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Le istituzioni e la libertà

di Raimondo Cubeddu
Libertà
Libertà

In questa raccolta di saggi accomunati dal tema unico della discrepanza fra tempo individuale e tempo delle istituzioni pubblicata nel 2007, Raimondo Cubeddu, professore ordinario di Filosofia politica all’Università di Pisa, rimarca l’inadeguatezza delle istituzioni politiche, rivelatesi incapaci, in un’epoca come questa di contrazione del tempo e dello spazio, di governare la globalizzazione (obiettivo più folle che ambizioso) e di progettare un mondo che sia razionale ed etico. Questi tentativi fallimentari impongono alla filosofia politica e dalla politica un ripensamento dei propri fini e dei propri fondamenti. La revisione degli schemi concettuali ereditati dal passato non può più essere rimandata, tenendo sempre ben presente che il fallimento della politica e delle istituzioni è l’anticamera della tirannide, mai definitivamente sconfitta.

Persino la fiducia nell’ordine liberale viene compromessa dalla rapida mutevolezza delle aspettative individuali, alle quali è diventato oggi molto difficile fornire delle risposte soddisfacenti e tempestive. E il liberalismo, sebbene consapevole di quanto il costituzionalismo e la rappresentanza siano diventati concetti inadeguati a governare la società, non è ancora riuscito a escogitare di meglio.

Raimondo Cubeddu nella sua attività di ricerca si è occupato di Karl Popper, di Leo Strauss, della tradizione politica liberale e della Scuola austriaca (Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich A. von Hayek), di Teoria delle istituzioni, di Filosofia delle scienze sociali e delle dottrine del diritto naturale. È membro corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Bologna; dei comitati scientifici di associazioni come Società Libera e Comitati per le Libertà; del consiglio d’amministrazione della Fondazione Magna Carta. Per Liberilibri ha curato anche il saggio di Carl Menger Sul metodo delle scienze sociali, ha firmato l’Introduzione a La libertà e la legge di Bruno Leoni, e la Prefazione a Democrazia: il dio che ha fallito di Hans-Hermann Hoppe.
 

Qui di seguito, un brano estratto dal libro:

 

Che le filosofie e le ideologie politiche occidentali sopravvissute alla fine del XX secolo se la passino, per così dire, male è un luogo comune difficile da smentire. I rispettivi esponenti, in genere, usano consolarsi illudendosi che quelle avversate stiano anche peggio. Ma questo, ovviamente, non risolve il problema.

È indubbio che mentre la seconda metà del XX secolo è stata forse più ricca di novità che hanno sconvolto il mondo rispetto a qualsiasi altra epoca, (esplorazioni spaziali, computer, internet, biotecnologie, crollo della natalità e della pratica religiosa nei paesi cristiani, terrorismo, etc...) nello stesso periodo la riflessione filosofica si è mossa prevalentemente nella direzione dello sviluppo e dell’affinamento di quanto elaborato nella prima parte del secolo. Non che le novità siano mancate, ma non sono paragonabili a ciò che è avvenuto nella società, nella scienza e nel costume.

Nel caso specifico della filosofia politica, la parte finale del secolo si è consumata riflettendo sui resti del marxismo e dello storicismo per tentare di salvarne qualcosa; nella riproposizione di concetti, come quello di giustizia sociale; nel proseguimento di dibattiti, come quello sulle relazioni tra mercato, etica, politica e diritto, che durano da secoli; nel tentativo di porre argine ai danni prodotti (a seconda dei gusti) dal nichilismo, dal relativismo, dallo scientismo, dalla mercificazione, e via di séguito. In poche parole su ideologie sorte, al massimo, nella prima parte del secolo.

Nella nostra epoca la filosofia politica ha quindi svolto essenzialmente una funzione di conservazione. È certamente vero che inventarsi una filosofia politica nuova, originale e adeguata ai tempi non è impresa facile; ma ciò su cui bisogna riflettere è se i mutamenti ai quali si è prima accennato non sollecitassero un ripensamento dei canoni ereditati più ampio e radicale di quello che realmente c’è stato.

Quanto l’avvento dei totalitarismi, così il fiorire e l’accreditamento della teoria democratica sono stati sicuramente il fenomeno più importante ed originale dello scorso secolo, il quale ha lasciato in eredità la credenza che i problemi sociali potessero e dovessero essere risolti tramite un incremento della partecipazione al processo delle scelte collettive. Ciò ha implicato una dilatazione delle sfere di competenza dello Stato nazional-burocratico che non ha precedenti. Tuttavia, dallo specifico punto di vista della filosofia politica, nella seconda metà del secolo la teoria democratica non ha visto rilevanti novità rispetto all’impostazione kelseniana (ovviamente il discorso è decisamente diverso se lo si affronta dal punto di vista della scienza politica e della teoria delle istituzioni). Infatti – anche se si è aperto un interessante fronte definibile come “teoria deliberativa della democrazia” – non si può certo affermare che i contributi di Rawls e di Habermas, al di là dell’impatto iniziale, abbiano dato vita a svolte originali ed avvertibili fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori; anzi, dopo aver abbondantemente attinto a Kant (o forse a causa di ciò), si sono dovute riconvertire in filosofie morali autoreferenziali.

L’estensione alla scienza politica e alla teoria delle decisioni degli strumenti analitici e metodologici elaborati dalle varie tradizioni di ricerca che vanno sotto il nome di neo-istituzionalismo, di Property Rights, e di “teorie delle complessità” – e che comunque, nonostante i punti di contatto, non devono essere confuse tra di loro – appare invece più promettente. Anche perché consente, se integrata da una teoria degli effetti sociali della distribuzione della conoscenza tra gli individui, di aprire nuove prospettive filosofiche alla teoria della scelta e quindi all’interazione tra individuo e società, superando i residui di idealismo, di ermeneutica, di positivismo e di storicismo che ancora condizionano molte tradizioni del XX secolo. […]

Ma non è il caso di coltivare illusioni; non è vero che la storia è maestra: quelle stesse idee che traversarono quasi un secolo producendo morte e miseria ovunque applicate, e che furono difese strenuamente da filosofi, messe in atto da politici e pagate dalle masse, erano nient’altro che

l’espressione storica, nella versione linguistica del positivismo e dello storicismo, di quel mito di una palingenesi che scorre parallelo alla filosofia politica e che ogni tanto la travolge.

Tant’è che oggi, e non a caso, gran parte di quelli che furono gli ultimi propugnatori della pianificazione e del mito dell’URSS, dopo un velleitario (ed in realtà nostalgico) tentativo di ‘governare la globalizzazione’, e di darle un obiettivo (ovviamente ‘etico’ e magari ispirato a criteri di giustizia sociale universale) son confluiti nel movimento verde-pacifista.

Raimondo Cubeddu, Le istituzioni e la libertà, collana Oche del Campidoglio, pagg. 312, euro 14.00, ISBN 978-88-95481-04-3.