per le coppie conviventi deve presumibilmente ricondursi a due argomentazioni di eguale rilievo.

La prima, in particolare, si deve alla salvaguardia di un diritto inviolabile riconosciuto in capo ai conviventi ex articolo 2 Costituzione, poiché finalizzato ad esprimere la loro personalità nella presente formazione sociale nata in conseguenza della loro relazione affettiva.

La seconda, invece, si fonda su di una constatazione meramente logica, data dal ragionevole assunto per cui la scelta della coabitazione operata spontaneamente della coppia sia stata giocoforza subordinata alla presenza di un vincolo affettivo ben saldo e solidale.

Detto rapporto, infatti, seppur in misura minore rispetto a quanto previsto per i coniugi, deve ad ogni modo presentare i caratteri della stabilità e della certezza, nonché della reciprocità dei diritti e doveri personalmente assunti dai conviventi, proprio perché in assenza dei medesimi a nulla varrebbe la conseguente instaurazione della convivenza.

Non a caso, anche la convivenza more uxorio, pur prescindendo da taluni dei requisiti assunti per il riconoscimento della convivenza “di fatto” (ad ex. mancata dichiarazione anagrafica), risulta legalmente costituita ad immagine dell’unione familiare soltanto laddove connotata da quelle caratteristiche ad essa fisiologicamente associabili, quali punto la sussistenza di un vincolo sentimentale serio e socialmente riconoscibile, ancorché basato su un’effettiva comunanza di vita e di affetti.

 

6. Conclusioni

Sulla base delle argomentazioni sinora esposte, pertanto, non può allora non condividersi il giudizio espresso dalla Corte di Cassazione in ordine all’insussistenza del reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi ex articolo 572 Codice Penale, rilevato che, in assenza di un’effettiva coabitazione, oltreché di qualsivoglia stabilità o progettualità riferibile alla relazione tra le parti, all’imputato doveva tutt’al più contestarsi il reato di lesioni personali aggravate ex articoli 582 e 585 Codice Penale.

Il ragionamento effettuato dalla Corte, invero, pare pienamente conforme all’attuale concezione giuridica di “famiglia” fondata sulla sola convivenza, la quale nella vicenda in esame non poteva certamente rinvenirsi, stante l’assenza di tutti i requisiti di legge richiesti ai fini del relativo riconoscimento.

Anzi, di più. Come evidenziato dalla stessa Corte, nel caso di specie il reato di maltrattamenti ex articolo 572 Codice Penale si sarebbe potuto configurare anche in assenza di convivenza, a condizione che il ricorrente, però, avesse agito ai danni della compagna ove a lei legato da un vincolo affettivo stabile.

Sul punto, invece, il Collegio ha rilevato come la relazione sentimentale in esame fosse nata in tempi recenti, difettando così del requisito della serietà a contrariis necessario per poter riferirsi concretamente ad una “famiglia”, anche se di fatto.

Con detta sentenza, dunque, la Corte ha colto l’occasione per rimarcare ulteriormente il rilievo giuridico proprio dell’istituzione familiare figurabile in tutte le sue molteplici forme, a dimostrazione di un costante dinamismo socio-culturale sempre più finalizzato alla salvaguardia delle attuali relazioni affettive e sentimentali fondate su intenti solidali e responsabili.