x

x

La mediazione familiare attraverso la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia

La mediazione familiare attraverso la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia

Dott.ssa Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice presenta le specificità e la natura della mediazione familiare attraverso il tessuto normativo dell’atto internazionale, mettendo in risalto la stretta correlazione tra funzione educativa e funzione mediativa.

A differenza di alcune leggi regionali che includevano la mediazione familiare nei servizi per la famiglia o per i minori (es. art. 5 della legge regionale n. 1 del 2 febbraio 2004 della Regione Calabria “Politiche regionali per la famiglia”; artt. 5 e 6 della legge regionale n. 34 del 14 dicembre 2004 della Regione Lombardia “Politiche regionali per i minori”), la legislazione regionale più recente, seppure apprezzabile nell’impegno di legiferare in una materia negletta dal legislatore statale, continua a considerare e a definire, in una visione adultocentrica, la mediazione familiare un servizio a sostegno dei genitori in crisi. Per esempio nell’art. 2 della legge regionale del 7 ottobre 2008 n. 34 della Regione Liguria “Norme per il sostegno dei genitori separati in situazione di difficoltà” si prevedono: “interventi di tutela e di solidarietà in favore dei genitori separati in situazione di difficoltà, attraverso la realizzazione dei Centri di Assistenza e Mediazione familiare” (lo stesso vale per la legge regionale n. 37 del 30 dicembre 2009 della Regione Piemonte “Norme per il sostegno dei genitori separati e divorziati in situazione di difficoltà”). Si trascurano in tal modo le indicazioni di documenti non normativi, a livello internazionale e nazionale, come il Documento finale “Un mondo a misura di bambino” (maggio 2002) della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale dell’ONU sull’infanzia e la Petizione “La parola ai bambini”, a seguito del primo Convegno Nazionale sulla giustizia minorile dell’UNICEF Italia (svoltosi a Firenze nell’aprile 2004).

Per riportare il bambino al centro nella mediazione familiare e trarre delle direttive bisognerebbe rileggere la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989 (cosiddetta Convenzione di New York), come s’è fatto nel Documento “Per una mediazione a misura di bambini”, a seguito del secondo Convegno Nazionale sulla giustizia minorile promosso dall’UNICEF Italia (svoltosi a Bari nell’aprile 2005).

Parafrasando i capoversi quinto e seguenti del Preambolo della Convenzione si può affermare che la mediazione familiare fornisce l’assistenza e la protezione necessarie alla famiglia perché continui ad assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità. È una mediazione passiva affinché la famiglia seppure in crisi possa continuare ad essere “luogo di mediazione attiva”, com’è stata da alcuni definita.

Riconosciuto che il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione, la mediazione tenta di riportare la vita familiare allo spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di eguaglianza e di solidarietà. Questi principi devono costituire l’alfabeto cui indirizzare la coppia in crisi. In particolare i confliggenti sono portati a “com- prendere” che la solidarietà è un vincolo indissolubile anche nelle famiglie lacerate e la primaria forma di questa solidarietà è la genitorialità che, peraltro, è la naturale metamorfosi dell’intimo vincolo (etimologicamente “qualcosa che avvolge, intreccia” e quindi più forte del semplice “legame”) della coppia, ovvero della sponsalità (“farsi promesse”) e della coniugalità (“assumere lo stesso peso”), indipendentemente dalle sorti del matrimonio.

“In tutte le decisioni riguardanti i fanciulli […], l’interesse superiore del fanciullo deve costituire oggetto di primaria considerazione” (art. 3 par. 1 Convenzione); l’intervento (dal significato latino “venire in mezzo”) mediativo è finalizzato a riportare l’attenzione dei genitori, concentrati su se stessi e sulle loro rivendicazioni, dal contendersi il figlio o dallo strumentalizzarlo a confliggere (dal significato latino “far incontrare, mettere a confronto”) verso l’interesse (letteralmente “che sta in mezzo”) del bambino.

La famiglia non è solo il nucleo composto di genitori e figli ma un complesso di relazioni (nell’art. 29 della nostra Costituzione la famiglia è giustamente definita “società naturale”) non necessariamente giuridiche o fisiche, ma significative che contribuiscono alla formazione dell’identità del bambino. La conflittualità familiare mina il processo identitario e le relazioni familiari, mentre la mediazione mira a ristabilire sollecitamente questa rete (parafrasando l’art. 8 Convenzione).

La mediazione familiare dà la possibilità in un ambiente stragiudiziale, scevro da formalità e dall’esacerbazione di alcuni avvocati, di partecipare al dibattimento e di esporre le proprie ragioni (art. 9 par. 2 Convenzione). In tal modo si ristabilisce la comunicazione (dal latino “cum”, con e “munus”, onere, prestazione) che è propriamente partecipare (essere partecipe e rendere partecipe), dibattere (discutere attentamente), esporre le proprie ragioni, rendere noto all’altro il proprio carico interiore. Si prende coscienza del diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di mantenere relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori (art. 9 par. 3 Convenzione), perché la genitorialità è innanzitutto relazionalità che non si può esplicare in un assegno di mantenimento o in semplici visite prefissate.

La mediazione familiare serve anche a mettersi all’ascolto del fanciullo (art. 12 par. 2 Convenzione) ricordando che “ascolto” non è semplicemente sentire, ma (dal latino “aus”, orecchio e “colere”, coltivare, letteralmente “coltivare nell’orecchio”) è sentire attentamente, prestare attenzione. Ha la stessa origine etimologica di “cultura” (dal latino “colere”, che significa anche “curare, praticare”) e la mediazione prima di essere un servizio è una cultura, come ribadito nel Documento dell’UNICEF Italia del 2005.

La mediazione familiare accompagna i genitori in crisi di coppia a riappropriarsi (in gergo “self empowerment”) delle comuni responsabilità in ordine all’allevamento ed allo sviluppo del bambino (art. 18 Convenzione), perché un altro aspetto ineludibile della genitorialità è la comune responsabilità endofamiliare ed esofamiliare. Nella mediazione, incanalando la conflittualità, distaccandosi dalla conflittualità, si torna a dare delle risposte e a darsi delle risposte (è questo il significato profondo dell’essere responsabili), anziché continuare a rinfacciarsi domande o pretese. Si noti che nell’art. 18 per tre volte si parla di “allevamento”, che significa anche “sollevare, levare in alto”. In caso di conflittualità i genitori sono tenuti a sollevare, tenere estraneo il bambino da quest’impasse (in tale direzione opera la mediazione), perché i bambini tendono a sentirsi colpevoli di quanto accade. Non si chiede che i genitori smettano di litigare, ma che sappiano litigare, che usino il medesimo “codice” tenendo presente, come afferma Bruno Bettelheim, che “il modo in cui il genitore vive un evento cambia tutto per un bambino, perché è in base al vissuto del genitore che egli si crea la propria interpretazione del mondo” . Lo psicoanalista austriaco, riportando una ricerca fatta sull’impatto emotivo che ebbero sui bambini i bombardamenti aerei su Londra durante la seconda guerra mondiale, riferisce che i bambini possono superare serenamente anche un conflitto “armato” e “cruento” se tranquillizzati dalla presenza e vicinanza positive di mamma e papà, dalla loro voce rassicurante. Sempre nell’art. 18 si legge: “Nell’assolvimento del loro compito essi (i genitori) debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” (nell’art. 31 comma 1 della nostra Costituzione si parla di “adempimento dei compiti della famiglia” già dal 1948). Questo assunto, unico in tutto il testo della Convenzione, dovrebbe essere sempre un monito per i genitori dal momento del concepimento (è questa la progettualità genitoriale). Si parla di “compito” al singolare per evidenziare l’unicità e l’univocità della genitorialità pur nelle “differenze” (e non “diversità”) della maternità e della paternità. I genitori in situazioni di difficoltà, invece, perdono la rotta e la mediazione familiare li guida nel riorientarsi; infatti l’obiettivo della mediazione non è tanto giungere ad un accordo quanto ad un progetto condiviso. Inoltre la locuzione dell’art. 18 “Nell’assolvimento del loro compito essi (i genitori) debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” contribuisce anche a definire la mediazione familiare stessa quale sostegno ai genitori in crisi (non solo di coppia) affinché assolvano il loro compito guidati dall’interesse superiore del fanciullo, come emerge nell’art. 4 della legge 285 del 1997 (il primo riferimento legislativo italiano alla mediazione familiare) nella cui rubrica si parla di “servizi di sostegno alla relazione genitore-figlio”. Non si tratta di un sostegno ai genitori tout court, ma ai genitori per e verso i figli, quindi è una mediazione nella mediazione. È bene riflettere anche sul significato di “compito” che può derivare dal verbo latino “complere”, completare, o da un altro verbo latino “computare”, valutare; ebbene, la mediazione sostiene i genitori tanto nel “completare” quanto nel “valutare” la loro relazione con i figli facendo della crisi un’opportunità di “revisione” (vedere, esaminare di nuovo). In tal senso la mediazione familiare, coadiuvando i genitori in difficoltà, contribuisce a garantire lo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale del fanciullo e ad assicurare le condizioni di vita necessarie a tale sviluppo (art. 27 Convenzione). In altre parole in una situazione in cui un bambino viene privato permanentemente o temporaneamente del suo “ambiente familiare” (art. 20 par. 1 Convenzione), la mediazione familiare aiuta a ridefinire il tessuto dell’ambiente familiare (inteso come complesso delle condizioni familiari esistenti attorno al bambino e in cui si svolge la sua vita) e a garantire la continuità nell’educazione (dall’art. 20 par. 3 Convenzione).

Interpretando l’art. 19 della Convenzione, la mediazione familiare è una misura (nel senso che modera, mette a confronto le relazioni) per proteggere il fanciullo contro qualsiasi forma di violenza, danno, abbandono, o negligenza o maltrattamento che possa scaturire dalla conflittualità familiare. È un “programma sociale” mirante a fornire l’appoggio necessario al fanciullo e ai suoi genitori (dall’art. 19 par. 2 Convenzione). È un “programma sociale” perché non deve vedere coinvolti solo gli esperti, ma anche gli altri soggetti interlocutori con i bambini e le famiglie, in primis gli insegnanti, tanto che nel Punto n. 14 del Documento dell’UNICEF Italia del 2005 si auspica che “La mediazione rientri al più presto nei Piani di offerta formativa, nell’ambito dell’educazione alla convivenza civile, onde fare apprendere ai giovani la gestione non conflittuale dei rapporti interpersonali”. È altresì un “programma sociale” perché l’attività mediativa consente di ridurre i costi sociali ed economici dei conflitti familiari, come si legge nella Raccomandazione R(98)1 del Consiglio d’Europa sulla mediazione familiare.

Nell’art. 24 lettera f) della Convenzione di New York si parla di “educazione dei genitori” e “informazione in materia di pianificazione familiare”, dove per “pianificazione familiare” non s’intende solo prevenzione di gravidanze indesiderate e controllo delle nascite, ma educazione alla sessualità e all’affettività, alla genitorialità consapevole e responsabile. Ebbene la mediazione familiare può essere intesa come educazione dei genitori, separandi o separati, ad una riformulazione della pianificazione familiare, in senso lato, per la salute fisica e mentale del fanciullo. Non solo la mediazione è una forma di educazione dei genitori, ma indirettamente diviene una forma di educazione dei figli, perché inculca al fanciullo il rispetto dei genitori (art. 29 lettera c Convenzione), senza cadere in patologie relazionali come la PAS (sindrome da alienazione genitoriale) o altre, e il rispetto della sua identità che, tra l’altro, da figlio di genitori conviventi diventa figlio di genitori non più conviventi, ma esprimenti differenze culturali, di opinioni, di scelte (si pensi ai casi estremi di coloro che cambiano sesso) o altro, ma pur sempre genitori. Attraverso l’esempio di pedagogia della pace o del conflitto si prepara anche il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia (art. 29 lettera d Convenzione). In particolare la mediazione mira alla comprensione (dal latino “cum”, insieme e “prendere”, prendere, afferrare), che è proprio “abbracciare, contenere, intendere a pieno”.

Mediando si consente al bambino, sollevato dalla conflittualità, di recuperare il suo diritto allo svago (letteralmente “allontanarsi da pensieri tristi”) e alle attività proprie della sua età. Gli si consente di essere bambino, senza ostacoli alla sua crescita, e così potrà partecipare “liberamente” e “pienamente” alla vita culturale ed artistica (dall’art. 31 Convenzione).

Infine si può paragonare una separazione altamente conflittuale tra coniugi con effetti devastanti sul bambino ad un conflitto armato. Prendendo spunto, perciò, dall’art. 39 della Convenzione si può dire che la mediazione familiare è una misura al fine di assicurare il recupero fisico e psicologico ed il reinserimento sociale di un fanciullo vittima di qualsiasi forma di negligenza o di qualsiasi altra forma di trattamento crudele, inumano o degradante (si pensi alla PAS). È giusto parlare di “reinserimento” perché la mediazione consente al bambino di ritornare alla sua quotidianità facendo in modo che i genitori non se lo contendano come una proprietà. La misura mediativa vuole strutturare un ambiente (una nuova compagine familiare) e un percorso (una nuova rete relazionale) che favoriscano la salute, il rispetto di sé e la dignità del fanciullo. Infatti, la legge norvegese prevede che la mediazione familiare sia anche un servizio per i bambini che li aiuta ad elaborare il cambiamento familiare.

Tutto ciò ricordando che la mediazione familiare, prima di essere una professione da iscrivere in un apposito albo, s’iscrive nell’ambito della tutela dei diritti dei minori e dello sviluppo del rispetto di tali diritti e dei diritti umani in genere, come si legge nella conclusione del Documento “Per una mediazione a misura di bambini”.

La mediazione familiare attraverso la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia

Dott.ssa Margherita Marzario

Abstract: L’Autrice presenta le specificità e la natura della mediazione familiare attraverso il tessuto normativo dell’atto internazionale, mettendo in risalto la stretta correlazione tra funzione educativa e funzione mediativa.

A differenza di alcune leggi regionali che includevano la mediazione familiare nei servizi per la famiglia o per i minori (es. art. 5 della legge regionale n. 1 del 2 febbraio 2004 della Regione Calabria “Politiche regionali per la famiglia”; artt. 5 e 6 della legge regionale n. 34 del 14 dicembre 2004 della Regione Lombardia “Politiche regionali per i minori”), la legislazione regionale più recente, seppure apprezzabile nell’impegno di legiferare in una materia negletta dal legislatore statale, continua a considerare e a definire, in una visione adultocentrica, la mediazione familiare un servizio a sostegno dei genitori in crisi. Per esempio nell’art. 2 della legge regionale del 7 ottobre 2008 n. 34 della Regione Liguria “Norme per il sostegno dei genitori separati in situazione di difficoltà” si prevedono: “interventi di tutela e di solidarietà in favore dei genitori separati in situazione di difficoltà, attraverso la realizzazione dei Centri di Assistenza e Mediazione familiare” (lo stesso vale per la legge regionale n. 37 del 30 dicembre 2009 della Regione Piemonte “Norme per il sostegno dei genitori separati e divorziati in situazione di difficoltà”). Si trascurano in tal modo le indicazioni di documenti non normativi, a livello internazionale e nazionale, come il Documento finale “Un mondo a misura di bambino” (maggio 2002) della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale dell’ONU sull’infanzia e la Petizione “La parola ai bambini”, a seguito del primo Convegno Nazionale sulla giustizia minorile dell’UNICEF Italia (svoltosi a Firenze nell’aprile 2004).

Per riportare il bambino al centro nella mediazione familiare e trarre delle direttive bisognerebbe rileggere la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989 (cosiddetta Convenzione di New York), come s’è fatto nel Documento “Per una mediazione a misura di bambini”, a seguito del secondo Convegno Nazionale sulla giustizia minorile promosso dall’UNICEF Italia (svoltosi a Bari nell’aprile 2005).

Parafrasando i capoversi quinto e seguenti del Preambolo della Convenzione si può affermare che la mediazione familiare fornisce l’assistenza e la protezione necessarie alla famiglia perché continui ad assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità. È una mediazione passiva affinché la famiglia seppure in crisi possa continuare ad essere “luogo di mediazione attiva”, com’è stata da alcuni definita.

Riconosciuto che il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione, la mediazione tenta di riportare la vita familiare allo spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di eguaglianza e di solidarietà. Questi principi devono costituire l’alfabeto cui indirizzare la coppia in crisi. In particolare i confliggenti sono portati a “com- prendere” che la solidarietà è un vincolo indissolubile anche nelle famiglie lacerate e la primaria forma di questa solidarietà è la genitorialità che, peraltro, è la naturale metamorfosi dell’intimo vincolo (etimologicamente “qualcosa che avvolge, intreccia” e quindi più forte del semplice “legame”) della coppia, ovvero della sponsalità (“farsi promesse”) e della coniugalità (“assumere lo stesso peso”), indipendentemente dalle sorti del matrimonio.

“In tutte le decisioni riguardanti i fanciulli […], l’interesse superiore del fanciullo deve costituire oggetto di primaria considerazione” (art. 3 par. 1 Convenzione); l’intervento (dal significato latino “venire in mezzo”) mediativo è finalizzato a riportare l’attenzione dei genitori, concentrati su se stessi e sulle loro rivendicazioni, dal contendersi il figlio o dallo strumentalizzarlo a confliggere (dal significato latino “far incontrare, mettere a confronto”) verso l’interesse (letteralmente “che sta in mezzo”) del bambino.

La famiglia non è solo il nucleo composto di genitori e figli ma un complesso di relazioni (nell’art. 29 della nostra Costituzione la famiglia è giustamente definita “società naturale”) non necessariamente giuridiche o fisiche, ma significative che contribuiscono alla formazione dell’identità del bambino. La conflittualità familiare mina il processo identitario e le relazioni familiari, mentre la mediazione mira a ristabilire sollecitamente questa rete (parafrasando l’art. 8 Convenzione).

La mediazione familiare dà la possibilità in un ambiente stragiudiziale, scevro da formalità e dall’esacerbazione di alcuni avvocati, di partecipare al dibattimento e di esporre le proprie ragioni (art. 9 par. 2 Convenzione). In tal modo si ristabilisce la comunicazione (dal latino “cum”, con e “munus”, onere, prestazione) che è propriamente partecipare (essere partecipe e rendere partecipe), dibattere (discutere attentamente), esporre le proprie ragioni, rendere noto all’altro il proprio carico interiore. Si prende coscienza del diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di mantenere relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori (art. 9 par. 3 Convenzione), perché la genitorialità è innanzitutto relazionalità che non si può esplicare in un assegno di mantenimento o in semplici visite prefissate.

La mediazione familiare serve anche a mettersi all’ascolto del fanciullo (art. 12 par. 2 Convenzione) ricordando che “ascolto” non è semplicemente sentire, ma (dal latino “aus”, orecchio e “colere”, coltivare, letteralmente “coltivare nell’orecchio”) è sentire attentamente, prestare attenzione. Ha la stessa origine etimologica di “cultura” (dal latino “colere”, che significa anche “curare, praticare”) e la mediazione prima di essere un servizio è una cultura, come ribadito nel Documento dell’UNICEF Italia del 2005.

La mediazione familiare accompagna i genitori in crisi di coppia a riappropriarsi (in gergo “self empowerment”) delle comuni responsabilità in ordine all’allevamento ed allo sviluppo del bambino (art. 18 Convenzione), perché un altro aspetto ineludibile della genitorialità è la comune responsabilità endofamiliare ed esofamiliare. Nella mediazione, incanalando la conflittualità, distaccandosi dalla conflittualità, si torna a dare delle risposte e a darsi delle risposte (è questo il significato profondo dell’essere responsabili), anziché continuare a rinfacciarsi domande o pretese. Si noti che nell’art. 18 per tre volte si parla di “allevamento”, che significa anche “sollevare, levare in alto”. In caso di conflittualità i genitori sono tenuti a sollevare, tenere estraneo il bambino da quest’impasse (in tale direzione opera la mediazione), perché i bambini tendono a sentirsi colpevoli di quanto accade. Non si chiede che i genitori smettano di litigare, ma che sappiano litigare, che usino il medesimo “codice” tenendo presente, come afferma Bruno Bettelheim, che “il modo in cui il genitore vive un evento cambia tutto per un bambino, perché è in base al vissuto del genitore che egli si crea la propria interpretazione del mondo” . Lo psicoanalista austriaco, riportando una ricerca fatta sull’impatto emotivo che ebbero sui bambini i bombardamenti aerei su Londra durante la seconda guerra mondiale, riferisce che i bambini possono superare serenamente anche un conflitto “armato” e “cruento” se tranquillizzati dalla presenza e vicinanza positive di mamma e papà, dalla loro voce rassicurante. Sempre nell’art. 18 si legge: “Nell’assolvimento del loro compito essi (i genitori) debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” (nell’art. 31 comma 1 della nostra Costituzione si parla di “adempimento dei compiti della famiglia” già dal 1948). Questo assunto, unico in tutto il testo della Convenzione, dovrebbe essere sempre un monito per i genitori dal momento del concepimento (è questa la progettualità genitoriale). Si parla di “compito” al singolare per evidenziare l’unicità e l’univocità della genitorialità pur nelle “differenze” (e non “diversità”) della maternità e della paternità. I genitori in situazioni di difficoltà, invece, perdono la rotta e la mediazione familiare li guida nel riorientarsi; infatti l’obiettivo della mediazione non è tanto giungere ad un accordo quanto ad un progetto condiviso. Inoltre la locuzione dell’art. 18 “Nell’assolvimento del loro compito essi (i genitori) debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” contribuisce anche a definire la mediazione familiare stessa quale sostegno ai genitori in crisi (non solo di coppia) affinché assolvano il loro compito guidati dall’interesse superiore del fanciullo, come emerge nell’art. 4 della legge 285 del 1997 (il primo riferimento legislativo italiano alla mediazione familiare) nella cui rubrica si parla di “servizi di sostegno alla relazione genitore-figlio”. Non si tratta di un sostegno ai genitori tout court, ma ai genitori per e verso i figli, quindi è una mediazione nella mediazione. È bene riflettere anche sul significato di “compito” che può derivare dal verbo latino “complere”, completare, o da un altro verbo latino “computare”, valutare; ebbene, la mediazione sostiene i genitori tanto nel “completare” quanto nel “valutare” la loro relazione con i figli facendo della crisi un’opportunità di “revisione” (vedere, esaminare di nuovo). In tal senso la mediazione familiare, coadiuvando i genitori in difficoltà, contribuisce a garantire lo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale del fanciullo e ad assicurare le condizioni di vita necessarie a tale sviluppo (art. 27 Convenzione). In altre parole in una situazione in cui un bambino viene privato permanentemente o temporaneamente del suo “ambiente familiare” (art. 20 par. 1 Convenzione), la mediazione familiare aiuta a ridefinire il tessuto dell’ambiente familiare (inteso come complesso delle condizioni familiari esistenti attorno al bambino e in cui si svolge la sua vita) e a garantire la continuità nell’educazione (dall’art. 20 par. 3 Convenzione).

Interpretando l’art. 19 della Convenzione, la mediazione familiare è una misura (nel senso che modera, mette a confronto le relazioni) per proteggere il fanciullo contro qualsiasi forma di violenza, danno, abbandono, o negligenza o maltrattamento che possa scaturire dalla conflittualità familiare. È un “programma sociale” mirante a fornire l’appoggio necessario al fanciullo e ai suoi genitori (dall’art. 19 par. 2 Convenzione). È un “programma sociale” perché non deve vedere coinvolti solo gli esperti, ma anche gli altri soggetti interlocutori con i bambini e le famiglie, in primis gli insegnanti, tanto che nel Punto n. 14 del Documento dell’UNICEF Italia del 2005 si auspica che “La mediazione rientri al più presto nei Piani di offerta formativa, nell’ambito dell’educazione alla convivenza civile, onde fare apprendere ai giovani la gestione non conflittuale dei rapporti interpersonali”. È altresì un “programma sociale” perché l’attività mediativa consente di ridurre i costi sociali ed economici dei conflitti familiari, come si legge nella Raccomandazione R(98)1 del Consiglio d’Europa sulla mediazione familiare.

Nell’art. 24 lettera f) della Convenzione di New York si parla di “educazione dei genitori” e “informazione in materia di pianificazione familiare”, dove per “pianificazione familiare” non s’intende solo prevenzione di gravidanze indesiderate e controllo delle nascite, ma educazione alla sessualità e all’affettività, alla genitorialità consapevole e responsabile. Ebbene la mediazione familiare può essere intesa come educazione dei genitori, separandi o separati, ad una riformulazione della pianificazione familiare, in senso lato, per la salute fisica e mentale del fanciullo. Non solo la mediazione è una forma di educazione dei genitori, ma indirettamente diviene una forma di educazione dei figli, perché inculca al fanciullo il rispetto dei genitori (art. 29 lettera c Convenzione), senza cadere in patologie relazionali come la PAS (sindrome da alienazione genitoriale) o altre, e il rispetto della sua identità che, tra l’altro, da figlio di genitori conviventi diventa figlio di genitori non più conviventi, ma esprimenti differenze culturali, di opinioni, di scelte (si pensi ai casi estremi di coloro che cambiano sesso) o altro, ma pur sempre genitori. Attraverso l’esempio di pedagogia della pace o del conflitto si prepara anche il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia (art. 29 lettera d Convenzione). In particolare la mediazione mira alla comprensione (dal latino “cum”, insieme e “prendere”, prendere, afferrare), che è proprio “abbracciare, contenere, intendere a pieno”.

Mediando si consente al bambino, sollevato dalla conflittualità, di recuperare il suo diritto allo svago (letteralmente “allontanarsi da pensieri tristi”) e alle attività proprie della sua età. Gli si consente di essere bambino, senza ostacoli alla sua crescita, e così potrà partecipare “liberamente” e “pienamente” alla vita culturale ed artistica (dall’art. 31 Convenzione).

Infine si può paragonare una separazione altamente conflittuale tra coniugi con effetti devastanti sul bambino ad un conflitto armato. Prendendo spunto, perciò, dall’art. 39 della Convenzione si può dire che la mediazione familiare è una misura al fine di assicurare il recupero fisico e psicologico ed il reinserimento sociale di un fanciullo vittima di qualsiasi forma di negligenza o di qualsiasi altra forma di trattamento crudele, inumano o degradante (si pensi alla PAS). È giusto parlare di “reinserimento” perché la mediazione consente al bambino di ritornare alla sua quotidianità facendo in modo che i genitori non se lo contendano come una proprietà. La misura mediativa vuole strutturare un ambiente (una nuova compagine familiare) e un percorso (una nuova rete relazionale) che favoriscano la salute, il rispetto di sé e la dignità del fanciullo. Infatti, la legge norvegese prevede che la mediazione familiare sia anche un servizio per i bambini che li aiuta ad elaborare il cambiamento familiare.

Tutto ciò ricordando che la mediazione familiare, prima di essere una professione da iscrivere in un apposito albo, s’iscrive nell’ambito della tutela dei diritti dei minori e dello sviluppo del rispetto di tali diritti e dei diritti umani in genere, come si legge nella conclusione del Documento “Per una mediazione a misura di bambini”.